Si tratta insomma di malattie che si evidenziano sulla pelle e divengono una sorta di marchio visibile, non solo della malattia stessa, ma anche della vergogna ad essa connessa. Per la Bibbia infatti, la lebbra è un castigo divino che punisce peccati commessi: Maria, sorella di Mosè, divenne lebbrosa a seguito del suo peccato di mormorazione (Nm 12,1-10); Davide invoca la lebbra sulla casa di Joab come castigo per l'omicidio che questi ha commesso (2Sam 3,29); in Dt 28,25-27 la lebbra è elencata fra le maledizioni rivolte al popolo di Dio se non obbedisce alla sua voce.
Alla sofferenza per la malattia, il lebbroso unisce anche il dolore e la vergogna per la colpevolizzazione, perché la lebbra lo dichiara pubblicamente peccatore e colpito da Dio. Non è solo vittima della malattia, ma ne è anche colpevole! Questo è lo sguardo che gli altri portano su di lui, questo è lo sguardo che lui stesso arriva ad assumere su di sé. Del resto la sua identità personale è espropriata dalla sua malattia: egli, dice il Levitico, "porterà le vesti strappate e il capo scoperto, si coprirà la barba e andrà gridando: Immondo! Immondo!... Se ne starà solo, abiterà fuori dell'accampamento" (Lv 13,45-46). Il lebbroso incute paura: può contagiare gli altri e perciò è abbandonato dai familiari, evitato dalle altre persone, emarginato dalla società: la società lo espelle e lo costringe a vivere in luoghi distanti dai centri abitati. Normalmente viveva in grotte o capanne e il suo sostentamento era affidato alla carità di parenti o persone misericordiose che portavano cibo e vestiti in questi luoghi, restando però sempre fisicamente a distanza dai contagiati.
Le relazioni con il lebbroso sono interdette ed egli è colpito in tutte le sfere relazionali. La sfera fisica: il suo corpo piagato gli diviene estraneo ed egli può arrivare a non riconoscersi più; la sfera famigliare, affettiva e sessuale: estromesso dalla famiglia ogni contatto con lui è tabù; la sfera sociale: allontanato dalla società, dal lavoro, dalla partecipazione alla vita del villaggio e alle attività comuni; la sfera psicologia e morale: è giudicato peccatore e colpevolizzato; la sfera religiosa: è escluso dalla partecipazione alla vita cultuale del popolo, cui potrà essere riammesso una volta che i sacerdoti ne abbiano constatato la guarigione. Insomma, poiché per la Bibbia la vita è relazione, il lebbroso, le cui relazioni sono compromesse o proibite, è un morto vivente. Egli, dice il libro dei Numeri, è "come uno a cui suo padre ha sputato in faccia" (Nm 12,14).
Per la Bibbia la lebbra è il caso di massima squalificazione sociale e personale, è l'insorgenza del caos nella vita di un uomo. Per attualizzare, potremmo pensare ai casi di persone sieropositive. Forse, l'AIDS costituisce un parallelo attuale e pregnante della situazione del lebbroso. Ora, se questa è la condizione del lebbroso secondo la Bibbia, è importante vedere come si comporta Gesù davanti a un lebbroso. Particolarmente denso appare il racconto di Mc 1,40-45: "Venne a Gesù un lebbroso e lo supplicava in ginocchio e gli diceva: "Se vuoi, tu puoi guarirmi". Mosso a compassione; (Gesù) stese la mano, lo toccò e gli disse: "Lo voglio, guarisci". Subito la lebbra scomparve ed egli guarì. E, ammonendolo severamente, lo rimandò e gli disse: "Guarda di non dire niente a nessuno, ma va, presentati al sacerdote, e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato, a testimonianza per loro". Ma quegli, allontanatosi, cominciò a proclamare e a divulgare il fatto, al punto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti, e venivano a lui da ogni parte".
Colpisce anzitutto l'atteggiamento di quest'uomo. Se la malattia a volte indurisce, incattivisce; isola, porta a una sfiducia radicale verso gli altri e la vita, quest'uomo mostra volontà di vivere e fiducia in Gesù: la guarigione trova nel malato stesso il suo più potente alleato. Anzitutto, egli supera con uno slancio vitale le barriere poste dalla società fra lui e gli altri e si fa vicino a Gesù, quindi gli dice: "Se vuoi, tu puoi guarirmi". Egli trova finalmente un "tu", qualcuno con cui relazionarsi, che non lo lascia nell'isolamento, che gli rivolge uno sguardo non omologato, diverso, di comprensione e condivisione della sua sofferenza e non di paura o di commiserazione, e così lo autorizza a guardarsi lui stesso in modo diverso, più libero e umano. Non si rinchiude nell'autocommiserazione, non si piange addosso, ma si rimette al buon volere di Gesù, quasi dicendogli: "Se è tua gioia il guarirmi, tu puoi farlo". Non pronuncia neppure una preghiera che chieda qualcosa, ma una confessione di fede: "tu puoi". Potremmo parafrasare: se ti sta a cuore di me, il cammino di guarigione può iniziare.
La guarigione emerge qui nella sua dimensione di evento relazionale. Sua premessa e il sapere che la reintegrazione del malato nella pienezza di vita è voluta da un altro, dà gioia a un altro; cioè che la sua persona e la sua vita è preziosa per un altro. Gesù allora prova compassione: si lascia ferire dalla sofferenza del malato e agisce di conseguenza entrando nella sua situazione. Lo tocca e così non solo rischia il contagio, ma si contamina e contrae impurità rituale, quella che esclude dalla partecipazione a gesti cultuali: questa esclusione è il prezzo per andare incontro a un escluso strappandolo alla sua solitudine mortale. La carità non è innocente, ma contamina, compromette. Colui che nessuno poteva e voleva più toccare si sente toccato e questo contatto è linguaggio comunicativo, linguaggio affettivo che trasmette il senso di una presenza amica, linguaggio ben colto da quella pelle che non è solo l'organo di senso più esteso del corpo umano, ma anche luogo dell'esperienza e dello scambio che noi facciamo del mondo e che il mondo fa di noi. Che uno lo abbia toccato, significa che lui stesso può riprendere contatto con se stesso, che la sua situazione di isolamento non è senza speranza.
L'incontro con l'altro, con questa compromissione tattile così significativa, può aiutare il lebbroso ad accogliere se stesso e a guardarsi con occhi nuovi. La guarigione sta avanzando a grandi passi. Ma anche a caro prezzo. Gesù si trova lui, ora, nella situazione del lebbroso: "Non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti" (Mc 1,45). Gesù prende su di sé la sofferenza dell'altro e così appare veramente come il Servo sofferente che ha assunto e portato le nostre malattie e infermità. Non a caso il testo di Is 53,4, nel testo latino della Vulgata, parla del Servo sofferente come di un lebbroso: "Nos putavimus eum quasi leprosum" ("Noi lo considerammo alla stregua di un lebbroso"). Al cuore della sofferenza e della malattia sorge la luce dell'evento della redenzione.
(da L'Ancora, n. 6, 2003)