Formazione Religiosa

Domenica, 10 Marzo 2019 17:24

Una Teologia dell'Empatia (Rabbi Arthur Green)

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Mi riferisco ad una teologia dell'empatia, ad una comprensione di Dio che mette l'amore e la cura per l'altro al centro del nostro cammino di fede. Non esiste una fede in Dio, che definisco autentica, se essa non ci spinge a prenderci cura e a fare qualcosa per le creature di Dio più bisognose.

Re Salomone, nel descrivere la "donna perfetta" dice di lei: "Ella è simile alle navi di un mercante, fa venire da lontano le provviste" (Proverbi 31,14). Voglio ringraziarvi, donne forti e leader nella vostra grande chiesa, per aver scelto di far arrivare il vostro nutrimento spirituale da così lontano, facendomi viaggiare da Boston a Roma e, più significativamente, attraverso la distanza che separa le nostre due tradizioni sorelle, scaturite dalla stessa fonte della Scrittura e della parola profetica. Le nostre tradizioni sono separate da un muro di sangue, di lacrime e di durezza di cuore, anche se provengono da un'unica radice. Negli ultimi decenni in quel muro si è aperta una breccia, in parte grazie alla memoria di molti membri di ordini religiosi femminili che hanno rischiato la loro vita per salvare i bambini ebrei durante la notte oscura caduta su di noi in questo continente, ma anche grazie al grande cambiamento del cuore introdotto dal Concilio Vaticano II e dallo spirito di Papa Giovanni XXIII. Che la sua memoria sia benedetta! Anche se non sono cattolico, prego per il giorno della sua canonizzazione. Sono disposto a pregare per molto tempo.

Mi presento a voi, oggi, come maestro, un maestro di maestri. Ho dedicato gran parte della mia vita alla formazione dei rabbini, dopo aver servito come presidente di un seminario e come fondatore di un altro seminario. Credo fermamente che l'ebraismo, una delle più grandi tradizioni religiose del mondo, abbia ancora molto da offrire sia ai suoi fedeli che alla comunità universale di tutti coloro che sono in ricerca. La saggezza, la luce interiore nascosta nella nostra Torah, deve essere ricercata, scoperta, attualizzata e resa accessibile dai nuovi rabbini, nello stesso modo in cui essa è stata trasmessa di generazione in generazione. Questo è il lavoro in cui sono impegnato.
Faccio questo lavoro a partire da una prospettiva particolare. Anche se non appartengo a nessuna delle denominazioni più conosciute all’interno del giudaismo, mi considero un ebreo neo-chassidico. Questo significa che studio e mi ispiro agli insegnamenti del Chassidismo, il nostro grande movimento di pietà popolare che ebbe inizio in Europa Orientale, fondato dai discepoli di Ba'al Shem Tov, Rabbi Israel Master of the Good Name (il rabbino Israele Maestro del Buon Nome), che è passato all'eternità 250 anni fa in questo mese.

Il Chassidismo insegna una versione fortemente semplificata della Kabbalah, la tradizione mistica ebraica. Essa sottolinea che "tutta la terra è piena della gloria di Dio" (Is 6,3), secondo le parole del profeta che Dio può essere trovato in ogni luogo e in ogni momento. Lo scopo della tradizione, della preghiera e del rito è quello di aiutarci ad aprire il cuore a quella presenza. Quando lo facciamo, siamo in grado di far emergere e di liberare le scintille di luce divina che sono dentro di noi e intorno a noi, riportandole alla loro fonte nell'Unico Dio.
Il Neo- chassidismo differisce dal Chassidismo classico, che ancora esiste e prospera, in due aspetti importanti. Noi non condividiamo il disprezzo chassidico della modernità, in particolare dell'educazione e della scienza moderna. Noi accettiamo la legittimità della ricerca scientifica e storica e crediamo che, di conseguenza la fede debba essere continuamente rinnovata. Inoltre, noi non crediamo che i principi del Chassidismo debbano essere applicati o limitati ai soli ebrei. I suoi insegnamenti riguardano Dio e lo spirito umano e si esprimono in molte lingue diverse nella nostra vasta comunità umana. Noi vogliamo un ebraismo che riconosca il suo posto all'interno di questo spettro meraviglioso e colorato, non un ebraismo che cerca di rimanere al di fuori o al di sopra di esso. E oggi sono qui con questo spirito.
Noi moderni rabbini serviamo un popolo che si è alquanto secolarizzato nella vita quotidiana. Le persone non passano molto tempo a parlare con Dio né a parlare di Dio. Eppure vivono una profonda ricerca di senso, anche se non possono articolarla nel linguaggio religioso classico. Vogliono trovare il senso della loro vita. Credono fortemente che dobbiamo contribuire a rendere il mondo un posto migliore, a sminuire la sofferenza umana e ad aumentare la bontà tra le persona. Non a caso gli ebrei sono presenti in ogni gruppo che difende i diritti umani ed opera per ridurre le sofferenze umane. Noi ricordiamo ancora che siamo stati schiavi in Egitto. Questo ricordo, insieme ad altri più recenti, ci spinge a prenderci cura degli oppressi e dei sofferenti ovunque essi siano. Il senso della famiglia e della connessione inter-generazionale rimane ancora molto forte. Gli ebrei, anche quelli che apparentemente hanno poca fede o poca conoscenza del mondo ebraico, credono che abbiamo ricevuto dai nostri antenati una preziosa eredità che abbiamo il dovere di trasmettere ai figli dei nostri figli. Anche se molti fanno fatica a comprendere in che cosa consiste questa eredità, cercano comunque di trasmettere qualcosa di essa.

