Noi, ancora vivi e presenti in quest'esistenza, qui ed ora, abbiamo una buona memoria pasquale. Ed è proprio nella Pasqua che il nostro cuore addolorato ritrova questi volti, sublimamente sfigurati e teneramente amati.
Noi, consacrati e consacrate, abbiamo una storia gloriosa da ricordare, da raccontare e una grande storia da costruire. Ed è ricordando e raccontando la nostra storia, appunto, che troviamo motivazione e senso per proiettarci verso il futuro come suoi artefici. Questa storia è stata scritta soprattutto con il sangue di numerosi testimoni. Sono loro che ci invitano a proseguire nell'evangelizzazione e a confessare fino alla fine la nostra fede nell'amore.
Alla stregua di qualsiasi altro gruppo umano, anche noi, consacrati e consacrate, possiamo definirci come persone tenute insieme dalla memoria di un passato condiviso e dall'anelito verso un futuro migliore. La memoria sta alla base della coesione e dell'identità comune. Ricordare irrobustisce la comunione, delinea l'identità, pone le fondamenta per edificare il futuro.
E, per ragioni di vicinanza familiare, fra tanti testimoni ci metteremo in ascolto dei diciannove religiosi e religiose assassinati in Algeria tra il 1994 e il 1996. Ascolteremo soprattutto due di loro, visceralmente legati l'uno all'altro: Christian de Chergé, priore del monastero trappista dell'Atlas, e Christophe Lebreton, maestro dei novizi dello stesso monastero.
Alla sequela del Crocifisso
Per noi, che siamo persone consacrate nella vita religiosa, la sequela di Gesù è un'elezione che spiega e giustifica tutto: l'unica cosa necessaria! La ragione grande della vita consacrata all'interno della chiesa è seguire Gesù, il Signore, in virtù di un dono particolare dello Spirito.
Un'esperienza plurisecolare ci ha consentito di comprendere che Dio vuole la vita religiosa nella chiesa, affinché i tratti più significativi dell'umanità di suo figlio Gesù continuino a essere presenti e ad attirare tutti verso il Regno. A questo scopo, lo Spirito continua a distribuire gratuitamente il carisma evangelico del celibato, della povertà e dell'obbedienza ad alcuni e ad alcune seguaci di Gesù. Tutte le opzioni che definiscono il nostro stile di vita trovano il loro centro in un'unica scelta: quella di seguire Gesù che sale verso Gerusalemme per ascendere alla sua gloria, levando le braccia sulla croce del Calvario.
Questo rapporto tra vita religiosa e sequela radicale di Gesù non è un rapporto di monopolio, ma di servizio. Un rapporto che anima, che rende possibile e che indica la sequela alla quale tutti sono chiamati. Dunque, quando tutti i fedeli cristiani seguiranno Gesù per davvero, potremo dire che la vita religiosa avrà compiuto la sua missione, arrivando a vivere in pienezza la propria identità. La nostra sequela di Cristo in quanto consacrati è al servizio dell'unica sequela di Cristo da parte di tutta la chiesa; è un servizio che ne permette la realizzazione e la testimonianza.
Abnegazione e testimonianza
Il cuore della sequela cristiana di Gesù consiste nel prendere su di sé la croce dell'abnegazione (cf. Mc 8,34), affinché venga il suo Regno (cf. Mt 6,10). Gesù stesso ci offre l'esempio: "non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu" (Mc 14,36). San Benedetto – legislatore del monachesimo occidentale – è molto chiaro al riguardo; il decimo strumento delle buone opere recita: "rinnegare se stessi per seguire Cristo" (Regula Benedicti 4,10). E in cosa consiste il nostro voto di obbedienza religiosa se non nella negazione di sé, allo scopo di ascoltare la volontà divina, aderirvi e testimoniarla con la vita? Cosa implica e cosa significa, però, questa abnegazione o rinuncia a se stessi, così poco apprezzata oggigiorno?
"Rinnegare se stessi equivale a riconoscere la vita come dono ricevuto, per convertirla in dono offerto. E' sapere che la vita sgorga solo quando la si consegna. Chi perde la propria vita... la guadagna. Si possiede la propria vita... a partire dall'altro".
