Magnificat.
Il Dio cantato da Maria,
serva del Signore
(prima parte) di Alberto Valentini
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Premessa
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La “verità” sul Dio dell’alleanza
Il
Magnificat, al quale la riflessione - non solo esegetico-teologica - ha
riservato un’attenzione particolare negli ultimi decenni, è stato
oggetto di interesse ripetuto anche da parte del Magistero. Al canto
della Vergine, Paolo VI, nell’Esortazione apostolica Marialis Cultus, aveva già dedicato parole ispirate:
…
il Magnificat (cf Lc 1,46-55), la preghiera per eccellenza di Maria, il
canto dei tempi messianici nel quale confluiscono l’esultanza
dell’antico e del nuovo Israele, poiché – come sembra suggerire
sant’Ireneo – nel cantico di Maria confluì il tripudio di Abramo che
presentiva il Messia (cf Gv 8,56) e risuonò, profeticamente anticipata,
la voce della Chiesa…(1).
Al
Magnificat, Giovanni Paolo II attribuisce notevole importanza ed ampia
considerazione – oltre che in numerosi documenti e catechesi -
nell’Enciclica Redemptoris Mater (nn. 35-37), in cui lo
presenta come il canto, l’inno ufficiale della Chiesa in cammino sui
sentieri della storia che attinge ormai il terzo millennio: “Sgorgato
dal profondo della fede di Maria… non cessa nei secoli di vibrare nel
cuore della Chiesa” (2).
Questo
canto non solo traccia un programma di coraggioso impegno evangelico al
servizio del mondo, ma prima ancora rivela l’autentico volto di Dio.
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Dalla
profondità della fede della Vergine… (la Chiesa) attinge la verità sul
Dio dell’alleanza… Nel Magnificat essa vede vinto alla radice il
peccato posto all’inizio della storia… Contro il “sospetto” che “il
padre della menzogna” ha fatto sorgere nel cuore di Eva, la prima
donna, Maria, che la tradizione usa chiamare “nuova Eva” e vera “madre
dei viventi” proclama con forza la non offuscata verità su Dio…
Maria è la prima testimone di questa meravigliosa verità, che si
attuerà pienamente mediante le opere e le parole (cf At 1,1) del suo
Figlio e definitivamente mediante la sua croce e risurrezione.
La
Chiesa che… non cessa di ripetere con Maria le parole del Magnificat,
“si sostiene” con la potenza della verità su Dio… e con questa verità
su Dio desidera illuminare le difficili e a volte intricate vie
dell’esistenza terrena (3).
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Le
parole citate di Giovanni Paolo II sembrano rispondere al voto espresso
alcuni anni prima da J. Dupont, a conclusione di un eccellente studio
sul cantico della Vergine, considerato come discorso su Dio (4).
Al termine del suo lavoro e dopo aver indicato feconde piste di
sviluppo alla riflessione teologica, così egli si esprimeva:
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Il
Magnificat non definisce Dio… esso “situa” il mistero di Dio salvatore
e ne offre le coordinate. Dopo aver fatto questa constatazione,
l’esegeta deve fermarsi e passare la mano: noi saremmo felici se questo
studio del Magnificat come discorso su Dio ispirasse a un collega
dogmatico un discorso su Dio alla luce del Magnificat. Non è forse del
Dio salvatore, cantato in questo brano, che noi dobbiamo essere
testimoni oggi nel mondo? (5).
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Abbiamo l’impressione che l’invito di Dupont sia stato raccolto, come egli stesso forse non osava sperare.
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-
Il Magnificat costituisce, dunque, una privilegiata riflessione sul Dio
della salvezza, ma non offre una definizione astratta della sua
identità. Su questo punto, noi di tradizione greca e formazione
scolastica dobbiamo operare una profonda e mai del tutto compiuta metànoia.
Alla
tentazione di concettualizzare l’immagine di Dio hanno ceduto illustri
studiosi, in particolare gli autori di note teologie bibliche (6),
legate a concetti ampi e a loro avviso onnicomprensivi, quali:
salvezza, elezione, patto, rivelazione, redenzione, soteriologia,
escatologia…
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Con
questi concetti nominali ci si allontanò dal linguaggio dell’Antico
Testamento che è prevalentemente verbale e, inoltre, andò perduta la
molteplicità di forme che l’Antico Testamento usa nel parlare di Dio
(7).
