Il Nuovo Testamento
Nel NT vengono ripresi i temi fondamentali della escatologia, ma sono tutti concentrati nella persona di Gesù. Egli è il centro del regno di Dio annunciato come proclama solenne nei vangeli sinottici di Marco, Matteo e Luca. In particolare, nel vangelo di Marco è riassunto in modo incisivo l’annuncio dell’avvento del regno di Dio, perché i tempi sono compiuti: Mc 1,15. Il primo significato di questo annuncio è la presenza di Dio. Dunque ciò che si attendeva e a cui era orientato tutto il VT, ora è reso presente in Gesù: egli è il regno, come poi i Padri della chiesa a cominciare da Origene, ribadiranno sempre.
Questa identificazione di Gesù con l’aspettativa di Israele porta a due conseguenze importanti. In primo luogo c’è il compimento di una attesa. Se Gesù è il Messia atteso, allora qualcosa di decisivo si è avverato con lui. Questa sua identità e la connessione col regno di Dio comporta una rilettura radicale delle profezie bibliche, un loro ridimensionamento, ma anche un arricchimento straordinario dei contenuti. Nella umiltà della persona di Cristo si superano tutte le promesse, perché non giunge un portavoce, ma il Verbo stesso di Dio, il suo Unigenito.
In secondo luogo, il Cristo, come l’aspettato, è chiamato ma compiere alcuni segni, che ne garantiscano l’autenticità, ma che siano anche annuncio di un mondo rinnovato. Così i miracoli sono la manifestazione dell’intervento di Dio della sua fedeltà alle promesse, come leggiamo in Mt 11,2-6 nell’episodio famoso degli inviati di Giovanni: i morti risorgono, dunque è iniziato il tempo del rinnovamento del mondo, che tuttavia è problematico, perché diversamente interpretato, fino allo scandalo.
Poiché nella vita di Gesù non si compiono tutte le aspettative che erano collegate all’attesa del regno di Dio, i vangeli non mancano di darci indicazioni sulla fine del mondo. Ancora nel vangelo di Marco abbiamo una indicazione significativa, quando in 13,32 si dice che neanche il Figlio conosce la data della fine del mondo. La questione è importante doppiamente, perché pone interrogativi sulla identità del Figlio e poi perché introduce nel mondo definitivo, al termine della storia. Alle due domande la teologia ha dato risposta con l’affermazione che la data della fine non fa parte della rivelazione, mentre l’invito alla vigilanza è esteso a tutti e ad ogni momento, perché la fine non è solo universale, ma anche personale ed individuale.
Ma la rivelazione più decisiva sulla escatologia non ce la danno tanto le parole, quanto invece le azioni di Gesù, in modo decisivo e definitivo la sua pasqua di morte e resurrezione. Così come ce la descrivono i quattro evangelisti, pur nella diversa sottolineatura teologico loro propria, è una sintesi sublime di ciò che attende ogni vivente umano. Possiamo dire con sicurezza che la pasqua è l’escatologia realizzata, perché in Gesù sono realmente giunti gli ultimi tempi, come anticipazione per tutti e come compimento definitivo per il Cristo. In questa realizzazione i tempi della fine sono dilatati per tutto lo scorrere della storia, ma hanno già raggiunto in Cristo il punto d’arrivo, che da una parte conferma la conclusione personale dell’esistenza e dall’altra apre le prospettive per una conclusione generale e globale della storia, secondo le coordinate del regno di Dio.
In questa linea troviamo delle anticipazioni importanti nei capitoli 5 e 6 del vangelo di Giovanni. In contesti diversi, la guarigione del paralitico e il discorso sull’eucaristia a Cafarnao, troviamo la stessa indicazione, ripetuta più volte: la resurrezione dei morti come opera del Figlio e il passaggio dalla morte alla vita per chi ascolta le sue parole e si ciba di lui come fonte perenne di vita, che rende possibile il passaggio dalla morte alla vita.