La sequela e l'obbedienza, intese in questo modo, sono sempre testimoniali, sono una testimonianza, sono un martirio. Martirio che, in qualche caso, può arrivare al versamento di sangue. Il martirio cruento fa parte della vita della chiesa, ed è una possibilità per i seguaci di Gesù: "Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo" (Gv 12,26). E a maggior ragione se questi discepoli pretendono di seguire il Maestro più da vicino, per essere al suo servizio nel momento del Calvario. Non si tratta, però, di uno sforzo e di una scelta umani, bensì di una risposta a un invito e a un'elezione che viene dal Signore.
Tanto per la sequela quanto per la testimonianza ed il martirio di sangue, occorre affermare che tutto il loro valore dipende dall'amore: "E se anche [...] dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova" (1Cor 13,3). Dio è amore, e la testimonianza suprema del martire è segno della presenza di Dio in lui.
I martiri sono testimoni della Pasqua di Gesù attraverso una vita e una morte che riflettono l'oblazione del Signore: "Sarete miei testimoni..." (At 18). Le loro stesse vite sono già state una testimonianza-martirio, nella misura in cui si sono consumate per il prossimo, alla ricerca non del proprio interesse, ma di quello altrui. Chi offre la vita al servizio di altri, affinché questi abbiano la vita, corre il rischio che qualcun altro attenti alla sua vita. Dal martirio quotidiano – il "morire ogni giorno" (cf. 1Cor 15,31; 2Cor 4,10-12) – al martirio cruento, il passo può essere molto breve.
Morte violenta e morte civile
Il martirio dell'amore quotidiano e il martirio di sangue si completano e si richiamano a vicenda. Potrà versare il proprio sangue come testimonianza soltanto chi lo avrà quotidianamente versato in gocce d'amore e di servizio al prossimo. Il martirio di sangue è la suprema testimonianza della verità della fede attraverso la forza dell'amore. Il martire rende testimonianza al Cristo, morto e risorto, cui lo unisce la carità. Gli Atti dei martiri, quelli di ieri e quelli di oggi, costituiscono un archivio della verità e dell'amore scritto con il sangue, e forniscono una testimonianza della fede nella risurrezione.
Le condizioni esterne del martirio cambiano con le epoche, le geografie e i contesti culturali. A dire il vero, oggi risulta più difficile distinguere i dati politici e sociali da quelli religiosi, per riuscire a discernere cosa sia vero martirio. Ciononostante, dal punto di vista della vita e della spiritualità è consigliabile ampliare il concetto di martirio, affinché sia data la prevalenza all'atteggiamento interiore. In questo senso, possiamo dire che il martire è colui che muore in modo violento per via della sua decisione di restare fedele ai propri impegni cristiani. Così facendo, egli, come Cristo, offre la prova d'amore più evidente, dal momento che muore per Dio e per gli esseri umani. Diciamo che alla chiesa non basta celebrare e proclamare Cristo morto e risorto: ha bisogno di renderlo presente in forma visibile attraverso qualcuno dei suoi membri. I martiri muoiono in Cristo nella speranza di risorgere in lui.
Durante le persecuzioni dei primi secoli cristiani, le pene abituali erano la morte, la deportazione o l'esilio. Oggi, al carcere, ai campi di concentramento o di lavoro forzato, all'espulsione dalla propria patria si sono aggiunte altre pene meno appariscenti e più sottili: non solo la morte fisica, ma anche la morte civile; non solo la segregazione in carcere, ma anche la restrizione permanente della libertà personale o la discriminazione sociale. Esistono attualmente migliaia e migliaia di testimoni della fede, spesso ignorati o dimenticati, conosciuti soltanto da Dio.
Diamo la parola ai testimoni!
Non posso continuare a teorizzare. Non ho ancora versato il mio sangue per testimoniare Gesù, benché il mio cuore sia stato lavato nel sangue dei miei fratelli martiri. Desidero che siano essi stessi, adesso, a parlarci: Christian e Christophe. Lo faranno a nome dei 19 consacrati e consacrate che recentemente hanno reso testimonianza all'amore di Gesù nelle torturate terre dell'Algeria. Era il mese di ottobre del 1993. Il Gruppo islamico armato (GIA) inizia le sue azioni belliche contro gli stranieri che risiedono in Algeria.
Tre agenti consolari vengono sequestrati e poi rimessi in libertà, con un messaggio angosciante: tutti gli stranieri devono abbandonare il paese nel giro di un mese. Alla scadenza, il GIA assassina quattro stranieri per attestare la serietà dell'avvertimento.