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Un
discorso biblico su Dio deve privilegiare le forme verbali legate al
dinamismo della Parola rivelata e delle azioni salvifiche, sempre
aperte ad ulteriore riflessione ed approccio esistenziale. Non si danno
forme precostituite capaci di presentare in maniera univoca ed
esaustiva l’evento della parola e degli interventi divini.
Il
Dio del Magnificat non è definito secondo categorie astratte, ma
narrato, cantato e celebrato sulla base di gesta salvifiche sulle quali
si fondano la fede e il culto del popolo di Dio.
Esiste
infatti un rapporto vitale e imprescindibile tra salmi, cantici ed
eventi di salvezza. Non si danno canti senza l’esperienza di una storia
che coinvolga il cantore rendendolo contemporaneo di quanti l’hanno
vissuta. I salmi – nonostante la loro diversità e le molteplici
classificazioni proposte in particolare da H. Gunkel (8) - si possono
distinguere in due categorie fondamentali, costituite secondo C.
Westermann da Flehen und Loben (9), divisione che ripropone in sostanza le classificazioni maggiori dello stesso Gunkel, gli inni e le lamentazioni.
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- L’io dei
salmi può essere personale o collettivo, talora generale, presentando
una situazione indeterminata dell’esistenza umana, ma rivela sempre una
dimensione dialettica spesso drammatica tra orante/i e il Signore, cui
si grida dall’angoscia o al quale si rivolge il canto di lode per la
salvezza conseguita.
Nel Magnificat l’orante parla al singolare: è una figura ben determinata, la douú,lh,
che con tutto il suo essere celebra il Signore e si rallegra della
salvezza. Tale figura, tuttavia, è portavoce di molti altri personaggi,
di tutti coloro che come lei sono stati raggiunti da straordinari
interventi salvifici. A conclusione del canto, la serva cede addirittura il posto ad Israele servo del Signore, popolo cui ella appartiene e del quale è testimone privilegiato.
Maria
giunge al termine, al vertice di un’infinita schiera di oranti, di uno
sterminato corteo di servi e serve del Signore, a partire dai Padri e
dalle Madri d’Israele, passando per le figure di uomini e di donne
celebri come Abramo, Mosè, Davide e come
Miriam, Debora e Giuditta, come tutti i profeti, soprattutto il servo
di Yahwè inglobante il popolo di Dio, in particolare i poveri che nei
tempi escatologici si compendiano nelle eccelse figure del Messia
davidico e della vergine di Nazaret. Israele è un popolo di poveri che
il Signore si è scelto, ha riscattato e riservato per sé. Nulla
pertanto di più alieno dall’identità d’Israele dell’arroganza stolta
che caratterizza i pagani e che si esprime in ribellione nei confronti
di Dio e in oppressione dei deboli.
All’interno
del popolo dell’alleanza – tentato a sua volta di autosufficienza e per
questo periodicamente, quasi sistematicamente decimato e purificato –
permane sempre un piccolo resto, che costituisce
l’Israele qualitativo e fedele, la porzione santa della quale la
Vergine del Magnificat è il tipo ideale, ma che si estende a tutti
coloro che temono il Signore, ai piccoli, oppressi ed affamati,
all’Israele di Dio, vera discendenza di Abramo e popolo della promessa.
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undefined1. Non definizione di Dio, ma celebrazione del suo agire undefined
Jahwè
Il
Magnificat non offre pertanto una definizione di Dio, ma rievoca una
storia, divenuta liturgia-professione di fede, che rivela il volto
concreto di Dio salvatore: un volto plasmato dalle sue azioni salvifiche che costituiscono un memoriale per tutte le generazioni d’Israele.
Certo,
nel Magnificat ci sono attributi fondamentali di Dio, ma tutto dipende
dai verbi. Gli stessi aggettivi e sostantivi risultano fortemente
dinamici: sono, in fondo, forme e perifrasi verbali oppure intendono qualificare l’agire di Dio più che la sua astratta identità.