Nella testimonianza di san Paolo abbiamo tanto delle novità come delle solenni conferme. La novità consiste nella speranza di non morire e di essere partecipi della resurrezione di Cristo in modo diretto ed immediato. Ne fanno fede le affermazioni delle due lettere ai Tessalonicesi, che, in tempi diversi, testimoniano l’attesa dei primi cristiani sul ritorno di Cristo, con loro ancora in vita. Nella prima lettera ai Corinzi si dà indirettamente l’idea di questa persuasione, quando Paolo afferma che alcuni dei credenti sono morti e mette la cosa in collegamento con l’indegna celebrazione eucaristica; cfr 1Cor 11,30 e 15,51: non tutti saranno morti al ritorno di Cristo. Ma nella lettera ai Filippesi san Paolo ci dice chiaramente che ha superato la prima opinione ed è entrato nella logica totale della pasqua di Cristo. Non lo afferma esplicitamente, ma quando afferma che ‘per lui morire è un guadagno’ (Fil 1,21 ) ci fa capire il percorso spirituale che ha fatto: tutti dobbiamo partecipare realmente alla morte di Cristo per vivere personalmente anche la resurrezione.
In 1Cor 15 ci lascia un piccolo trattato sulla resurrezione ed è un capolavoro. Siamo informati sulla difficoltà che procura la predicazione e l’accoglienza della resurrezione. L’insistenza di Paolo è comprensibile: la resurrezione è il cuore, il centro del Vangelo: se Cristo non è risorto, la fede è vana! (v.14). E’ vana perché se il Cristo non è risorto, tutte le promesse di Dio sono senza consistenza; non è successo nulla. Con la resurrezione invece, è giunto a compimento il rinnovamento del mondo ed è stata anche determinata la strada della crescita umana, perché è data dalla resurrezione, cioè dalla nuova vita raggiunta dal Cristo, che così diventa prototipo e causa della nuova umanità (v.44-50).
L’ultimo libro del NT, l’Apocalisse, ci dà una visione sintetica del mondo futuro, ma esprimendolo quasi come una proiezione del mondo presente, dal quale si chiede di essere liberati, perché è fonte e causa di malvagità e morte, essendo in conflitto con il mondo di Dio. Nel futuro, cioè nel mondo di Dio, c’è la salvezza, perché solo Dio, mediante il sacrificio di Cristo, l’agnello immolato, è in grado di vincere il potere maligno legato all’egoismo, negatore di Dio e dell’umanità. E così si arriva alla fine, che non è distruzione, ma nuova vita: cieli nuovi e terra nuova, come sfondo dello sposalizio che unisce l’umanità al Cristo. Dunque una festa di nozze è la fine del mondo. Non ci poteva essere una conclusione più bella e desiderabile della storia umana.
Possiamo solo ricordare che questa conclusione, con i cieli nuovi e la terra nuova, accompagna tutta la storia biblica, da Isaia 66 fino alla seconda lettera di Pietro (c.3), per concludersi con Apocalisse 21-22 come autentica ‘rivelazione’ di tutto il processo della storia salvifica. Nei diversi modelli culturali che ci vengono proposti dalla Bibbia, nei vari generi letterari che il genere apocalittico ha espresso, tanto da lasciare un’impressione del tutto negativa, non bisogna dimenticare che alla fine, ciò che resta, non è la distruzione, ma il mondo rinnovato da Dio, come punto di arrivo della pasqua. Non fa meraviglia allora, se il desiderio dei primi cristiani era proprio la venuta di questo regno di Dio. Ma l’attesa dei cristiani d’oggi non può essere diversa, perché anche noi aspettiamo la stessa conclusione positiva. Sembra però che la prospettiva del mondo futuro sia molto sfuocata, se non addirittura ottenebrata dal nostro ripiegamento sulla vita presente, che ci fa perdere la prospettiva del mondo futuro di Dio, cioè della vera vita, che sta dinanzi a noi.
Per un approfondimento ulteriore
P. Sacchi, L’apocalittica giudaica e la sua storia, Paideia, Brescia 1990.
G.Canobbio- M.Fini (edd.), L’escatologia contemporanea. Problemi e prospettive, EMP, Padova 1995.
Mons. Marino Qualizza