Il 14 dicembre, dodici croati cattolici, che i nostri fratelli conoscevano, vengono sgozzati a Tamesguida, a pochi chilometri dal monastero. L'attentato viene rivendicato dal GIA.
Alcuni giorni dopo, nella notte di Natale, i fratelli dell'Atlas ricevono la visita del GIA. Viene richiesto loro un aiuto economico, medico e logistico. Cercano di guadagnare i monaci alla loro causa. Si accomiatano con una promessa: "Ritorneremo".
Il numero delle vittime e degli attentati cresce in maniera vertiginosa. L'8 maggio cadono i primi testimoni della chiesa cattolica che vive e soffre in Algeria: Henri Vergès (marista) e Paule Hélène Saint Raymond (piccola sorella dell'assunzione). Padre Christophe dell'Atlas annota nel suo diario: "Questa testimonianza passa attraverso delle serve e dei servi – amici – e viene da più lontano – e si fonde con l'eucaristia" (Diario, 10.5.1994).
Le sorelle Caridad Marìa Alvarez ed Esther Alonso (missionarie agostiniane) saranno assassinate il 23 ottobre. Il giorno successivo padre Christophe scrive: "Sulla porta della chiesa, all'ora dell'eucaristia che esse hanno celebrato nella verità" (Diario, 24.10.1994).
Giunto così il 25 novembre dello stesso anno, i vescovi d'Algeria interpretano con una sorprendente lucidità contemplativa il senso profondo di ciò che stanno vivendo. Essi scrivono:
"Nella crisi che attraversa attualmente l'Algeria, più che in qualsiasi altro momento, la nostra vocazione cristiana appare in tutta la sua purezza. E' un invito a seguire il Cristo sulla via per la quale egli fa della propria vita un'offerta per il popolo. In tale offerta, si esprime la tenerezza di Dio per tutti. Desideriamo realizzare, in Algeria, l'alleanza di Dio con tutti gli uomini, quell'alleanza di cui la Bibbia ci ha fatto scoprire il senso attraverso la storia della salvezza [...] Il popolo, per il quale siamo chiamati a consacrare la nostra vita, si riconosce in un cammino religioso diverso dal nostro, quello dell'islam. L'offerta della nostra vita passa al di là delle barriere che costituiscono le differenze d'identità religiosa. Essa testimonia inoltre un progetto di Dio che riguarda tutta l'umanità e che tende a realizzare la sua comunione tra tutti gli uomini. Annunciando che il regno di Dio è vicino, è questo progetto che Gesù vuole predicare e mettere in opera attraverso la sua vita, morte e risurrezione. Giovanni scrive che era necessario che Gesù morisse per il popolo e non solo per il popolo, ma per riunire tutti i figli di Dio che erano dispersi (cf. Gv 11, 50-52)" (Lettera dei vescovi di Algeria, ,Tunisi, 25.11.1994).
I padri bianchi di Tizi-Ouzou: Jean Chevillard, Christian Chessel, Alain Dieulangard e Charles Deckers sono assassinati il 27 dicembre 1994, "offerti con l'Amico seguito fino all'estremo...", scriverà padre Christophe (Diario, 28.12.1994).
Lunedì 4 settembre 1995, ancora una volta, padre Christophe annota nel suo diario: "Questa notte, prima dell'Ufficio, Christian ci annuncia che due nostre sorelle, Vivianne e Angela, sono state assassinate domenica sera a Belcourt (Algeri), all'uscita dalla messa. Leggo e rileggo l'Apocalisse. In cammino, lettore. Sì, si tratta di te, Agnello vincitore e sgozzato. Di te, che presto verrai. E io vorrei essere preso dentro il tuo movimento di vita donata". E il giorno seguente continua nella sua annotazione: "Questo annuncio nella notte continua a parlarmi: scoperta di Gesù Cristo, rivelazione di te: "due nostre sorelle, Vivianne e Angela..." ha detto Christian, che senz'altro aveva dormito ben poco. Sì, fra le nostre sorelle, due, sorelle in modo del tutto particolare nell'amore crocifisso".