Ciò appare con assoluta evidenza nel titolo Dio salvatore che domina e caratterizza tutto il canto. Esso è specificato da altri due appellativi pieni di densità:
- il potente che
ha fatto grandi cose, da comprendere in particolare sullo sfondo
dell’esodo e degli eventi maggiori della storia salvifica;
- il santo:
titolo non astratto né statico, che rivela la motivazione profonda
dell’agire di Dio, come viene esplicitamente proclamato nel canto del
mare (10), che celebra la notte della grande liberazione.
Un Dio, dunque, salvatore-potente e santo.
Oltre questi titoli ed appellativi il Magnificat presenta anche un sostantivo, e;leoj, per caratterizzare l’azione di Dio e qualificare il suo volto. Anche qui, però, bisogna osservare che e;leoj non
esprime un semplice sentimento, né solo un atteggiamento interiore, ma
una caratteristica fondamentale del Dio biblico che - coniugata con la
sua santità e potenza - si esprime in efficaci gesta salvifiche a
favore dei suoi servi, di coloro che lo temono e di tutto Israele, senza limiti nel tempo e nello spazio.
A
parte i pochi elementi non-verbali, ma comunque dinamici, il volto di
Dio-salvatore è delineato da una notevole sequenza di verbi, collocati
in posizione dominante, che conferiscono al canto un aspetto unitario e
fortemente strutturato. Le forme verbali, proclamando le azioni divine,
come si è detto, sono decisive nella rivelazione biblica che è storia
concreta, sulla quale poggia la fede d’Israele.
Da
questo punto di vista, il Magnificat è un canto esemplare che celebra
la salvezza presente e personale della serva del Signore sullo sfondo
della storia del popolo dell’alleanza; storia ormai realizzata
definitivamente in Cristo e proiettata in maniera irreversibile verso
una metastoria, nella quale tutte le promesse di Dio diverranno
pienamente sì.
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- A parte l’Introduzione, in cui la serva parla in prima persona – anche se nascosta dietro perifrasi (la mia vita… il mio essere),
peraltro particolarmente efficaci, e nonostante la dimensione
personalistica della prima parte –, il canto appare una proclamazione
degli interventi salvifici di Dio, narrati in terza persona, in una
comunità liturgica, come avviene per la liberazione pasquale celebrata
in particolare nel grande Hallel (salmo 136), in cui il
racconto-proclamazione, con cadenza litanica, fa memoria cultuale dei
grandi eventi del passato, con Yahwè, soggetto e protagonista del
racconto, come lo era stato dell’evento (11).
I
verbi, le azioni divine, costituiscono non solo l’elemento dominante,
ma la spina dorsale del cantico: essi sono tutti in aoristo – tempo
storico per eccellenza – diversamente da quanto avviene nei canti coevi
del giudaismo intertestamentario, che esprimono una tensione talora
parossistica verso il futuro, in un contesto di grande tribolazione, in
particolare nei salmi di Qumran. Le forme verbali del Magnificat sono
invece al passato, a testimonianza inequivocabile di una salvezza ormai
compiuta, e sono preceduti da un piuccheperfetto che rievoca una
lontana promessa fatta ai Padri e ora puntualmente realizzata. Alla
base degli aoristi c’è pertanto una Parola (“come aveva detto”), che la
storia ha definitivamente confermato.
Protagonista di tutto è il Dio d’Israele che parla, promette ed attua
con assoluta fedeltà quanto ha annunciato. La parola uscita dalla sua
bocca non ritorna a Lui senza aver compiuto ciò per cui è stata inviata
(cf Is 55,11).
Maria,
nel canto, non è mai esplicitamente nominata: Dio salvatore è il solo,
vero protagonista del Magnificat. Egli è rispettivamente oggetto e
soggetto di tutti i verbi, vale a dire di tutti gli eventi e gesta
salvifiche proclamati dalla dou,lh.
-
Com’è noto, il Magnificat è un canto imbevuto di storia biblica,
intessuto di reminiscenze veterotestamentarie, tanto numerose da
mettere alla prova la sensibilità e la preparazione del lettore. Al di
là dei testi paralleli o imparentati, indicati solitamente dagli
studiosi e presenti negli apparati critici del NT, se ne possono
scorgere molti altri in filigrana, che fanno di questo canto un esempio
di quel che A. Robert chiamava “stile antologico” (12). Esso
costituisce un vero mosaico di allusioni, accostamenti e
interpretazioni che ne rendono ardua la piena comprensione. Si può
ripetere per questo canto quanto Moraldi affermava per le Hodayot di
Qumran: “In molti casi l’autore aveva in mente più di un passo biblico,
in altri dipende soprattutto dalla discrezione e preparazione del
lettore scorgere o meno un riferimento biblico” (13). Il Magnificat è
uno splendido mosaico le cui tessere sono costituite dalle vicende
della storia d’Israele, la quale ha attinto senso definitivo in Cristo,
ma attende pur sempre la pienezza escatologica.
