Il linguaggio e la comunicabilità
dello spirituale oggi
di Carlo Molari
Lo spirituale
(...)
Il concetto di spirituale è molto ampio. Può infatti includere anche l'ambito divino o di esseri celesti. In questa sede però non ci si riferisce a realtà divine o celesti (Dio o angeli), bensì a realtà umane e create, all'esperienza della persona e alla sua dimensione spirituale.
In questo ambito il significato del termine « spirituale » dipende dall'orizzonte antropologico in cui è inserito. Quando era in auge il modello anima/corpo in una concezione statica dell'universo, il carattere spirituale della persona era affidata all'anima quale principio immateriale e immortale. Lo sviluppo dello spirituale veniva descritto in contrapposizione all'ambito fisico e psichico dell'uomo con maggiore o minore accentuazione del contrasto e del dualismo, secondo le tendenze delle diverse culture e delle spiritualità conseguenti. In questa linea «la tentazione più frequente era quella gnostica, cioè il considerare lo spirituale come qualcosa di etereo, impalpabile, immateriale e dunque in opposizione a ciò che si tocca, al materiale, al corporeo. Nella modernità questo scisma di fondo... ha acquisito delle sfumature ancora più pericolose... in quanto lo spirituale... progressivamente si è identificato con il pensiero, con le idee, con la volontà, aprendo così la possibilità a deviazioni vere e proprie di razionalismo spirituale, di idealismo, di volontarismo, in forte contrapposizione con la dimensione corporea o con la dimensione attiva dell'uomo, del suo intervento nel mondo materiale, sociale ed economico » (1). Assumendo, invece, il paradigma dinamico/evolutivo per interpretare il mondo e un modello antropologico unitario, lo spirituale concerne tutta la persona, perché costituisce il traguardo del suo divenire personale ed è coinvolto in tutte le esperienze perché attraversa tutta la storia. La persona nasce struttura materiale ed è condotta fino ad acquisire una forma spirituale.
Acquisite queste premesse per l'analisi dello spirituale si aprono tre vie possibili:
- o analizzare le conseguenze che a lunga scadenza dovrebbero derivare nella vita spirituale e nella sua comunicazione dai cambiamenti culturali in atto;
- o analizzare le incidenze che di fatto essi hanno avuto fino ad ora nelle diverse spiritualità del mondo e in particolare nel mondo cristiano;
- o, infine, presentare una modalità concreta per esprimere l'esperienza spirituale quale viene vissuta oggi nella comunità cristiana.
Ho scelto questa via che credo più adatta alle vostre riflessioni e più rispondente alle vostre attese. Cerco quindi di descrivere lo sviluppo della dimensione spirituale della persona secondo le categorie dinamiche ed evolutive. Lo faccio in tre momenti: uno generico, chiedendomi a che cosa ci si riferisce quando si parla dello spirituale in ambito antropologico; l'altro più specifico in rapporto all'ambito religioso/teista e, infine, mi chiedo che cosa caratterizzi lo spirituale cristiano.
NOTE
1) M. RUPNIK, Teologia spirituale, in Teologia, «Dizionari S. Paolo», Cinisello Balsamo 2002, pp. 1762 s.
1. Esperienza spirituale
Nella persona umana possiamo distinguere quattro dimensioni: materiale, biologica, psichica e spirituale. La dimensione materiale è quella per cui siamo inseriti nell'universo e attraversati dalle quattro o cinque forze fondamentali che strutturano la materia. Siamo polvere di stelle, in quanto gli atomi che ora costituiscono il nostro corpo sono stati assemblati in grandi stelle della prima o seconda generazione, e siamo collegati a tutto il cosmo, da cui continuamente ci pervengono messaggi energetici. La dimensione biologica ci collega a tutti i processi della vita sulla terra. Siamo infatti l'espressione più complessa dell'avventura iniziata circa 3 miliardi e 800 milioni di anni or sono sul nostro pianeta. La dimensione psichica è il regno dei rapporti umani centrato sul soggetto, che ha la sua forma più elevata nell'esercizio dell'amore. La dimensione spirituale, infine, comincia a svilupparsi quando il soggetto scopre e vive consapevolmente il suo inserimento nel grande processo della Vita e la sua dipendenza dal Tutto.