Gli ebrei si ritrovano a rivolgersi ai rabbini ed alle comunità della sinagoga specialmente per quanto riguarda il ciclo di vita e questo senso di eredità. La nascita di un bambino, l'educazione nella tradizione, la celebrazione delle tappe fondamentali della vita, le morti tragiche o la sfortuna, l'invecchiamento e la malattia dei genitori, la morte e il lutto: tutte queste realtà fanno sì che gli ebrei, dalle loro occupazioni mondane, tornino a cercare saggezza e consolazione nella loro tradizione e il sostegno personale e l'affetto di rabbini e altri sacerdoti.
In questi momenti ci si aspetta che i rabbini incontrino gli ebrei con empatia attingendo da una profonda riserva di amore, di sollecitudine e di capacità di donare e di essere presenti con persone con le quali, altrimenti, avrebbero scarsi rapporti. In questi momenti non sono sufficienti le frasi di pietà tradizionali, né tantomeno il tentativo di un insegnamento puramente intellettuale. Il rabbino non deve essere visto solo come un professionista, ma soprattutto come una persona autentica, che si prende cura degli altri concretamente. Come ben sapete, questa capacità di essere presenti può scaturire solamente dalla vita spirituale. Per vivere una vita di donazione agli altri è necessario essere nutriti dalla presenza di Dio nella propria vita. Per sostenere la gente, nel loro dolore e nella loro gioia un rabbino deve manifestare la propria forza, che in realtà non è del tutto sua, ma di Dio, in cui egli è radicato tramite la fede.
Così, insegnare agli studenti come diventare rabbini, aiutare ognuno a crescere nella propria vocazione di rabbino, nel 'rabbinato', come noi usiamo dire, include la formazione su come coltivare il proprio giardino interiore. Questa formazione prevede la preghiera, sia comunitaria che personale. La direzione spirituale e il counseling sono anche parte del nostro programma. Ma, nella nostra tradizione, la vita interiore si nutre anche dello studio delle fonti, insegnate e discusse con cuore aperto, così che la vita spirituale di ogni rabbino affondi le sue radici direttamente nel testo e nel linguaggio dei secoli. Non dimenticate che nella nostra tradizione il Verbo che era presso Dio fin dall'inizio non si è fatto carne, ma rimane Verbo, che si esprime nella Torah, che comprende il processo permanente dell'insegnamento, dell'apprendimento e la costante creatività di nuove interpretazioni. Al centro della educazione rabbinica è situato il bet midrash o sala di studio, dove gli studenti siedono in coppie o in piccoli gruppi per discutere sui testi.

Ma qual è la teologia che mette insieme tutto questo? Dove trovare un linguaggio che richiami questo sentimento profondo della nostra comune umanità e ci incoraggi ad aprirci agli altri? Mi riferisco ad una teologia dell'empatia, ad una comprensione di Dio che mette l'amore e la cura per l'altro al centro del nostro cammino di fede. Non esiste una fede in Dio, che definisco autentica, se essa non ci spinge a prenderci cura e a fare qualcosa per le creature di Dio più bisognose. Ma In che modo possiamo esprimere questo concetto nel contesto dell'ebraismo contemporaneo? Vorrei portarvi nel cuore di questa ricerca linguistica che sarà anche un viaggio nel cuore della fede ebraica come essa esiste oggi.