Esaminando
il canto dall’inizio, ci troviamo subito di fronte a una solenne
dossologia e ad una gioiosa confessione della salvezza. Se è vero che l’Introduzione dà il tono a tutta la composizione, è non meno vero che essa è spiegata e giustificata dal corpo del canto,
in cui si esprimono i motivi per i quali viene esaltato il Signore e si
gioisce in Lui. Il Magnificat, lo ripetiamo, non offre una definizione
razionale ed astratta di Dio, ma una testimonianza
storico-esperienziale. Egli è grande perché ha operato grandi cose; è
salvatore perché tale si è dimostrato con le sue gesta. A celebrarlo
sono coloro che ne hanno constatato la magnificenza divina e la potente
salvezza. L’esperienza salvifica è alla base del canto e della gioia
che ne deriva.
I verbi dell’Introduzione sono coniugati in terza persona, ma il soggetto non è un personaggio anonimo e indeterminato: è la dou,lh che dal profondo del suo essere esalta
il Signore, ne riconosce e proclama la grandezza, ed esprime la festa
della sua esistenza rinnovata dall’intervento divino.
L’Introduzione,
dunque, rivela subito il volto di un Dio grande, del tutto
trascendente, specialmente se messo in rapporto-contrasto con la tapei,nwsijdella serva. D’altra parte, egli non è distaccato o assente dal mondo:
è un Dio che interviene tempestivamente e con efficacia nelle
situazioni della storia, manifestandosi come salvatore. Un Dio lontano
e vicino al tempo stesso, misterioso nella sua assoluta trascendenza,
ma ben riconoscibile da coloro che da lui sono stati liberati. Un Dio
che provoca il gioioso canto dei redenti.
Non
è tuttavia sufficiente un’affermazione di principio, per quanto densa e
concreta, per celebrare il Signore: chi canta una prodigiosa
liberazione non può tacere i particolari, i fatti concreti della
propria esperienza, della sua storia nella quale è intervenuto con
potenza il Signore. E’ proprio di tali interventi che si compone la
trama del Magnificat.
Si passa così dall’Introduzione al corpo del canto, nel quale il soggetto dei verbi – tutti di azione e tutti in aoristo – è Dio-Salvatore. La dou,lh è memoria e portavoce di una storia che viene rivissuta e interiorizzata nel culto, all’interno di una comunità di fede.
Il v. 48 comincia significativamente con un poiché,
che ricorre parallelamente all’inizio del v. 49: congiunzione causale
che regge non solo questi due versi, ma tutto il canto, tanto che
potrebbe essere ripetuta all’inizio di ogni versetto, formando una
sequenza litanica sull’esempio di numerosi salmi innici o di
“ringraziamento”.
La
prima manifestazione dell’agire di Dio è di particolare densità e
riassume in qualche modo tutti i successivi suoi interventi:
… poiché guardò dall’alto alla povertà della sua serva.
Non
a caso sono queste le prime parole con le quali il Signore si presenta
a Mosè, al momento di affidargli l’incarico di liberare il suo popolo:
“Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto…” (Es 3,7). Esse
rivelano l’atteggiamento di viva partecipazione di Dio che precede ogni
suo intervento salvifico.
E’ da notare che il verbo ble,épw,
il quale originariamente indica la semplice funzione fisico-ricettiva
del vedere, acquista - già prima del Nuovo Testamento - un connotato
“intuitivo-conoscitivo-critico, nel senso di “guardare dentro,
scrutare, rendersi conto” (14). Tale significato di attenta e partecipe
osservazione viene approfondito dalla formula ebraica di Es 3,7: ra’ôh ra’îtî..., seguita da fondamentali verbi di percezione e di azione: šama‘tî… iada‘tî…wa’ered lehassîlô. Testo reso fedelmente dai LXX, i quali riproducono materialmente la formula idiomatica ebraica ra’oh ra’îtî con ivdw.n ei=don e iada‘tî con oi=da (15).
