Il dogma del peccato originale, almeno nella forma in cui ci è stato insegnato dal magistero e dalla tradizione, è difficilmente conciliabile con la visione evoluzionistica di Pierre Teilhard de Chardin. Basti pensare alla questione del poligenismo: se è vero che l’uomo attuale non proviene da un’unica coppia di progenitori preistorici ma da una famiglia più o meno grande di coppie, come spiegare la trasmissione di una tara ereditaria da un essere umano all’altro, da una generazione alla successiva? Sullo spinoso tema si sono confrontati i membri della sezione romana dell’Associazione Italiana Teilhard de Chardin, riunitisi questo inverno a Villa Malta (Roma), sede della rivista dei gesuiti La Civiltà Cattolica.
Le posizioni critiche di Ricoeur, Yannaras, Panikkar, Castillo
L’incontro è cominciato con l’esposizione di alcune autorevoli voci critiche nei confronti della tradizionale dottrina del peccato originale. Secondo Paul Ricoeur «il concetto di peccato originale è un falso sapere e deve essere infranto come sapere». Per il filosofo francese la teologia del male si è lasciata trascinare sul terreno della gnosi ed è diventata una “quasi-gnosi”, mentre il contenuto della dottrina del peccato originale è essenzialmente anti-gnostico, rifiuta ogni dualismo che contrappone una creazione buona e una malvagia, un prima e un dopo, uno stato prelapsario e uno postlapsario. Aggiunge Ricoeur:
Non si dirà mai abbastanza quanto male ha fatto alla cristianità l’interpretazione letterale, bisognerebbe dire “storicistica”, del mito di Adamo; essa lo ha fatto cadere nella professione di una storia assurda e in speculazioni pseudo razionali sulla trasmissione quasi biologica d’una colpevolezza quasi giuridica per l’errore di un altro uomo, respinto lontano nella notte dei tempi, non si sa bene dove, tra il pitecantropo e l’uomo di Neanderthal. Contemporaneamente il tesoro nascosto del simbolo adamitico è stato sperperato (P. Ricoeur, Il conflitto delle interpretazioni).
Critico verso l’idea di una trasmissione quasi biologica della colpa è anche il teologo e filosofo ortodosso Christos Yannaras, secondo il quale non esiste alcuna evidenza, nella storia dell’evoluzione, di un’epoca o di una condizione caratterizzata dall’assenza di morte (C. Yannaras, Contro la religione). Più o meno sulla stessa linea si muove Raimon Panikkar: «La morte è un’invariante umana. Ogni uomo muore, e non certo in conseguenza del peccato. Non c’è nessun peccato originale e nessuna vendetta di Dio contro il genere umano» (Raffaele Luise, Il profeta del dopodomani). Non diversamente la pensa il teologo gesuita José Maria Castillo, per il quale il peccato originale è un mito che simboleggia la fragilità e l’incompiutezza dell’essere umano.
Il peccato originale secondo Thomas Merton e Fëdor Dostoevskij
Dire che il peccato originale è un mito non significa affermare che non sia vero, che sia una favola priva di senso. Al contrario, il mito è sempre vero; le verità che racconta – questo significa la parola greca “mythos”: racconto, narrazione – sono eternamente vere, si trovano al di là del tempo e della storia. La riunione invernale della sezione romana TdC è così proseguita con l’analisi di alcune originali chiavi di lettura che aiutano a riflettere più a fondo sul racconto della caduta di Genesi 3 e sul dogma del peccato originale. La prima è di Thomas Merton, che identifica il peccato originale con l’egocentrismo umano, quella forza centripeta che porta gli uomini a ricondurre tutto al proprio Ego e a entrare in conflitto gli uni con gli altri, trasformando il mondo «nel quadro dell’inferno», come Merton scrive nell’incipit de La montagna dalle sette balze.