Non possiamo che cominciare con lo Shema' Yrsra'el, "Ascolta Israele, Y-H-W-H nostro Dio, YHWH è l'Unico. (Per favore, notate che ho separato le lettere del nome di Dio, che a noi non è permesso pronunciare). Questo versetto biblico (Deut 6, 4) è "il motto" della nostra fede, recitato dai fedeli due volte al giorno, "quando riposerai e quando ti alzerai".
La più nota di tutte le preghiere ebraiche, lo Shema' Yrsra'el, non è in realtà una preghiera. La preghiera è un atto in cui l'essere umano si volge verso Dio. La sua essenza è l'apertura del cuore. La preghiera è infatti chiamata dai primi rabbini "adorazione del cuore". Di solito, ma non sempre, essa ha una componente verbale, rivolta all'Onnipotente. Le preghiere ebraiche più caratteristiche sono chiamate berakhot o "benedizioni" e si aprono con l'espressione "Benedetto sei tu Signore ...", ma questa espressione è rivolta alla comunità, piuttosto che a Dio. Ora la tradurrò in maniera più completa: "Ascolta Israele" - "Ascoltate, miei fratelli ebrei!" "L'Essere è il nostro Dio, l'Essere è unico!"

Tornerò in seguito sulla parola "Israele" in questo versetto, perché questa è una parte essenziale della nostra conversazione. Ma consentitemi di cominciare ora dalla questione funzionale, la grande questione quando si tocca la realtà. Quale differenza apporta il monoteismo? Un dio, dieci dei, mille dei, qual è la differenza? Noi ebrei (in questo senso siamo simili ai musulmani) insistiamo sulla assoluta unicità di Dio e siamo orgogliosi della "purezza" del nostro monoteismo. Ma perché dovremmo esserlo? Qual è il valore del monoteismo?

L'unico valore del monoteismo è quello di rendervi consapevoli che tutto ciò che esiste, e tutte le creature - cioè, la roccia e il filo d'erba nel giardino, come pure la lucertola e il tuo vicino della porta accanto - in origine sono tutti una cosa sola. Voi provenite dallo stesso luogo. Voi siete stati creati nello stesso atto di grande amore Dio si compiace in ogni forma che esiste e su ognuna elargisce la Sua grazia. Pertanto, e questa è l'unica cosa che conta davvero: Trattatele bene! Sono tutte creature di Dio: esse esistono solo per la presenza divina, la stessa presenza divina che fa esistere te. Questa consapevolezza ci invita a cercare di conoscerle, a cercare di amarle, a scoprire il dono divino unico e originale in ciascuna di loro, a vivere nello stupore per la luce divina che si diffonde in tutto il mondo. Questo è ciò che significa essere una ' persona religiosa'.
All'interno della comunità umana quest'amore significa anche rispetto per la diversità e per i confini. Uno spirito mistico che cerca di annullare tutte le distanze e le separazioni tra i figli di Dio non può ricorrere a questa scusa per ignorare i confini. È facile dimenticare il rispetto per l'alterità in un contesto religioso. Questo succede, a volte, a persone animate da buone intenzioni che sono così prese dall'amore che sentono dentro, da perdere il controllo e scoprono, così, che i confini tra agape e eros non sono così marcati come credevano. Amore e dominio di sé, le due mani, destra e sinistra, di Dio, devono essere ben equilibrate, sia nel cosmo che dentro se stessi.

Mi rendo conto che sarebbe più diplomatico per un ospite fare silenzio sulle questioni dolorose ed imbarazzanti che hanno luogo all’interno della propria famiglia. Ma ritengo che rimanere in silenzio sia persino meno rispettoso. Come amico della vostra grande chiesa piango con voi il dolore di tutte le vittime, inclusi i sacerdoti, le cui vite sono state rovinate da energie che hanno rotto un profondo equilibrio. Se sono qui a parlare di empatia devo anzitutto esprimere empatia per il dolore e la perdita vissuti dai Cattolici in tutto il mondo negli ultimi anni. Questo include empatia per tutti coloro che sono stati feriti da abusi e da comportamenti scorretti, empatia per tutti coloro che si sono illusi di potersi nascondere, ai propri occhi e agli occhi di Dio, dietro il velo di un tentativo di celibato, empatia per tutti coloro che vivono nella confusione, nel dubbio e che hanno perduto la fede. Prego che il Signore accompagni il vostro ministero di guarigione, guarigione della vita di singoli individui e guarigione delle profonde ferite inflitte alla chiesa stessa. Ironicamente, voi donne che avete così poco a che fare con questa crisi, perché essa è stata causata principalmente da uomini e dalla psicologia maschile, darete un grande contributo a questo processo di guarigione. Sicuramente, prego perché la chiesa possa imparare da questi eventi quanto è necessaria la saggezza e la leadership delle donne per ricostituire un equilibrio che sembra così difficile da raggiungere per tanti uomini, sia nella chiesa che nel mondo.