Come creature noi facciamo un'esperienza a doppia faccia e con un duplice messaggio. Il messaggio interno dice: « tu non sei la vita », il secondo messaggio precisa: « ma la vita è ». Per cogliere il senso del primo messaggio l'uomo deve scoprire di non essere compiuto e di trovarsi in un processo di crescita. Per concludere che la vita è, egli deve percepire l'energia vitale come una forza positiva che lo attraversa ed è più ricca di quanto egli riesca ad esprimerla. Il nucleo centrale dell'esperienza spirituale consiste appunto nel percepire di essere parte di un'avventura più grande, inseriti in una storia vitale molto più ricca e densa, avvolti da una energia immensa. Anche il filosofo Roger Garaudy, a 80 anni, al compimento del suo cammino ha compreso che la vita spirituale: « è l'esperienza di una chiamata ad essere di più, è la presa di coscienza di una forza che è in noi senza appartenerci... Questa esperienza non può essere descritta con concetti o con parole, come quelli che ci consentono di definire le cose già presenti o già esistenti » (2). Egli ammette che è possibile pervenire alla radice di questa esperienza senza mai nominare Dio o l'assoluto, ma sostiene che, in ogni caso, essa esige che l'uomo oltrepassi gli ambiti della ragione fino a vivere una fede, che egli pervenga all'amore oblativo così da superare le barriere dell'io e cogliere il centro della persona.
Infine essa esige che l'uomo percepisca la trascendenza della vita. Questa consiste nel fatto che io prendo coscienza « di una realtà che mi sovrasta e alla quale io appartengo, nella quale io divento uno con il tutto » (3).
I cammini che conducono l'uomo alla percezione di questa appartenenza al tutto, all'esperienza immediata della forza di vita e delle sue sorgenti, sono i sentieri dell'interiorità, là dove egli è in grado di amare senza riserve perché è pronto a morire. Ma in quello stesso luogo egli scopre il mistero della vita e il segreto della gioia; esso riserva per l'uomo sorprese continue perché consente la percezione del sé profondo, o l'acquisizione dell'identità che la Vita ha realizzato in lui. Questo spiega perché esistono spiritualità elevate che prescindono completamente da Dio, come lo Zen, o anche lo negano.
Le tappe quindi del cammino spirituale nella forma generica e universale possono essere delineate in questo modo:
- io non sono. Il primo dato fondamentale dell'esperienza spirituale è la scoperta della precarietà o dell'inconsistenza del soggetto umano. Non può essere centrata su se stessa la creatura si coglie centrata su Altro da sé.
- È. L'Altro, il tutto esiste. L'esperienza della totalità, dell'immersione nel tutto è uno dei primi passi di ogni esperienza spirituale.
- Entra nella mia esistenza. Ogni esperienza spirituale è vissuta come costitutiva della persona, dà la percezione di diventare se stessi.
- Io sono. Il vertice di ogni esperienza spirituale è costitutiva della persona.
NOTE
2) R. GARAUDY, Avons nous-besoin de Dieu?, Paris 1983, p. 184.
3) Ib., p. 199.
2. Lo spirituale in prospettiva teista
In prospettiva teista, della fede in un Dio personale, l'esperienza spirituale finora descritta acquista caratteristiche più specifiche. Consiste nella consapevolezza di essere amati, di essere cioè sostenuti da una forza positiva molto più grande di noi. Riprendendo una formula di David Steindl-Rast, un monaco benedettino americano, possiamo affermare che nell'esperienza spirituale: «siamo alla ricerca di senso, di appartenenza, e ciò vuol dire che stiamo tutti esplorando il territorio Dio... Se noi apparteniamo a Dio, Dio appartiene a noi. Ci troviamo all'interno di una relazione » (4). Lo spirituale è « ciò che nell'azione dello Spirito Santo ricorda Dio, parla di Dio, comunica Dio, orienta a Dio e rende simili a Lui » (5).
