Salgo sulla carrozza della metropolitana. Osservo le persone che sono sedute. Quasi tutte tengono la testa chinata sul proprio smartphone. Alcune, con le loro grosse cuffie, si sono trincerate lontano dai rumori esterni: stanno ascoltando musica – e non solo. C’è chi gioca e chi invia messaggi. C’è chi sta chattando e chi scorre le pagine di Facebook… Non è questione di generazioni. Non sono soltanto i più giovani ad essere occupati. Anche signore di una certa età hanno in mano il proprio smartphone e si danno da fare. Nessuno sta telefonando.
Nessuno ha in mano un libro – oggetto ormai obsoleto. Nessuno più legge durante il viaggio. Se qualcuno, alla nuova fermata della metro, sale, resta un invisibile sconosciuto. Non alziamo neppure la testa per vedere il volto del nuovo vicino che si è seduto proprio di fronte a noi. Fisicamente, si sta viaggiando nel sottosuolo, ma, praticamente, tutti si è altrove. Forse, in capo al mondo. Tutti connessi. Tutti collegati.
All’apparenza, sembra che finalmente abbiamo qualche cosa di interessante di cui occuparci. Ma resta in me una sorta di disagio. Avverto che tutta questa nostra occupazione possa nascondere un altro dato di fatto: siamo piombati in una vita dai tratti decisamente noiosi – e non riusciamo più a scrollarcela di dosso. Occupiamo un tempo, ma senza gusto. Chi ascolta musica, in realtà, non sta ascoltando. Si riempie, si fa compagnia con un continuo, perdurante suono di fondo.
Mi chiedo: nessuno che abbia voglia di ascoltare i rumori della vita od il silenzio? Nessuno che sia capace di riempire il proprio tempo pur non facendo niente? Nessuno che, in questa nostra frenetica vita di rincorse ed affanni, non sappia godersi qualche attimo di sano otium?
Con i loro smartphone di ultima generazione i ragazzi e le ragazze che conosco sono perennemente annoiati. Si addormentano con le cuffie ascoltando musica e al mattino si risvegliano con le cuffie che non sono rimaste mute un solo momento durante l’intera notte. In genere, non sanno cosa fare. Sembrano non trovare qualcosa di interessante. In fondo, anche quando sono in gruppo, sono soli. Giocano. Ma senza divertirsi. Chattano. Ma non stanno comunicando… Mi chiedo ancora una volta: dove abita la felicità?
Cosa è impresso nelle memorie dei loro smartphone? Canzoni. Molte canzoni. Le fotografie che a volte si scattano e si scambiano. Giochi. E tanto altro… che custodiscono con attenzione e dissimulazione dallo sguardo distratto degli adulti: materiale pornografico di ogni genere. È questa la fonte principale della loro educazione sessuale. La scoperta della sessualità non avviene attraverso l’incontro e l’alterità, ma nella percezione di una ripetitività ossessiva di comportamenti dubbi, spesso aggressivi e devianti. L’altro da soggetto di relazione diventa oggetto per soddisfare i propri desideri, piaceri, narcisismi.
Tutti connessi. E tutti, mi sembra, un po’ più soli. Poiché ci viene meno la prossimità. Ci sfugge tutto ciò che ci accade intorno. Non abbiamo uno sguardo per vedere chi ci è prossimo. La metafora del navigare mi rimanda all’immagine del naufragio. Sì, siamo un po’ tutti dei naufraghi – solo che, pur circondati da alte onde virtuali, non ci rendiamo conto che a poco a poco stiamo annegando.
Quanti messaggi si inviano! E quante risposte riceviamo! Eppure, c’è qualcuno che, in giro per il mondo, sta raccogliendo anche uno solo dei nostri disperati messaggi? E le risposte che riceviamo, sono risposte? Quante di queste arrivano al nostro cuore e nutrono il nostro bisogno d’amore e di relazione? Il nostro bisogno di riconoscimento e di appartenenza?
Cosa può voler dire tutto ciò da un punto di vista spirituale e religioso - questo persistente essere altrove? Apparentemente, questa estraneità potrebbe essere interpretata come un fattore molto importante nello sviluppo di un cammino spirituale. In realtà, per avere la possibilità di cogliere il valore di questa estraneità, dobbiamo prima ritrovare noi stessi. Imparare ad abitare in noi. Scendere nel più profondo di noi stessi. Ma è possibile farlo mentre siamo perennemente altrove? Il cristiano non è colui che pensa costantemente ad un altrove (sia esso il paradiso o la vita eterna), ma colui che ha i piedi ben piantati in terra. Per lui, il non ancora è un già che si sta compiendo. L’altrove è un qui ed adesso. Qui ed adesso gli è possibile incontrare Dio, nelle profondità del proprio cuore e nell’incontro con i fratelli.
Questo perenne essere altrove contemporaneo non risulta, alla fine, un giocare con quella Morte che già ci attende a Samarra? (1) Un fuggire da noi stessi che ci porta tuttavia incontro alla morte (mentre siamo convinti di fuggirne lontano)? Una morte, naturalmente, metaforica. La morte della prossimità, l’inaridimento delle relazioni, la perdita del gusto della vita, la rassegnazione a sopravvivere in uno stato d’infelicità permanente…
Sono ormai prossimo alla stazione a cui devo scendere. Mi godo ancora questi ultimi istanti di sano ozio… Sono rimasto sconnesso per tutto il viaggio e non mi sembra che il mio stato di felicità abbia subito danni…
Faustino Ferrari
1) Narra una leggenda orientale che nel giardino del re apparve la Morte ad un servo, dicendogli: «Domani ti vengo a prendere...». Il servo chiese al re di avere il cavallo più veloce, per fuggire lontano dalla Morte. Arrivato a Samarra, trovò la Morte ad attenderlo. Il giorno dopo il re chiese alla Morte: «Perché hai minacciato il mio servo?». E la Morte rispose: «Io non ho minacciato il tuo servo. Ero stupita a vederlo ancora qui, mentre lo dovevo incontrare proprio questa mattina a Samara».
Nella canzone di Vecchioni la città del racconto diventa Samarcanda.