E l'onda delle uccisioni non si ferma. Continua a travolgere vittime consacrate, tra molte altre. Il 10 novembre 1995, sarà suor Odette Prévost che renderà testimonianza. Padre Christophe racconta nel suo diario: "Alla fine di Terza, Christian ci annuncia la morte di suor Odette e di suor Chantal, piccole sorelle del Sacro Cuore, assassinate nel loro quartiere. Perché gli "altri" divengano un'offerta santificata nello Spirito, gradita a Dio, non c'è altro mezzo: offrirsi in te, con te, per mezzo di te. Chantal è rimasta soltanto ferita" (Diario, 11.11.1995, alla data del 7.11.1995).
Alcuni giorni dopo, il 21 novembre, i fratelli dell'Atlas redigono una relazione estesa, prolissa, dal titolo Come, nella situazione presente, viviamo il carisma del nostro ordine. In questo documento prezioso, una specie di carta d'identità comunitaria, leggiamo:
"Presenza della morte. Secondo la tradizione, essa è l'assidua compagna del monaco. Questa compagnia ha assunto un'intensità più tangibile a causa delle minacce dirette, degli assassini che sono avvenuti molto vicino a noi e a certe visite. Essa diventa per noi come un test di verità certamente inquietante. Dopo il Natale del 1993, noi tutti abbiamo scelto (ri-scelto) di vivere qui, insieme. Questa scelta era già stata preparata dalle rinunce anteriori di ciascuno (alla famiglia, alla comunità di origine, al proprio paese...). E la morte brutale – di uno di noi, o di tutti insieme – non sarebbe che la conseguenza di questa scelta di vivere nella sequela di Cristo (anche se non è previsto direttamente, in quanto tale, nelle nostre Costituzioni!). Il nostro vescovo ci invita spesso, con la parola e con l'esempio, a lasciarci ricondurre così al fondamento stesso della nostra "offerta della vita"" (21.11.1995).
Monaci più che martiri!
Un paio di anni fa, nel marzo 1994, m'incontrai con Christian in Francia, nel monastero di Timadeuc. Parlammo a lungo della situazione in Algeria e, più concretamente, delle possibili conseguenze della visita che il GIA aveva fatto loro alla vigilia del Natale 1993. Gli parlai della situazione terribile in cui si trovavano i nostri fratelli di Banja Luka (Bosnia) e le due comunità angolane a Huambo. Gli raccontai che avevamo predisposto tutto, in caso di necessità, per trasferire temporaneamente la comunità di Marija-Zvijezda a Engelszell in Austria. Comprese che era in ballo anche la permanenza in Algeria della comunità dell'Atlas. Fu così che, sorridendo, quasi a creare un clima disteso, gli dissi: "L'ordine non ha bisogno di martiri, ma di monaci" o, più precisamente: "L'ordine ha più bisogno di monaci che di martiri". Mi ascoltò e rimase in silenzio. Poi mi guardò e disse, sorridendo: "Non c'è opposizione...". In concreto, questo significava, per lui e per i suoi fratelli, rimanere a Tibhirine, salvo che in presenza di chiari segnali in senso contrario. Con un abbraccio, gli manifestai il mio totale accordo.
Al di là delle decisioni concrete da prendere, però, le parole dette da Christian durante il nostro colloquio schiudevano una riflessione sul mistero del martirio cristiano oggi, qui e là. Non sapevo in quel momento che Christian aveva già scritto un testamento nel quale parlava del martirio: "Non vedo come potrei rallegrarmi del fatto che questo popolo che io amo venga indistintamente accusato del mio assassinio. Sarebbe pagare a un prezzo troppo alto ciò che verrebbe chiamata, forse, la "grazia del martirio" doverla a un algerino, chiunque sia, soprattutto se egli dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l'islam".
Alcuni giorni dopo, ritornando a Tibhirine, Christian mise al corrente della nostra conversazione Christophe, il quale scrisse nel suo diario: "Padre Bernardo si rivolge a me quando dice a Christian (a Timadeuc): "L'ordine ha più bisogno di monaci che di martiri!". Occorre prendere queste parole come sono state dette: con umorismo e umiltà" (Diario, 12.03.94). In effetti, a che serve sognare la palma del martirio, se non si testimonia il Vangelo con l'osservanza monastica di ogni giorno? Essere monaci giorno per giorno è come essere martiri del quotidiano. Occorrono più coraggio e forza d'animo per mantenere alta la testimonianza con la vita di ogni giorno che per testimoniare una sola volta con un atto supremo, per quanto supremo esso sia. Quello era il martirio che io auguravo loro. Non potevo augurargliene altro. Era importantissimo per l'ordine poter offrire una presenza monastica nella chiesa d'Algeria. Essi sapevano bene che il martirio di sangue è un dono che il Signore fa come grazia agli umili e che, quindi, nessuno potrebbe arrogarsi il titolo di umile per farsi creditore di tale grazia.