Adesso la parte più controversa della mia tradizione. La tradizione mistica del giudaismo, dalla quale io provengo, insiste sulla necessità di tradurre il nome di Dio come l’“Essere". Questo è Y-H-W-H, il nome ebraico per Dio, quello che vediamo sulla pagina, ma che non osiamo pronunciare. La Scrittura ci dice (Ez 6, 2-3) che questo è il nome di Dio. Ma, in realtà non è un nome proprio, non è nemmeno un sostantivo. Y-H-W-H è una fusione impossibile di tutti i tempi del verbo "essere" in ebraico: HYH, che significa "era"; HWH, che indica il presente e YHYH, "sarà". In questa parola essi sono messi tutti insieme in una forma impossibile. Probabilmente dovrebbe essere tradotto come "Era-É-Sarà". Ma dal momento che un po' difficile da pronunciare ogni volta, "l'Essere" è la traduzione migliore che possiamo fare, anche se dobbiamo intendere il temine "Essere" come qualcosa che trascende il tempo e lo spazio.
Il significato è profondo. "Dio" e l'esistenza non sono separabili. Dio non è un individuo qualsiasi lassù che ha creato quaggiù una entità separata, distinta, chiamata "mondo". Non vi sono due realtà, ve n' è solo una. I mistici insistono nel portare il monoteismo un passo avanti rispetto ad altri.

Affermare di credere in un solo Dio, ma poi descrivere questo Dio come un vecchio con la barba seduto su un trono - o in qualsiasi altro modo, preso alla lettera - è semplicemente una forma concentrata di idolatria. È come quella vecchia storia che ogni bambino ebreo impara, in cui il padre di Abramo, Terach è il proprietario di un laboratorio di idoli. Una volta egli aveva bisogno di uscire e chiese a suo figlio di custodire il negozio. Abramo ruppe tutti gli idoli eccetto quello più grande, poi mise un'ascia nella mano del grande idolo. Quando Terach tornò, si guardò intorno e disse, quasi in stato di shock: "Cosa è successo a tutti i miei dei?" Abramo rispose: "L'idolo più grande li ha distrutti tutti". "Non dire sciocchezze", rispose Terach "sono solo idoli". "Ah!", esclamò Abramo, e quel "Ah!" si suppone sia stato l'inizio del monoteismo.
E se c'è qualcosa di importante che viene detto qui tra le righe? Come facciamo a sapere che il nostro unico Dio non è solo l'idolo più grande? Se il monoteismo è solo una questione di numeri, tutto quello che rimane è un unico grande idolo. Troppe persone si fermano qui. Il vero cambiamento sta nel modo in cui si guarda all'esistenza stessa. Infatti, il modo in cui si dice "esistenza" in ebraico è HWYH, che si pronuncia Hawayah, le quattro lettere del nome segreto di Dio, disposte in altro modo. Vedere "Dio" quando si guarda all'esistenza richiede una riorganizzazione delle molecole, per così dire. Vedere il grande quadro al posto di molti piccoli quadri. Dio è l'Essere, quando si vede l'Essere come l'unico, allora si vede l’immagine intera. Naturalmente non potremo mai vedere veramente il grande quadro tutto intero. La somma è infinitamente più grande della totalità delle sue parti. Rimane il mistero trascendente, anche nella mia teologia immanentistica. Ma per me la trascendenza risiede all'interno della immanenza. La trascendenza non si riferisce ad un Dio che dimora da qualche parte "là fuori", dall'altro lato dell'universo (che non ha i lati, gli astronomi ci assicurano! ). La trascendenza significa che Dio è qui, presente proprio in questo momento, in un modo così intenso e profondo che noi non potremmo mai spiegare. Questo è il mistero.

Questa è la verità segreta. Ascoltate ciò che uno dei grandi sapienti, un Maestro Chassidico ha rivelato in una lettera che ha scritto ai suoi figli ed ai suoi nipoti. Cito il famoso Sefat Emet, il rabbino di Ger o Gora Kalwarya in Polonia.
Ciò che noi proclamiamo ogni giorno quando diciamo Shema' Yrsra'el deve essere compreso nel suo significato reale.... "Y-H-W-H è l'unico" non significa che è l'unico Dio, negando l'esistenza di altri dei (sebbene anche questo sia vero). Il suo significato è più profondo. Non c'è altro essere al di fuori di Lui... Tutto ciò che esiste nel mondo, spirituale e fisico, è Dio stesso... Per questa ragione, ogni persona può essere in unione con Dio ovunque essa si trovi, grazie alla santità che esiste in ogni singola cosa, anche nelle cose corporali. Bisogna semplicemente annullarsi in una scintilla di santità... Questo è il fondamento di tutti gli insegnamenti mistici del mondo!
Naturalmente non è così facile come sembra. "Annullarsi in una scintilla di santità", per fare spazio a che Dio entri, è il compito di tutta la vita. Fare questo lavoro interiore in maniera sana ed integra è il fine che tutti cerchiamo di raggiungere con fatica.