Occorre qui precisare bene i termini del rapporto con Dio, dato che nel linguaggio corrente esistono molte ambiguità. Esse derivano dai modelli utilizzati per descrivere l'azione divina o il rapporto con Lui. Essi spesso sono marcatamente antropomorfici. Già il filosofo contemporaneo di S. Tommaso Sigeri di Brabante, commentando Aristotele e citando Averroé, notava che molte persone del popolo (homines vulgares et populares) pensano che Dio possa produrre in modo diretto gli effetti delle cause seconde, mentre è chiaro che la causa prima non può produrre l'effetto della causa seconda senza di lei (6). Dio è creatore, e la sua azione è sempre e solo creante (7). In senso proprio quindi Egli non fa le cose ma concede alle cose di farsi o di divenire. Egli alimenta il loro essere e il loro operare con la sua presenza attiva (8). « Dio, rettamente concepito, opera tutto mediante le cause seconde... (altrimenti)... l'agire divino viene a collocarsi nel mondo accanto a quello delle creature, invece di essere il fondamento trascendente di tutto l'agire delle creature » (9). Dio perciò « non opera qualcosa non operata dalla creatura, né si affianca all'agire della creatura: rende solo possibile alla creatura superare e trascendere il proprio agire » (10)
Secondo questo modello, la consapevolezza di essere creature non consiste nel sapere di essere stati fatti, bensì nella percezione che nella nostra esistenza è in gioco molto di più di quanto noi siamo: una Realtà che in noi si rivela e da cui dipendiamo continuamente. L'azione creatrice di Dio fonda costantemente la realtà creata, senza però mai sostituirsi ad essa. I miracoli quindi acquistano un significato diverso da quello attribuito a loro dalla apologetica degli ultimi secoli. Essi non sono un intervento di Dio, che aggiunge effetti nuovi a quelli delle creature, bensì l'espressione di un'accoglienza straordinaria da parte dell'uomo della continua azione divina che lo sostiene o lo costituisce agente. Anche la preghiera non viene vista come la sollecitazione a Dio per un suo intervento straordinario, bensì come l'atteggiamento necessario per accogliere in maniera più ricca e intensa di quanto abitualmente l'uomo faccia l'azione creatrice di Dio sempre presente e molto più ricca delle sue manifestazioni create.
In noi perciò non esistono due attività, quella di Dio e la nostra, ma solo la nostra azione. Essa però è l'espressione di una presenza più grande, è la traduzione di un'energia più profonda. La presenza di Dio ci rende vivi e fiorisce in pensieri, desideri e impegni. Quando quindi parliamo della presenza di Dio non supponiamo in noi un azione, un pensiero, un amore distinti dai nostri. In noi esiste solo la realtà creata della nostra persona, che tuttavia riflette una presenza immensamente più grande.
In questa luce appare il limite della potenza di Dio nelle creature. La sua azione non può esprimere tutta la ricchezza della sua potenza. In breve: Dio, benché in sé onnipotente, nella creatura e quindi nella storia non è onnipotente. Anche la presenza del male è compatibile con la bontà e la misericordia di Dio. Esso infatti è dipendente dal limite e dall'insufficienza della creatura che non è in grado di accogliere in un solo istante tutta la perfezione che le viene offerta da Dio, ma richiede un lungo tempo per interiorizzarla a piccoli frammenti fino al compimento, nel quale solo apparirà il progetto di tutto la sua azione (11).
NOTE
4) FR. CAPRA - D. STEINDL-RAST, L'universo come dimora, «Conversazioni tra scienza e spiritualità », Feltrinelli, Milano 1993,pp. 116-117.
5) M. RUPNIK, Teologia spirituale, in Teologia, « Dizionari S. Paolo », Cinisello Balsamo 2002, p. 1763.
6) «Quidam homines vulgares et populares opinati sunt, sicut recitatAverroes, super nono Metaphysicae quod causa prima omnia faceretimmediate, quod esset agere causam primariam sine secundaria.
Et hi, sicut dicit, non habentes cerebrurn ad bonum naturale tollunt abentibus proprias operationes... Et secundum sic dicentes entia causataomma essent frustra. Frustra enim est quod natum est includere finemaliquem, illum non attingens. Fines autem entium causatorum suntoperationea eorum... Et ideo dicendum quod causa primaria effectumcausae secundariae non potest producere sine causa secundaria ». SIGERIDI BRABANTE, Quaestiones super Librum de Causis, q. 2 (ed. A.Marlasca), Louvain-Paris 1972, p. 40.
7) S. Tommaso scriveva: «noi non sottraiamo alle cose create le loroattività proprie pur attribuendo tutti gli effetti delle cause create aDio, come a colui che opera in tutto», Summa contra gentes 3, 67. CfrSTh 1, q. 105, a. 5.