Come si vede, tutti i sensi di contatto sono direttamente e
concordemente impegnati in Dio che veglia sulle vicende del mondo.
Yahwè – in questa circostanza egli rivela il suo nome, non volendo
essere identificato con i muti e inerti dei delle nazioni – chiaramente
vigila e si dà pensiero del suo popolo. Il verbo evpible,pw non esprime solo un guardare sopra, vale a dire dall’alto – si noti la ripetizione di evpi., – ma un curvarsi su,
prendersi cura, (16) come un padre e una madre nei confronti del figlio
in difficoltà. E a sottolineare ulteriormente la densità del testo –
ben evidente in Es 3,7 in cui si parla di miseria, grido, sofferenze,
che il Signore ha veduto, ascoltato e conosciuto - si dà il netto contrasto tra la posizione elevata dalla quale Dio guarda e la tapei,nwsij, la bassezza della dou,lh,
la quale non è genericamente una serva, ma “la sua serva”, con un
esplicito articolo determinativo che ne sottolinea la totale
appartenenza. In termini ancor più chiari, il Signore si era espresso
riguardo ad Israele, sempre nel contesto dell’Esodo e della missione
affidata a Mosè: “Dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito: Io ti avevo detto lascia partire il mio figlioperché mi serva! (Es 4,22s)”. Si noti questo intreccio tra figliolanza
e servizio che esprime appartenenza e dipendenza incondizionata. In Lc
1,48 ricorre il termine dou,lh (cf anche 1,38), ma vi è implicito il senso di proprietà, come si può arguire dal v. 54 in cui si parla di Israele paido.j auvtou, evocante la figura del servo del Deuteroisaia. Questo titolo indica che
…
il popolo è entrato… non solo alle dipendenze del Signore, ma nella sua
intimità e nella sua fiducia, al punto di essere messo a conoscenza del
suo disegno e di poter collaborare alla sua realizzazione. (17)
Già in questo primo emistichio del corpodel cantico si può scorgere una sintesi straordinaria della storia
della salvezza ed un’immagine icastica del Dio d’Israele - già
proclamato sinteticamente salvatore nel v. 47, prima che altri tratti
dei versi seguenti ne sviluppino ulteriormente la fisionomia -: un Dio
grande, che domina sul mondo e sulle sue vicende, che veglia con
premura sul suo popolo e interviene con efficacia per liberarlo.
L’esperienza
cantata dalla Vergine di Nazaret si colloca al vertice di una lunga
tradizione di interventi liberatori di Dio nei confronti di singoli
personaggi o della comunità in situazione di tapei,nwsij,
come si legge in Gen 29,32, in riferimento a Lia, e nel sal 30 (LXX),
in cui l’orante afferma di rallegrarsi - con lo stesso verbo ’avgallia,w presente nel nostro canto – a motivo dell’ e;leoj divino; c’è pure, ovviamente, il riferimento alla situazione di Anna, che nella sua preghiera così si rivolge al Signore: “’im ra’oh tir’eh, se davvero guarderai – col verbo ble,épw al futuro e con l’infinito costrutto (evpible,pwn evpible,yh|j) – alla tapei,nwsijdella tua serva” (1Sam 1,11). Come si diceva, non si tratta di semplici
interventi isolati, riguardanti questo o quel personaggio, ma di una
costante dell’agire di Dio e di salvezza concernente tutto il popolo.
E’
da tener presente – vi insistiamo - che i verbi con Dio soggetto sono
all’aoristo, vale a dire al passato storico. Ancora una volta - come ha
fatto per la liberazione dall’Egitto e in tante altre circostanze - il
Signore si è chinato dall’alto, in vista di un intervento salvifico.