Ma ora devo tornare all'inizio della nostra non-preghiera "Ascolta Israele". Chi è "Israele" in questa frase? Ricordiamo le origini di questa parola. Una volta il nostro antenato Giacobbe ha lottato tutta la notte con un angelo. Un tipo forte, quel Giacobbe. Persino un angelo non riuscì a vincerlo. Quando arrivò l'alba l'angelo disse: "Lasciami andare! È tempo di cantare le lodi di Dio!" Rispose Giacobbe: "non ti lascerò andare fino a che non mi avrai benedetto". Così Giacobbe uscì da quell’incontro con un nome nuovo: Israele, che significa "colui che lotta con Dio".
Credo che quel nome appartenga a tutti coloro che combattono, non solamente agli ebrei e non solamente ai cristiani. Chiunque lotti con gli angeli, chiunque si sforzi di dare un senso alla vita è parte di una più ampia comunità chiamata "Israele". Shema' Yisra'el, Y-H-W-H Johenu, Y-H-W-H ehad significa allora, "Ascoltate, tutti voi che faticate, che lottate col significato della vita! "L'Essere è il nostro Dio, l'Essere è Unico!" Non guardate oltre le stelle. Non c'è bisogno di allungare il collo. Dio è proprio qui, riempie tutta l'esistenza di bontà infinita. Aprite i vostri occhi. Trasformare la lotta in abbraccio. Trovare la presenza di Dio nella visione unificata e trasformante di tutto quanto esista.

"Ascolta Israele" è seguito immediatamente da "Amerai Y-H-W-H tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze". Questa è una delle due grandi dichiarazioni di amore nella Torah, che Gesù ha detto costituiscono l'essenza degli insegnamenti della Legge. Per molti secoli i nostri saggi hanno cercato di capire come è possibile comandare l'amore, se si tratta davvero di un comandamento. L'amore non richiede spontaneità? Non è vero che l'amore nasce spontaneamente dal cuore? Ma quando lo shema' è recitato nel contesto della nostra liturgia quotidiana è sempre preceduto da una dichiarazione dell'amore di Dio per noi. Nelle nostre preghiere del mattino ogni giorno noi diciamo: "Grande è il Tuo amore per noi, su di noi riversi il flusso abbondante della Tua compassione". E la sera diciamo: "Con amore eterno hai amato la casa d'Israele, Tuo popolo". Ci viene ricordato anzitutto l'amore di Dio per noi e, quindi, siamo richiamati all'unità di tutti gli esseri. A quel punto, non abbiamo più bisogno che ci venga "comandato" di amare. L'amore scaturisce dal nostro intimo come risposta in maniera così naturale ed essenziale per noi come il respirare o il parlare. In questo caso la traduzione più appropriata in inglese non sarà più "Dovrai amare Y-H-W-H tuo Dio", ma "Amerai... ", vale a dire, un'affermazione piuttosto che un comandamento.

Possiamo applicare questo principio anche all'altro amore prescritto dalla Torah "Ama il tuo prossimo come te stesso" (Lev 19, 18)? Quell’amore può diventare, allo stesso modo, talmente naturale che non abbiamo più bisogno di viverlo come un "comandamento", ma come qualcosa che scaturisce dal nostro intimo? Per dare una risposta ebraica a questa questione, dobbiamo far riferimento ad una famosa diatriba tra due dei primi rabbini, che hanno vissuto circa un secolo dopo Cristo: Rabbi Akiva martire per mano dei Romani e il suo amico Ben Azzai. Il Talmud racconta che essi hanno dibattuto a lungo su questa questione: "Qual è il principio fondamentale della Torah?" Qual è l'insegnamento per il quale esiste tutto il giudaismo? Akiva aveva una risposta pronta "Ama il tuo prossimo come te stesso" (Lev 19, 18). Akiva è stato il più strenuo difensore ebraico della via dell'amore, anche se forse dovrei dire che egli condivide questo onore con Gesù di Nazareth. Akiva è stato colui che ha insistito che il Cantico dei Cantici fosse incluso nella Sacra Scrittura, definendolo il "Santo dei Santi", pronunciato da Dio a Israele sul Monte Sinai. La storia di Rabbi Akiva e dell'amore di sua moglie è uno dei pochi racconti veramente romantici nella letteratura rabbinica. Così anche il racconto della morte di Akiva. Mentre veniva torturato dai Romani, disse: "Ora capisco il comandamento di amare Dio con tutta la tua anima anche se Egli prende la tua anima tu lo amerai". Quindi, non ci sorprende che Akiva sia presentato come colui che crede che l'amore sia la regola fondamentale della Torah.