8) Scriveva nel 1917 P. Teilhard de Chardin: « La creazione... non èuna intrusione periodica della Causa prima: è un atto coestensivo atutta la durata dell'universo », La transformation creatrice, inComment je crois, Seuil, Paris 1969, p. 31. « Quando la causa primaopera, essa non si inserisce nel mezzo degli elementi di questo mondo,ma agisce direttamente sulle nature in modo che, si potrebbe dire, Dio"fa" meno le cose di quanto non operi in modo che esse si facciano»,ID., Comment se pose aujourd'hui la question du transformisme, inEtudes, 5-12 juin 1921, ora in La vision du passé, Seuil, Paris 1957,p. 39.
9) K. RAHNER, Il problema dell'ominizzazione, Morcelliana, Brescia 1969, p. 96.
10) ID., Ib., p. 99.
11) ATI, Creazione e male del cosmo. Scandalo per l'uomo e sfida per il credente, Messaggero, Padova 1995.
3. Lo spirituale cristiano
La vita spirituale in ambito cristiano è l'esistenza suscitata dallo Spirito, che anima il processo di crescita del Figlio di Dio che è in noi e lo conduce a quella identificazione definitiva della persona che consiste nel « nome scritto nei cieli » (cfr Lc 10, 20) o, secondo la simbologia dell'Apocalisse, nell'accogliere « la manna nascosta e una pietruzza bianca sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all'infuori di chi la ri-ceve» (Ap 2, 17).
La santità cristiana non è caratterizzata dalla perfezione morale, bensì dall'atteggiamento teologale. Non ha quindi come riferimento la legge, bensì la venuta del Regno o il compimento della volontà di Dio. Concretamente la spiritualità cristiana sta nel verificare il valore della fede vissuta da Gesù, testimoniare l'autenticità delle speranze da lui suscitate, diffondere lo stile di amore da lui introdotto; scoprire, cioè, nella vita la presenza di Dio da Lui rivelato. L'esperienza di Gesù, infatti, è stata completamente centrata in Dio, per questo la spiritualità cristiana o è teologale o non esiste affatto.
Fin dalle prime righe degli scritti che ci hanno trasmesso l'esperienza delle prime comunità, la vita cristiana viene concentrata nelle tre virtù teologali. S. Paolo nella sua prima lettera pervenutaci (scritta appena 20 anni dopo la morte di Gesù), ringrazia Dio per la fede viva dei Tessalonicesi, per la loro carità operosa e per la loro costante speranza (cfr 1 Tess 1, 3). Allo stesso modello egli ricorre frequentemente per descrivere l'esistenza cristiana al punto da affermare: « queste sono le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità » (1 Cor 13 13).
Le tre virtù teologali sono l'espressione di un unico atteggiamento, che è il fiducioso abbandono in Dio esercitato in tutte le situazioni dell'esistenza, cioè nello svolgersi del tempo. Abbandonarsi a Dio significa ascoltare la sua parola e accogliere la sua azione nello spazio/tempo della nostra vita, implica quindi la sua modulazione secondo le tre dimensioni del tempo: il passato, il presente e il futuro, a cui appunto corrispondono la fede, la carità e la speranza.
Quando si comincia a vivere l'atteggiamento teologale si sviluppa nella persona una forma nuova di esistenza costituita e alimentata dalla consapevolezza della presenza di Dio e dalla sintonia con la forza vitale che promana da Lui e conduce all'identità filiale. Siccome la sua azione non può essere accolta compiutamente in un solo istante, bensì solo nella successione di eventi che si snodano nel tempo, per questo l'atteggiamento teologale si coniuga in tre dimensioni temporali: fede, speranza e carità. La fede si riferisce al passato della storia salvifica e il suo esercizio consiste nell'accoglienza della Parola! Azione di Dio che ci perviene dagli eventi accaduti e i cui messaggi ci sono trasmessi da testimoni autorevoli. Vivere la fede vuol dire affidarsi con fiducia a Dio, accogliendo i messaggi degli eventi attraverso i quali Egli si è rivelato agli uomini come echi della sua Parola, che risuonano nella storia attraverso la fedeltà di comunità credenti.
La fede perciò e un atto di obbedienza a Dio che si rivela; è ascolto della sua parola e fedeltà di risposta. È l'atteggiamento con cui ci si abbandona completamente a Dio prestandogli l'ossequio dell'intelletto e della volontà (cfr Concilio Vaticano II, Dei Verbum 5). Obbedire a Dio o ascoltare la sua parola in tutte le situazioni non significa ritenere che tutto ciò che accade corrisponda al suo volere. Il detto popolare « non muove foglia che Dio non voglia » non è esatto. Esiste infatti il peccato, che certamente è contrario al volere di Dio. Anzi, parlando con rigore, si dovrebbe dire che nessuna situazione ancora realizza compiutamente il volere di Dio, dato che la creazione e la storia umana sono un processo non ancora compiuto e quindi tutte le loro componenti sono imperfette.