Nel nostro caso, tuttavia, il Signore ha guardato alla sua serva, non
in prospettiva di una liberazione futura, come in Es 3,7s (sono sceso
per liberarlo): nel Magnificat la liberazione è già avvenuta, è un
evento compiuto, celebrato nel canto, nell’esperienza liturgica della
comunità. L’escatologia ha fatto ormai irruzione nella storia del
mondo, compiendo le attese d’Israele proiettate – all’epoca del Nuovo
Testamento - in un futuro nel quale Yahwè
avrebbe realizzato finalmente le promesse con un grandioso intervento
dall’alto. Nel canto della Vergine tale speranza-tensione escatologica
è chiaramente appagata, anche se con linguaggio e simbolismo ben
diversi da quelli della tradizione apocalittica. Nei confronti
dell’attesa veterotestamentaria e giudaica, l’evento cristiano –
nonostante il genere letterario diverso - si presenta sotto il segno
degli ultimi tempi e dunque di una salvezza realizzata.
Su questo sfondo, il v. 49 può proclamare: poiché il Potente ha fatto a me grandi cose…
Il Potenteè il secondo titolo di Dio dopo quello di Salvatore, ma come quello è
un appellativo eminentemente dinamico. I due titoli non si possono
scindere: Dio salvatore è il potente, in quanto realizza
efficacemente la salvezza: la sua forza è tutta al servizio della
liberazione. Il significato, la portata di quell’aver guardato alla tapei,nwsij della sua serva, appare con evidenza nelle gesta compiute in suo favore. Le grandi cose, che si contrappongono alla tapei,nwsij,
alla situazione di povertà esistenziale della serva, qualificano con
efficacia il volto di Dio: un Dio forte, potente, capace di trasformare
in esperienza di salvezza e di vittoria le condizioni di umiliazione
del suo popolo.
Le grandi cose – le mega,la - sono importanti nella struttura e nel significato del canto, il quale si apre con il verbo megalu,nei che richiama appunto le mega,la compiute
da Dio. Di fronte alle grandi cose che hanno trasformato radicalmente
la sua esistenza, la serva riconosce e proclama la grandezza e la forza
di Dio.
I
due emistichi 48a e 49a (48b richiede un discorso a parte) sono dunque
strettamente congiunti: lo sguardo del Signore è premessa e condizione
del suo intervento: egli si lascia coinvolgere nelle vicende umane ed
entra in azione dispiegando tutta la sua forza. Solo di fronte ad essa,
allo strapotere del braccio divino i violenti recedono dalla loro
tirannia sul mondo.
Si
afferma spesso, e a ragione, che la prima parte del Magnificat si
occupa quasi esclusivamente di misericordia, che in essa l’intervento
di Dio riguarda solo i giusti ed i poveri, ma sullo sfondo è già
evidente la lotta che si svolgerà contro gli oppressori, e ciò risalta
non solo dal termine tapei,nwsij – che anticipa l’aggettivo tapeinou,j -
dalla quale la serva viene liberata, ma in maniera ancora più netta
dalla forza messa in atto dal Potente e dalle grandi cose da lui
compiute a vantaggio della dou,lh.
Il termine dunato,j (in ebr. gibbôr), esprime
l’eroe-guerriero; presenta pertanto una connotazione tipicamente
militare e bellica, come è confermato da diversi testi
veterotestamentari, in particolare dal Sal 24,8.10: “Yahwè forte e gibbôr, Yahwè gibbôr in battaglia… il Signore degli eserciti”.
Tale
potenza divina si manifesta anzitutto nei fatti dell’esodo e nel
passaggio del mare: “Quando i testi biblici ricordano al pio israelita
la potenza di Dio alludono sempre al prodigio del Mar Rosso che coronò
l’esodo dall’Egitto”. (18) E ciò viene confermato anche da diverse
testimonianze del giudaismo postbiblico. (19)
E’ da notare che la potenza e forza di Dio è motivo biblico frequente, ma il titolo o` dunato,j applicato
a Dio è eccezionale; con l’articolo si trova solo nel nostro testo e in
Sof 3,17, che usa l’espressione particolarmente significativa gibbôr jôšîa‘.
(20) Ciò significa che il nostro versetto è particolarmente importante
per qualificare il volto di Dio come forte guerriero. E’ una conferma
ulteriore del fatto generalmente acquisito che la collocazione di
questo canto nell’attuale contesto non è originaria; è conferma anche
che il contesto lucano intende presentare la venuta del Messia davidico
Figlio di Dio come l’intervento supremo dalla potenza di Dio: “Egli
sarà grande, sarà chiamato figlio dell’Altissimo… la potenza
dell’Altissimo verrà su di te…” (Lc 1,32s.35).