Un’altra chiave di lettura viene da Fëdor Dostoevskij, che in un suo racconto di genere fantastico intitolato Il sogno di un uomo ridicolo immagina di morire e di essere rapito da una misteriosa creatura alata. La creatura lo porta a fare un giro nell’universo tra Sirio e le altre stelle, per poi ricondurlo sulla terra. Ma è una terra diversa da quella che conosciamo: è la terra prima del peccato originale, o meglio la terra senza il peccato originale. Dostoevskij descrive gli uomini che la abitano come creature bellissime, vispe e gioiose come bambini. Questi uomini vivono in comunione con gli animali e lavorano pochissimo, senza fatica, quanto basta per procurarsi da vivere. Hanno figli, ma sono privi «di quella crudele sensualità che colpisce quasi tutti sulla nostra terra ed è l’unica sorgente di quasi tutti i peccati della nostra umanità». Questa «crudele sensualità» è la concupiscenza, quella forma di desiderio rapace e sfrenato che corrompe un po’ tutti gli ambiti della nostra vita, non soltanto la sessualità. Gli uomini descritti da Dostoevskij quasi non conoscono malattie. Muoiono anche loro, ma affrontano la morte dolcemente, come se si addormentassero, sorridendo ai loro cari che rimangono, consapevoli che in qualche modo li rivedranno.
Quanto dicono Merton e Dostoevskij può essere applicato a 1 Cor 15,56, laddove Paolo afferma che «il pungiglione della morte è il peccato». Paolo non dice che la morte è causata dal peccato, almeno non in questo versetto. Dice che il peccato è il pungiglione della morte, l’arma con cui la morte ci ferisce: se non fossimo così attaccati al nostro Ego, forse la morte non ci farebbe troppo male, la affronteremmo con la serenità degli uomini immaginati da Dostoevskij e con la certezza che la vita prosegue, va oltre.
Adamo ed Eva, immagini dell’umanità in cammino verso Dio
Quanto a Teilhard de Chardin, nella sua “Nota su alcune rappresentazioni storiche del peccato originale” del 15 aprile 1922 egli scrive: «Più noi conosciamo il passato, meno posto troviamo per Adamo e il paradiso terrestre… Adamo ed Eva sono le immagini dell’umanità in cammino verso Dio». Affermazioni come questa hanno spinto i detrattori di Teilhard ad accusarlo di aver cancellato il peccato originale dal cristianesimo, minando così alle basi l’intera storia della salvezza. Ma accuse del genere sono più che altro dovute a malintesi e a una scarsa conoscenza del pensiero e dell’opera del gesuita francese. In realtà Teilhard de Chardin – che in qualità di paleoantropologo, vale sempre la pena ricordarlo, fu tra gli scopritori di un importante anello della catena evolutiva, il “sinanthropus pekinensis” – nega sì l’esistenza storica di Adamo ed Eva. Ma non nega affatto la presenza di un peccato di origine, che anzi estende, se così si può dire, all’intera creazione, non ancora pienamente divinizzata, pervasa dal plèroma. Nella visione di Teilhard la creazione non è un qualcosa che nasce perfetta dalle mani di Dio, e che poi l’uomo guasta con la sua disobbedienza, ma un’opera non ancora compiuta, in costruzione, il che avvicina il pensiero del gesuita di Orcines a quello di alcuni Padri della Chiesa, soprattutto orientali. Anche Giovanni Paolo II, in un discorso del 26 aprile 1985 e poi ancora nell’udienza generale del 7 maggio 1986, parlò di «creatio continua» («conservatio est continua creatio»). Questo è il punto: «creatio continua» significa che non siamo ancora pienamente creati ma siamo creature, participio futuro di derivazione latina che indica il nostro essere in divenire. Il racconto della caduta esprime allora la nostra fragilità, la nostra contingenza, il nostro costante bisogno di relazione con Dio, la nostra proclività all’errore e al cedimento; si tratterebbe insomma, per dirla con Rahner, di un’“eziologia metastorica” che descrive una condizione nella quale l’uomo si trova da sempre. In questo senso occorre compiere un’operazione opposta alla demitizzazione di Rudolf Bultmann e recuperare il mito, ciò che nel racconto della caduta c’è di vero per gli uomini di ogni epoca.
Nella condizione creaturale ha ampio spazio la nostra difficoltà di discernimento, che ci porta a scegliere il male come bene apparente. Anche perché il mondo in cui viviamo è straordinariamente complesso (e per giunta in via di complessificazione, insegna Teilhard); l’esistenza è difficile, faticosa, ambigua. Si riflette sempre troppo poco sul fatto che persino il Figlio di Dio, quando fa il suo ingresso nella realtà immanente, viene tentato. Lui, poi, sa resistere alla prova, sa distinguere chiaramente il bene dal male. Noi no. Dobbiamo imparare a farlo.
Marco Galloni
(pubblicato in Adista, LIII, n. 13, 6 aprile 2019, pp. 12-13)