Tuttavia l'uomo può vivere ogni circostanza, anche negativa, in modo da compiervi sempre la volontà divina, investendo di amore le situazioni di odio, introducendo dinamiche di perdono dove c’è rancore o vendetta, alimentando di generosità situazioni di egoismo ecc. Per questo è possibile obbedire a Dio, cioè ascoltare e accogliere la Parola/azione divina anche quando essa si esprime in situazioni difformi dal disegno divino. Chi crede in Dio può sempre assumere tale atteggiamento, perché sa che l'azione creatrice di Dio soggiace ad ogni situazione e può esprimersi in forme nuove, se trova adeguati spazi di accoglienza. L'obbedienza è l'esercizio quotidiano della fede, perché è ascolto e compimento della Parola.
La speranza è l'atteggiamento teologale vissuto al futuro ed è quindi l'attesa della Parola/Azione divina nelle sue forme non ancora espresse nella creazione. Vivere la speranza significa attendere Dio ogni giorno e accoglierne il dono che irrompe come novità nella storia umana.
La speranza teologale è attesa quotidiana di Dio che viene. Vivere perciò la speranza significa accogliere ogni giorno il dono di Dio. Ogni uomo che vive ed opera attende sempre qualcosa, ma non sempre attende ciò che in realtà gli serve. La differenza tra le diverse impostazioni di vita risiede appunto nei beni sperati. Noi tutti cominciamo la nostra esistenza con attese giuste, ma inadeguate. Attendiamo l'affetto dei genitori, i giocattoli, le cose, la stima degli altri, il successo nelle nostre imprese. Poniamo sempre come oggetto delle nostre attese realtà precarie, transitorie e non sufficienti. Passiamo così da una delusione ad un'altra, ampliando sempre più le nostre attese. Finché l'amore degli altri che ci alimentano, o la serie delle sconfitte che subiamo, ci conducono a scoprire Dio come ragione della nostra vita: allora possiamo imparare ad attendere il suo dono ogni giorno. Coloro che hanno imparato a farlo, ogni alba che sorge, si chiedono quale forma nuova di amore, di fraternità, di perdono, di verità, di bellezza, di giustizia possa irrompere nella loro esistenza: essi sono certi infatti che ogni situazione può consentire una manifestazione inedita dell'azione creatrice di Dio e quindi l'accoglienza di un nuovo dono di vita. Allora essi sono «pronti sempre a rispondere a chiunque... domandi ragione della speranza» (1 Pt 3, 15).
La povertà è l'esercizio esemplare e radicale della speranza. Votarsi infatti alla povertà significa attendere solo il dono che ci rende figli. Non è la mancanza delle cose a caratterizzare lo stato di povertà per il regno, ma è l'attesa del dono di Dio in tutte le imprese, dono che è sempre a disposizione quando è atteso ed accolto. Per questo Paolo può scrivere: «la speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato » (Rom 5, 5). La vita che ci viene offerta da Cristo non è un'aggiunta alla realtà umana, ma è la sua fondazione. Non è un semplice diritto ad acquisire doni eterni, ma è già la loro introduzione nella nostra storia.
Per questo Gesù chiedeva di distaccarsi completamente dalle cose: « Chi non rinunzia ai suoi beni non può essere mio discepolo». (Lc 14, 33). Egli infatti sapeva che: « Non si può servire due padroni » (Mt 5, 3-4; 19, 21-26), o si è servi di Dio e si diventa vivi o si perde la vita, perché « dove è il... tesoro, là sarà anche il... cuore » (Lc 12, 34). Quando ci è chiesta la vita, non possiamo offrire le cose. La vita può essere offerta solo da coloro che non l'affidano alle cose e non la traggono dalle creature.
La carità o agàpe è l'amore teologale, l'apertura alla Parola/Azione divina qui e ora, cioè nello spazio/tempo dell'istante presente. Vivere la carità significa, perciò, rendere il proprio spazio vitale ambito dell'amore di Dio. Poiché il passato e il futuro confluiscono nello spazio del presente, che è l'unica dimensione attuale, la carità è il compimento o la perfezione della vita teologale. Per questo S. Paolo poteva asserire: « di tutte più grande è la carità » (1 Cor 13, 13).