A ogni modo, la risposta di Christian era stata assai opportuna: "Non c'è contraddizione". L'ordine, la chiesa, il mondo, noi tutti abbiamo bisogno di testimoni fedeli che parlino con parole di vita... pronti a sottoscriverle, se necessario, con lettere di sangue scaturite dalla fonte ineffabile del primo amore.
Martiri della speranza
Poche settimane più tardi, durante il Triduo sacro di quell'anno 1994, Christian predica e presenta Gesù come martire dell'amore, della nonviolenza, dell'innocenza e della speranza; modello che illumina il nostro cammino e ci invita a seguirlo. E, parlando del martirio dell'amore quotidiano, ci dice:
"Sappiamo dall'esperienza che le piccole cose spesso costano molta fatica, soprattutto quando devono essere ripetute ogni giorno. Lavare i piedi dei fratelli il giovedì santo si può anche fare, ma se dovessi lavarglieli quotidianamente? E se dovessi lavarli a chiunque? Quando padre Bernardo ci dice che l'ordine ha più bisogno di monaci che di "martiri" non si riferisce evidentemente a questo martirio monastico delle piccole cose. Noi abbiamo consegnato a Dio il nostro cuore "nel molto", ma ci costa di più che egli se lo prenda "nel poco"" (Giovedì santo, 31.03.94).
Questo martirio del quotidiano non è altro che il martirio della speranza, un martirio appropriato alla quotidianità della vita consacrata: "Mi sembra che riceviamo oggi in sovrappiù la vocazione a quel martirio che ci è stato destinato, il martirio della speranza. Oh, non si tratta di un martirio né glorioso né brillante! Si adatta esattamente alle dimensioni del quotidiano. Definisce da sempre lo stato monastico: passo per passo, goccia a goccia, gomito a gomito, una parola dopo l'altra... e tutto ciò che si deve ricominciare, regolarmente, ogni mattina, anche durante la notte... e ciò che si deve continuamente ruminare, correggere, discernere e, soprattutto, ascoltare" (Veglia pasquale, 1994).
In una lettera del 5 luglio di quello stesso anno, Christian, riferendosi a fratel Henri, marista, scrive: "Mi sembra che egli appartenga alla categoria di quelli che io chiamo "martiri della speranza", coloro dei quali non si parla mai, perché è nella pazienza del quotidiano che essi versano tutto il loro sangue. E' così che io intendo il "martirio monastico"". Tornerà sul tema il 17 luglio, nella memoria dei primi martiri dell'Africa: essi gli offrono l'occasione di parlare degli "oscuri testimoni di speranza". In questi testi, dunque, troviamo, ripresi e ampliati, i concetti fondamentali espressi sinteticamente nel suo testamento.
La voce dei santi martiri
Christophe, dal canto suo, approfondisce il senso del martirio con l'aiuto dei santi: san Thomas Becket, le sante Perpetua e Felicita.
"Ieri mattina sono stati assassinati a Tizi Ouzou i padri J.M. Chevillard, A. Dieulangarde, C. Deckers e C. Chessel, immolati con l'Amico che hanno seguito fino all'ultimo. "Un martire cristiano non è qualcosa di accidentale. Ancor meno il martirio del cristiano può essere il risultato della volontà dell'uomo di diventare un martire, a forza di volontà e di sforzi, così come un uomo, a forza di volontà e di sforzi, può diventare un capo. Un martire, un santo è sempre tale per volontà di Dio, per il suo amore verso gli uomini, che li avverte e li guida e li riconduce sui suoi sentieri. Un martire non è mai frutto del progetto di un uomo, perché vero martire è colui che si fa strumento di Dio, che ha annullato la propria volontà nella volontà di Dio e, così facendo, non l'ha perduta ma ritrovata, poiché ha trovato la libertà nella sottomissione a Dio. Il martire non desidera nulla per se stesso, nemmeno la gloria di subire il martirio", Thomas Becket" (Diario, 28.12.1994).