In
altri termini, quanto si verifica in Maria – che nella teologia di Lc
1-2 suppone l’evento pasquale di Cristo e la sua ricezione a livello di
fede e di liturgia - viene descritto con i termini della grande
liberazione dell’esodo, ma non è ad essa inferiore, anzi costituisce il
compimento di quella salvezza iniziale che in Cristo attinge pienezza e
nella parusia si manifesterà in tutta la sua efficacia. Il Dio cantato
nel Magnificat è dotato di straordinaria potenza salvifica, come tutta
la tradizione d’Israele ripete e come la personale esperienza della dou,lh conferma.
Posto enfaticamente, in fine di riga e in posizione chiastica rispetto al soggetto sottinteso di evpe,bleyen, a conclusione di una sezione racchiusa entro i termini megalúu,nei- mega,ála, il titolo o` dunato,j acquista un rilievo notevole.
Esso appare in posizione strategica anche perché da una parte conclude la serie dei titoli divini (Ku,rioj, Qeo,j, Swth,r) e dall’altra introduce la descrizione dei tratti divini della santità e della misericordia. Inoltre o` dunato,j con evpoi,hse,n mega,la prepara la seconda parte del canto (vv. 51-55), la quale inizia con una formula quasi parallela: evpoi,hse,n kra,átoj.
La
forza e potenza di Dio, già presente nel v. 49a, esplode infatti con
eccezionale violenza nella seconda parte del cantico. Il Magnificat
celebra anzitutto e direttamente l’intervento salvifico a favore della dou,lhe di Israele servo di Dio, ma l’azione divina si deve confrontare, in
un caso come nell’altro, con forze ostili di oppressione e di morte.
Su questo sfondo si colloca, la frase quasi descrittiva e santo è il suo nome(v. 49b). Contrariamente a quanto potrebbe apparire, neppure questa è
un’espressione astratta, né una definizione razionale di Dio. E’ noto
infatti che il nome sta per la persona, e sappiamo ormai di quale
potente personalità si tratta. La santità, per conseguenza - nel nostro
contesto, come anche altrove –, è la radice profonda dello zelo che
presiede alle azioni salvifiche di Dio. Il parallelismo più diretto per
il nostro testo, rimane il canto del mare, ove troviamo un’esplicita
associazione tra santità e intervento liberatore: “Chi è come te…,
Signore? / chi è come te, / maestoso in santità, tremendo nelle imprese, operatore di prodigi? (Es 15,11).
Nel Deuteroisaia il titolo caratteristico qedôš jisra’el è accompagnato da termini salvifici come go’el (21) e môšîa‘ (cf
Is 43,3). Ciò rivela la stretta connessione tra la santità di Dio e la
redenzione d’Israele che sono, per così dire, in rapporto di causa ed
effetto.
Anche l’e;leoj che
segue nel v. 50 – a conclusione della prima parte del cantico (22) -
non è un semplice sentimento o atteggiamento interiore, ma una
componente dinamica del Dio d’Israele, che sta alla base del rapporto
con il suo popolo: per la misericordia nei suoi confronti – legata
all’elezione e alla promessa – Dio interviene a salvarlo. Possiamo dire
che tutti i comportamenti di Dio salvatore: il guardare alla povertà
della serva, l’operare grandi cose sotto l’impulso della sua santità,
dipendono dal suo atteggiamento di hesed verso Abramo e la sua discendenza (cf vv. 54-55). (23)
“Nel linguaggio religioso lo hesed di Dio indica sempre più il suo aiuto misericordioso, e una tale accezione… si esprime nella traduzione e;leoj”. (24)
Trattandosi di un termine che ricorre con grande frequenza nei LXX, per lo più con Dio come autore, (25) non si può dire che e;leoj sia un vocabolo caratteristico dell’esodo. E’ vero, tuttavia, che tra l’e;leoj e i prodigi di Dio esiste un legame particolare. (26)
La salvezza è opera della sua misericordia, del suo amore e della fedeltà verso Israele, nel ricordo del giuramento fatto ai Padri.
L’immagine
divina emergente da questa prima parte del Magnificat è dunque
tradizionale ed eminentemente positiva. Il canto della Vergine si pone
sulla scia della grande storia e spiritualità d’Israele che celebra la
salvezza di un Dio potente, santo e misericordioso.