L'amore è una delle dinamiche fondamentali della vita, è la reazione all'attrattiva esercitata sull'uomo dal Bene e dal Bello mentre la sessualità, sua base biologica, è la forza vitale che spinge a stabilire rapporti e a sviluppare perciò la capacità di amare secondo le esigenze della persona in crescita.
Non ogni forma di amore è sufficiente per far crescere persone: più la persona è vuota più esige un amore oblativo, capace cioè di offerta senza aspettative, ricatti o condizioni. Tutti nascono possessivi e incapaci di oblatività, ma a tutti nella morte la vita chiede di essere diventati capaci di offrirla senza riserve. Se tutti amassero in modo possessivo, la vita si fermerebbe perché nessuno la offrirebbe ad altri. Quando vengono vissuti con dinamiche oblative, i rapporti costituiscono un notevole stimolo per la crescita delle persone. Quando invece sono stabiliti solo per interesse, per convenienza, per appagamento dei propri istinti, per autogratificazione, non costituiscono ambiti di crescita profonda perché sviluppano dinamiche possessive. La vita per non esaurirsi e per potere diffondersi esige che almeno alcuni siano capaci di offerte libere e non interessate. La vita stessa, perciò, per poter continuare nel tempo esige la oblatività nell'amore.
L'oblatività rende la persona espressione di un bene più grande di se, essa diventa rivelazione del Bene, epifania di Dio. Giovanni traduce in modo esemplare questo atteggiamento vissuto da Gesù: « come il Padre ha amato me (e io rimango nel suo amore, v. 10), così ho amato voi, rimanete nel mio amore » (Gv 15, 9), « amatevi gli uni gli altri» (Gv 15, 17). L'amore diventa oblativo secondo la misura in cui è divino, dato che non siamo noi ad amare, bensì è il Bene che in noi diventa amore.
Quando incominciamo a percorrere consapevolmente questa via, si stabilisce un orizzonte definitivo di senso e il cammino diventa sempre più luminoso. Le difficoltà o le sofferenze non scompaiono, ma ci consegnano un segreto, aprono un ambito interiore dove possiamo raccoglierci e dove nessuno può offuscare la luce o annullare la forza che promana dalla presenza di Dio.
Tutto resta, ma cambia nel suo significato vitale: si apre uno spazio nel quale scopriamo il segreto della vita; uno spazio interiore che non può essere occupato da nessuno. S. Paolo esprimeva questa esperienza quando scriveva: «Chi ci può separare dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? ... Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati » (Rom 8, 35.37). E conclude: « alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore » (ib. 39). Questa scoperta è accompagnata dalla gioia, quella di cui Gesù diceva: « Perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15, 11).
Da queste brevi note appare che l'unzione battesimale è quella fondamentale consacrazione per cui il cristiano diventa tempio dello Spirito. Egli è chiamato a vivere centrato su Dio ad offrire cioè il proprio corpo come ambito dell'azione divina: «offrite i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio, questo è il vostro culto spirituale» (Rom 12, 2). In tale modo egli cresce come figlio di Dio fino ad acquisire in forma definitiva la propria identità filiale, « il nome scritto nei cieli » (Lc 10, 20).
La consacrazione attraverso i voti è una modalità concreta per vivere in modo teologale, attraverso l'obbedienza della fede, la povertà e il distacco di chi attende solo Dio (speranza), la gestione della sessualità tale da pervenire all'amore oblativo, rivelazione dell'amore di Dio (agàpe).
L'esistenza dei figli di Dio è il modo più efficace e concreto di dire lo spirituale. Non sono semplici formule verbali, né solo testimonianze o gesti esemplari. E il modo concreto di rendere efficace la Parola creatrice nella storia umana, di fare risuonare il « dire eterno »di Dio nel divenire delle creature.
(Il testo è la parte conclusiva della relazione tenuta da Carlo Molari alla XLII Assemblea Nazionale della Conferenza Italiana dei Superiori Maggiori a Palermo nel novembre 2002. Il tema dell'Assemblea era: "Vivere secondo lo Spirito. Nuovi percorsi e linguaggi per comunicare il Vangelo in un mondo che cambia").
Gli Atti dell'Assemblea sono stati pubblicati in AA. VV., Vivere secondo lo Spirito, Il Calamo, 2003 (Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.).