Ma Ben Azzai non era d'accordo. Diceva: “ho un principio più importante del tuo” e citava il libro della Genesi, cap. 5, 1-2: "Il giorno in cui Dio creò gli esseri umani, essi furono creati ad immagine di Dio; dorma e uomo Dio li creò". Questo è il principio fondamentale: ogni essere umano è immagine di Dio, Ben Azzai diceva ad Akiva. È più facile amare alcune persone, piuttosto che altre. Alcuni giorni sei capace di amare, altri giorni non puoi. Ma, sempre, devi riconoscere e trattare tutti come immagine di Dio. L'amore è un piedistallo troppo fragile per reggere tutta la Torah. È troppo rischioso fondare il mondo sul comandamento dell'amore. Forse Ben Azzai considerò anche che il principio di Akiva poteva essere ristretto, se concepito solo riguardo alla propria comunità. "Il tuo prossimo", dopo tutto, poteva riferirsi solamente agli ebrei. O ai cattolici. O ai confratelli di culto che si comportano correttamente. E gli stranieri? I peccatori? I nemici? Il principio di Ben Azzai non lascia spazio ad eccezioni, dato che fa capo alla Creazione stessa. Non solo "la tua gente", ma tutti sono stati creati ad immagine di Dio.

Una volta che abbiamo un principio di base o anche una serie di principi fondamentali, abbiamo un modello che ci consente di valutare tutte le altre regole e pratiche, gli insegnamenti e le idee teologiche. Questa particolare idea o questo insegnamento ci aiuta a vedere il divino in ogni persona? Questa interpretazione della Scrittura potrebbe essere un ostacolo in questa linea? Potremmo interpretarlo in modo diverso, che sia maggiormente in sintonia con il nostro principio di base? Qui troviamo un principio ebraico fondamentale che permette di sollevare alcune domande importanti, un principio che dovrebbe essere maggiormente utilizzato da coloro che danno forma alle nostre halakhah e al vostro odierno diritto canonico. Faccio riferimento al Mal gadol, il principio fondamentale, che significa "ciò per cui esiste tutto il resto", il principio animatore di tutta la nostra vita religiosa In questo caso, ogni forma di ebraismo che si allontana dal suo scopo - far sì che ogni essere umano diventi, e sia visto, come immagine di Dio nel modo più pieno possibile - è una distorsione della nostra religione. Questa sfida costante richiede che in ogni generazione si allarghi il cerchio di coloro che noi consideriamo pienamente umani, portatori dell'immagine di Dio, mentre cerchiamo di ampliare i confini del sacro. Nella misura in cui siamo capaci di vedere l'immagine di Dio in una porzione sempre più ampia di umanità, ci apriremo sempre più alla presenza di Dio. Vedere Dio in ogni essere umano non è un compito facile. Potremmo passare la vita intera e non aver ancora raggiunto la perfezione in quest'arte, ma vi chiedo di unirvi a me in questo compito.
L'imperativo morale dell'Ebraismo inizia con la Creazione. Il nostro insegnamento fondamentale, per il quale l'ebraismo deve ancora esistere, è la nostra convinzione che ogni essere umano è immagine unica di Dio. "Perché Abramo è stato creato da solo?", chiede la Mishnah. "Perché nessuno possa dire: mio padre era più superiore al tuo". "Quanto è grande il Creatore! Un re umano fa coniare le sue monete in una pressa e sono tutte uguali. Ma Dio ci conia tutti nella forma di Adamo, e non esistono due esseri umani uguali!" Ognuno di noi è necessario, in quanto immagine di Dio e non può essere sostituito da nessun altro. È così semplice.