"(7.3.1995) Martedì. Festa: Perpetua e Felicita, sante martiri. Durante l'ufficio notturno ascoltiamo il racconto del loro martirio, che è una vera liturgia. Quando anche noi saremo portati verso questa verità cristica, saremo compenetrati della gioia, della pace, dell'amore che egli ci dona (espresso nel rito del bacio della pace)? E' una liturgia pasquale: le due donne restano in piedi. Ufficio della Croce.
Perpetua, per quanto la riguarda, deve fare l'esperienza del dolore
colpita alle costole
gettò un alto grido.
Non posso darmi altro nome che
il mio vero nome.
Sono cristiano,
Christophe".
Quest'ultima espressione – "Sono cristiano, Christophe" – costituiscono una professione di fede, in comunione con la professione di Perpetua e di Felicita. Ed esprimono anche una comunione con la causa della condanna a morte, comunione, in definitiva, con il martirio.
Un'ultima meditazione quaresimale
Infine, durante un ritiro quaresimale – l'ultimo per lui su questa terra –, Christian, tornando sul nostro dialogo a Timadeuc, dirà: "Nel momento in cui eravamo tanto scossi come comunità, consultai telefonicamente l'abate generale [Christian si riferisce in realtà al nostro incontro a Timadeuc, nda]. Mi rispose con questa battuta: "L'ordine non ha bisogno di martiri, ma di monaci". Ha forse voluto dire: non mettetevi in situazioni pericolose? Se l'ordine ha bisogno di monaci, la vera domanda non è piuttosto: l'ordine ha bisogno che noi siamo monaci nella realtà in cui viviamo? La chiesa ha bisogno della presenza di monaci in ogni situazione che si trova a fronteggiare? O ancora: il paese ha bisogno della presenza di monaci, ha bisogno di noi?... Ebbene, noi in quel momento abbiamo risposto "sì". [...]. Su L'Eco di Orano leggiamo che uno studente africano, di ritorno al suo paese durante l'estate, ha chiesto a suo nonno che cosa pensava del fatto che molti gli avessero consigliato di non tornare in Algeria. Il nonno ha risposto: "Devi andare dove bisogna lottare per vivere, perché è lì che la tua vita raggiungerà la sua pienezza" [...]. Perciò, occorre rimanere saldi nella pazienza e partecipare attraverso di essa alle sofferenze di Cristo [...], senza volersi affrettare verso il futuro, che appartiene solo a Dio. La speranza esiste solo quando si accetta di non vedere il futuro" (Ritiro, 8.3.93).
Dopo avere parlato a lungo della chiesa come "incarnazione continua" nella storia, Christian affronta il tema della morte. Più specificamente, il quinto comandamento: non uccidere. E' la naturale conseguenza di ciò che è stato detto sopra. In effetti, l'incarnazione si risolve con un assassinio e con la redenzione. In quel contesto, rievoca il suo incontro alla vigilia di Natale del 1993 con Sayah Attiah, emiro del GIA e responsabile della morte di tantissime persone. Quando Christian racconta l'accaduto, Sayah è ormai morto proprio come aveva vissuto, in modo violento. Christian ci dice:
"Dopo la sua morte, tentai d'immaginare il suo arrivo in paradiso, e davanti al buon Dio mi pare di avere il diritto di presentare in suo favore tre circostanze attenuanti. Anzitutto, non ci sgozzò. La seconda attenuante sta nel fatto che uscì, quando gli chiesi di farlo. Inoltre, quando morì a pochi chilometri dal monastero, ferito e agonizzante per nove giorni, così come aveva accettato di non ricorrere al nostro medico e di venirlo a cercare – il nostro fratello Luc a causa della sua età non può uscire dal monastero –, tenendo fede a ciò, non venne. Ed ecco la terza circostanza attenuante: alla fine del nostro incontro, quella sera, gli dissi: "Noi ci stiamo preparando alla celebrazione del Natale, che per noi significa la nascita del principe della pace, e lei viene in casa nostra armato". Mi rispose: "Chiedo scusa, non lo sapevo". Io non tento di coprire nessuno... Non spetta a me giudicare; è vero che i suoi crimini sono orribili, ma non è una "bestia immonda", come alcuni lo definiscono. Adesso tocca a Dio mettere in atto la sua misericordia" (Ritiro, 8.3.96).