Il
Magnificat è stato diviso in molti modi. La struttura bipartita sembra
la più logica, non a caso è quella oggi maggiormente condivisa.
Qualunque divisione, tuttavia, deve prendere atto della forte unità del
cantico e della sua continuità tematica. Tra la prima e la seconda
parte si danno dunque accentuazioni più o meno marcate, ma nessuna
frattura. Il Dio della prima parte, misericordioso e salvatore, è anche
il Potente che non esita a compiere grandi cose sotto la spinta del suo
zelo e della sua santità.
Nella
seconda parte si sottolinea in maniera esplicita l’azione divina contro
superbi ed oppressori, ma l’interesse principale verte – come nella
prima parte – sui piccoli e gli affamati; e il canto si conclude con un
riferimento ad Israele servo del Signore, oggetto della misericordia
divina. Non si può quindi affermare in maniera riduttiva che la prima
parte tratta della misericordia di Dio verso i poveri e la seconda
della sua forza devastante contro i potenti. Sia la prima sia la
seconda celebrano l’azione di Dio salvatore e liberatore, il quale
indirettamente deve prendere posizione risoluta nei confronti degli
oppressori del suo popolo.
Il
v. 51 è da intendere in collegamento con il v. 49, e ciò conferma la
continuità tra le due parti del cantico, dal punto di vista formale e
del contenuto.
Ma tra i due versetti c’è anche opposizione: la medesima forza di Dio che compie mega,ála, vale a dire prodigi di salvezza per la dou,lh, causa
distruzione nei confronti degli operatori di ingiustizia. Ovviamente la
salvezza non è mai un’operazione indolore: essa si confronta di
necessità con la violenza degli oppressori. Per strappare le vittime
dalle loro mani si richiede un’esplosione della forza di Dio. L’azione
liberatrice comporta pertanto un aspetto drammatico e tragico,
testimoniato da tutta la storia della salvezza, a partire dalla
liberazione dall’Egitto, come appare fin dall’inizio della missione di
Mosè:
Allora
tu dirai al faraone: “Dice il Signore: Israele è il mio figlio
primogenito. Io ti avevo detto: lascia partire il mio figlio… Ma tu hai
rifiutato di lasciarlo partire: Ecco io faccio morire il tuo figlio
primogenito!” (Es 4,22s).
L’ostinazione
del faraone è irriducibile: resiste di fronte a nove spaventosi
prodigi, e cede infine – temporaneamente (cf Es 14,5ss) - di fronte
alla piaga della morte dei primogeniti (Es 12,29s). Solo allora (v.
31), costretto dall’immane tragedia, egli concede agli israeliti di
abbandonare la sua terra e la condizione di schiavitù.
Ma
la presentazione più efficace della liberazione d’Israele ad opera del
braccio potente di Dio è contenuta nel c. 14 dell’Esodo. Neppure la
morte dei primogeniti aveva fiaccato definitivamente la durezza del re
d’Egitto. Egli insegue con un potente esercito e raggiunge i figli
d’Israele accampati in riva al mare, non lasciando loro alcuna via di
scampo. Di fronte a tanta ostinazione e a tale estrema minaccia, il
Signore interviene direttamente per tutta una notte, operando mega,ála,
cose portentose. Al termine del racconto di quella fatidica notte di
salvezza per i figli d’Israele e di annientamento per l’esercito del
faraone, il testo biblico annota:
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In
quel giorno il Signore salvò Israele dalla mano degli Egiziani… Israele
vide la mano potente con la quale il Signore aveva agito contro
l’Egitto… Allora Mosè e gli Israeliti cantarono questo canto al
Signore…
e segue il celebre canto del maredi Es 15,1-18. (27) Il motivo di questo inno di vittoria è ripreso
ininterrottamente nella tradizione d’Israele, in particolare nei salmi
che celebrano la liberazione dei poveri dalle mani dei loro oppressori.
Esso costituisce il tema dominante della fede e
della pietà d’Israele che ad ogni Pasqua celebra i prodigiosi eventi
del passato e rinnova la speranza di una salvezza futura ad opera dello
stesso Signore operatore di cose grandiose.