"Perché le immagini scolpite sono proibite dalla Torah?", ho sentito chiedere una volta dal mio grande maestro Abraham Joshua Heschel. Perché la Torah è così preoccupata per l'idolatria? Voi potreste pensare che è perché Dio non ha un'immagine e, pertanto, ogni immagine di Dio è una distorsione. Ma Heschel ha letto questo comandamento in modo diverso. "No", ha detto, "è proprio perché Dio ha un'immagine che gli idoli sono proibiti. Voi siete l'immagine di Dio. Ma potete modellare quell’immagine solo con la vostra vita. Prendere qualsiasi cosa che non sia un essere umano che vive e che respira e cercare di creare da essa l’immagine di Dio sminuisce la divinità ed è considerato idolatria". Voi non potete creare l'immagine di Dio, potete solamente essere l'immagine di Dio.

Torniamo ora alla questione dell'empatia. Per comprendere l'empatia vi offro una teologia in cui l'alterità non è del tutto assoluta. In definitiva noi siamo tutti parte dell'Unico, incarnazione della stessa presenza divina. Dietro la maschera dell'altro troviamo l'unicità del Creatore che si riflette nell’opera. Empatia significa sia abbracciare ognuno nella sua diversità che vedere attraverso quella diversità la nostra unità.
Voi disponete di un linguaggio meraviglioso per esprimere questo nella vostra tradizione, quello del Corpus Domini. Noi parliamo dell'immagine, o anche, del corpo di Adamo che include tutti noi. Ma vi è una certa confusione su questi concetti. Il Corpus Domini include solo gli appartenenti alla chiesa o abbraccia l'intera comunità umana e il mondo intero? Naturalmente questa è una domanda cui devono rispondere i vostri teologi, non io. Ma noi abbiamo una versione diversa dello stesso problema. Rimaniamo un popolo distinto, un'entità etnica, come pure una comunità di fede. Insistiamo sul fatto che possiamo essere entrambe le cose contemporaneamente. Ma allora quanto siamo esclusivi? Le nostre preghiere sono piene di richieste a Dio di benedire noi "e l'intero popolo di Israele". Preghiamo solo per noi stessi? E il resto dell'umanità? Preghiamo anche per loro?

Per molti secoli, l'ebraismo non è stata una tradizione evangelica. Soprattutto a causa del successo del cristianesimo e per il fatto che i regimi cristiani e islamici proibivano la conversione all'ebraismo, non abbiamo fatto nulla per trasmettere ad altri la nostra tradizione, ma ci siamo concentrati solo sulla nostra sopravvivenza. Eppure la nostra preoccupazione rimane universale. Non vogliamo che tutta l'umanità abbracci l'ebraismo, ma vogliamo che viva secondo le nostre verità essenziali: l'unicità di Dio e la certezza che ognuno di noi, ogni persona sulla terra porta in sé l'immagine di Dio. Questo è il nostro messaggio per l'umanità.

Questa è la grande lotta all'interno del giudaismo oggi. Quanto è ampio il nostro cerchio di empatia di compassione? Possiamo aprire le porte dei nostri cuori per includere l'intera famiglia umana e persino, all’interno di essa la più grande famiglia degli esseri naturali, senza perdere il nostro senso distintivo della storia e della identità etnica? L'amore particolare che ho per i membri della mia comunità è un amore che mi incoraggia ad aprirmi di più, ad abbracciare in questo amore cerchi sempre più ampi? O mi chiude agli altri, creando un circolo di esclusività, dal quale rimane fuori la maggior parte dell'umanità?

Noi ebrei e cristiani siamo i discendenti spirituali dei profeti, che erano religiosi rivoluzionari. Essi dovevano difendere fermamente l'unicità del loro messaggio. Il Dio, nel cui nome parlavano, era completamente diverso da qualsiasi altra cosa venerata nel mondo pagano. Deridevano gli dèi pagani: "Hanno occhi, ma non vedono, hanno orecchi, ma non sentono ... Sia come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida. Israele confida in YHWH (Sal 115, 5, 8-9)". Le nazioni del mondo antico avevano, ciascuna le proprie divinità. Così esse si consideravano entità separate, ed erano poco interessate alle altre genti. Nel proclamare un solo Dio, i profeti hanno parlato anche di un solo mondo e di una sola famiglia umana. Questo richiede una preoccupazione concreta per l'altro che, in definitiva, non è del tutto "altro".
Come tutte le rivoluzioni, anche questa ha lasciato una eredità complessa. Sosteneva che solo noi possedevamo la verità. In questo Salmo, "Israele" rappresenta solamente coloro che confidano in YHWH e nessun altro.. Quando la chiesa ha affermato di aver ereditato questo mantello, diventando il "nuovo Israele", essa ha anche ereditato questo lato oscuro dell'esclusivismo. Sì, il cristianesimo ha abbattuto i muri etnici, tutti i popoli sono stati accolti nella nuova chiesa. Ma esso ha sostituito le mura etniche con mura teologiche o rituali. La cristianità è divenuta la comunità dei battezzati o di coloro che condividono una fede ben definita.