Testimonianza di perdono
Il nostro fratello Christian, in riferimento alla proibizione divina di uccidere, trae tre conseguenze: la possibilità del martirio, la necessità di pregare per i nemici e la grazia di poter perdonare. Non per niente, "Perdono" – Ar Rahaman – è il primo nome di Dio nella litania dei 99 nomi divini della tradizione musulmana.
Il martirio, come testimonianza d'amore, include il perdono. E' proprio questo il dono perfetto che Dio ci concede senza alcuna riserva. Il mistero della croce non risiede in due legni incrociati tra loro, bensì in un uomo con le braccia aperte e ben stese per abbracciarci e perdonarci.
Come non evocare qui le ultime parole del testamento di Christian, testamento cominciato lo stesso giorno anniversario dell'uccisione di P. Charles de Foucauld?
"Venuto il momento, vorrei poter avere quell'attimo di lucidità che mi permettesse di chiedere il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, perdonando con tutto il cuore, nello stesso momento, a chi mi avesse colpito. [...]
E anche tu, amico dell'ultimo istante,
che non saprai quello che starai facendo,
sì, anche per te io voglio dire questo GRAZIE, e questo AD-DIO,
nel cui volto ti contemplo.
E che ci sia dato di incontrarci di nuovo, ladroni colmati di gioia,
in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due.
Amen. Inch'Allah".
Oppure queste altre parole, piene di poesia e realismo, di Christophe: "I nostri nemici, tu li consegni nelle nostre mani oranti. Tu ci affidi il perdono, nella forza del tuo Spirito di verità, per inserirlo nella storia dell'Algeria, per iscriverlo in essa come nostro contributo cristico al suo riscatto..." (Diario, 19.1.94).
Tutto ciò è un'eco perfetta dell'ultimo desiderio di fratel Henri, espresso in una lettera postuma a Christian: "Nei nostri rapporti quotidiani, prendiamo apertamente le parti dell'amore, del perdono e della comunione contro l'odio, la vendetta e la violenza". (Lettera, 4.2.94).
Soltanto il perdono può rompere la catena dell'odio e della violenza. Perdonare è un atto di profondo rispetto che permette di scoprire in colui che ci ha offeso, al di là di ogni dissomiglianza, l'immagine di Dio. Perdonare è riconoscere e proclamare che, nonostante la nostra cattiveria e la nostra ignoranza, Dio riconosce tutti noi come figli e figlie amati visceralmente. Perdonare è testimoniare, malgrado tutto, il nostro essere figli di Dio e la fratellanza universale. La parola di perdono è la più consona al cuore del martire in quanto testimone fedele dell'amore.
Parole di perdono che trovano la loro fonte e la loro origine nell'unico Testimone fedele (cf. Ap 3,14): "Quando giunsero al luogo detto Cranio, là crocifissero lui e i due malfattori [...]. Gesù diceva: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno"" (Lc 23,33-34). Parola di perdono che ha attraversato e continuerà sempre ad attraversare la storia dell'umanità, fino alla fine dei tempi. Parole riprese da tanti cristiani per essere – per Cristo, con Cristo e in Cristo – veri testimoni.
Martiri per la "gloria di Dio"
Quanto detto fin qui ci dimostra che i nostri fratelli non sono stati "martiri d'occasione". Erano ben consapevoli di non cercare la morte, ma di vivere al servizio di Dio e del prossimo. Sapevano anche che, quando si vive così, qualcuno può sempre venire, e sarà qualcuno che "ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi" (Gv 21,18).
Ed è proprio quello che è successo la notte del 26 marzo 1996. Non c'è bisogno qui di raccontare tutta la storia. Ma resta chiaro che essi vissero e morirono per Gesù e per il Vangelo. Un mese dopo il sequestro, il quotidiano Al Hayat pubblicava lunghi passi del comunicato n. 43 del GIA, recante la data del 18 aprile. L'emiro del GIA non riconosceva l'aman, cioè la protezione concessa al monastero dal suo predecessore. Per di più, questa "protezione" non sarebbe stata lecita, in quanto i monaci, come riporta il comunicato, "non hanno cessato di invitare i musulmani a vivere secondo il Vangelo, di sottolineare i loro slogans e i loro simboli e di commemorare solennemente le loro feste". L'emiro afferma inoltre: "I monaci che vivono in mezzo al popolo possono essere lecitamente uccisi", e questo è il caso dei monaci dell'Atlas. "Essi vivono con la gente e l'allontanano dal cammino di Dio, incitandola ad abbracciare il Vangelo". E termina dicendo: "E' dunque lecito applicare a loro ciò che si fa ai miscredenti quando sono soldati prigionieri: e cioè l'uccisione, la schiavitù o lo scambio con dei prigionieri musulmani". Infine, viene l'avvertimento: la non liberazione dei prigionieri del GIA avrà come conseguenza la morte dei monaci. "A voi la scelta. Se mettete in libertà, noi metteremo in libertà, se voi rifiutate, noi sgozzeremo. Lode a Dio".