Entrambi abbiamo bisogno di lottare contro questa eredità dell'esclusivismo. Si può incolpare l'antico Israele e i suoi profeti per aver dato inizio a questo, ma la Chiesa lo ha ereditato e ha innalzato la posta in gioco, fino a quando anche noi ebrei siamo stati considerati estranei. Ma ora non è più la stessa cosa. Il mondo è diventato troppo piccolo. Noi tutti viviamo fianco a fianco gli uni con gli altri e la necessità è divenuta urgente. Dobbiamo lavorare fianco a fianco per affrontare le grandi sfide che ci stanno davanti. Queste includono il degrado dello spirito umano nella nostra cultura moderna profana, le lusinghe senza fine del materialismo egoistico e le grandi ingiustizie che esso produce, la salvaguardia del nostro pianeta come una casa destinata ad accogliere forme superiori di vita. Tutte queste sfide costituiscono il lavoro reale dei fedeli e delle comunità e noi dobbiamo essere uniti per affrontarle. Per fare questo, dobbiamo tornare a "YHWH è l'unico" e alla esigenza di amore universale che esso implica. Questo rappresenta l’insegnamento di entrambe le nostre tradizioni.

Per noi ebrei, la lotta contro l'esclusivismo tocca un altro argomento che ci sta molto a cuore. Mi rivolgo a voi in questo decennio in cui gli ultimi superstiti del nostro terribile Olocausto stanno per terminare il loro tempo qui sulla terra, il momento in cui la memoria della sofferenza si trasformerà in "semplice" storia. Lottiamo ogni giorno con la questione della eredità dell'Olocausto, l'assassinio di un terzo del nostro popolo e la distruzione di tante risorse culturali e spirituali. Cosa dobbiamo imparare da questo terribile evento? Noi non crediamo che Dio abbia voluto punirci, noi crediamo che sia frutto del male umano. Ma ancora, dobbiamo imparare da esso, dobbiamo scoprire il messaggio di Dio in esso e dappertutto. Molti ebrei ritengono che il messaggio sia chiaro. "Mai più!" significa che il sangue ebraico non è a buon mercato. Ci difenderemo, cercheremo di negoziare con i nostri nemici, e non permetteremo che gli ebrei siano ancora vittima. Ma i migliori tra i sopravvissuti, tra cui Heschel e Elie Wiesel - che siano benedetti con una lunga vita! - hanno capito. "Mai più!" significa che mai più pernotteremo che accada un altro genocidio nella nostra unica famiglia umana e che noi, come persone sopravvissute al genocidio, ci batteremo per tutti coloro che soffrono. La storia non ci ha reso questo compito facile, come sapete. Ma non ci è mai stato promesso che sarebbe stato facile.


La vostra chiesa ha compiuto grandi passi avanti in apertura di spirito, in parte in risposta a quello stesso terribile evento. Lo spirito del Concilio Vaticano II e, in particolare, le parole di Nostra Aetate, hanno dato a tutti noi tanta speranza a che fosse data piena espressione alla vera cattolicità o universalità della vostra fede. Molti di noi, me compreso, abbiamo imparato e siamo stati ispirati dalla capacità della vostra chiesa di pentirsi, di crescere e di cambiare, pur restando fedele alla propria identità. Vi esorto con tutto il cuore a continuare questo percorso di crescita, senza scendere a compromessi nei vostri cuori e nel vostro insegnamento. Vi assicuro che, insieme ai miei colleghi e agli studenti, ai rabbini presenti e futuri, lottiamo al vostro fianco perché anche la nostra tradizione abbracci tutta l'umanità. Noi persone di fede abbiamo bisogno gli uni degli altri, per contribuire a quella guarigione e a quella riparazione di cui le nostre comunità, ognuna a suo modo, hanno un estremo bisogno. Sosteniamoci ed aiutiamoci a vicenda in questo compito. Non lasciamo che il peso della storia o antiche questioni per l'accesso esclusivo al regno di Dio ci dividano. Il regno di Dio accoglie tutti gli esseri umani, e abbraccia tutti noi, con tutte le nostre diversità.

Rabbi Arthur Green

(Relazione tenuta a Roma, nell'Assemblea Plenaria dell'Unione Internazionale delle Superiori Generali (UISG) il 10 maggio 2010).

 

Letto 1456 volte Ultima modifica il Domenica, 10 Marzo 2019 18:26
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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