Il 21 maggio un nuovo comunicato (n. 44) del GIA: la sua conclusione non lascia spazio a dubbi. "Fedeli alla parola data, abbiamo tagliato la gola ai sette monaci, gloria a Dio, e questo è stato eseguito questa mattina, 21 maggio".
I nostri fratelli sono stati condannati a morte a causa del Vangelo che professavano. Condannati a morte per la "gloria di Dio". Era arrivato per loro il momento in cui quelli che li stavano ammazzando pensavano di dare "culto a Dio" (cf. Gv 16,2).
Vita donata, spezzata e risuscitata
Seguire Cristo è il fondamento essenziale e originale della vita cristiana: quindi è valido per ogni cristiano, senza distinzione di stato, ma lo è a maggior ragione per coloro che fanno professione di seguire Gesù più da vicino, come le discepole di Galilea. E non si tratta soltanto di ascoltare un insegnamento o di adempiere un comandamento, ma di qualcosa di ben più radicale: avanzare nel cammino, spogliarsi di se stessi, aderire alla persona stessa di Gesù, condividerne la vita e il destino fino alla fine, partecipare alla sua obbedienza libera e amorosa alla volontà del Padre, donare la propria vita in comunione con la sua vita donata.
In particolare, la testimonianza dei nostri martiri c'insegna che non si può seguire da vicino senza la testimonianza o il martirio. Il carisma della vita consacrata trova il suo naturale sviluppo nel carisma del martirio. Il luogo più appropriato per la persona consacrata è là dove si trova il suo Signore crocifisso.
L'1 agosto 1996, mons. Pierre Claverie, religioso domenicano, vescovo di Orano, fu barbaramente assassinato. Verso le 22, una bomba innescata a distanza mise fine alla sua vita e a quella del suo autista. Alcune ore prima, aveva preso parte, insieme al ministro degli esteri francese, a una cerimonia in memoria dei sette monaci uccisi il 21 maggio. A un collega che gli ricordava l'invito fatto dal governo francese ai propri cittadini di abbandonare il paese, egli aveva risposto: "I religiosi non dipendono da nessun governo, dipendono dalla chiesa, e in Algeria, la chiesa è algerina; il suo futuro è legato al futuro di questa terra, succeda quel che succeda". In un'altra occasione simile ebbe a dire: "Il posto dei cristiani è nelle fratture del mondo: non si è autenticamente cristiani se non ci si espone con la propria vita laddove l'umanità è spezzata".
La testimonianza del martire è destinata, anzitutto, alla comunità dei credenti; serve a stimolarli a essere fedeli alla fede ricevuta, soprattutto alla fede nella risurrezione. E' Cristo stesso che agisce nei suoi martiri, e perciò essi testimoniano la continuità della storia della salvezza e la presenza del Signore fra i suoi discepoli e seguaci. Essi mettono alla prova e irrobustiscono la nostra fede e il nostro amore lungo il cammino della sequela; una fede e un amore che non hanno "ancora resistito fino al sangue nella [...] lotta contro il peccato" (Eb 12,4).
"In questa notte santissima, ripetiamo il "sì" del nostro battesimo a colui che ci precede in terra come in cielo (e, adesso, in cielo come in terra); uniamoci al seguito di quei testimoni che dichiariamo giusti e santi perché hanno saputo sperare contro ogni speranza. Dal profondo dell'ammutolimento e della paura, come dall'interno del sepolcro, la speranza può risalire, viva come un grido, il grido del testimone, del martire, generazione dopo generazione: "E' risorto, alleluia!"" (Christian, Veglia pasquale, 2-3.4.94).
Roma, 20 ottobre 1997.