Vita nello Spirito

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Ascolto e comunicazione
tra le generazioni
di Giovanni Dalpiaz


 




Il monachesimo italiano sta attraversando un passaggio molto difficile: le nuove vocazioni, presenti anche se in numero piuttosto basso, sono insufficienti ad assicurare il ricambio generazionale e ciò, tra le altre conseguenze, indebolirà ancor più la già esigua presenza territoriale. La crisi è in parte occultata dal prolungamento dell’età di vita. Di conseguenza i nostri monasteri hanno sì ancora monaci, ma sempre più anziani.

La distanza generazionale concorre ad accrescere le differenze nei codici comunicativi, come è frequente osservare in quella fase molto particolare della vita comunitaria che è l'accoglienza e l'inserimento di una nuova persona. È in tale passaggio che tutti gli «attori» della relazione sono costretti ad esplicitare i rispettivi «codici», le motivazioni, le aspettative sottese alla comunicazione, sperimentando le possibilità di un dialogo o constatando un'afasia reIazionale, quando ci si parla senza però comprendersi, poiché i linguaggi sono ormai irrimediabilmente distanti. Ne è tipico esempio la domanda che penso ciascuno di noi si sia sentito rivolgere neI visitare i monasteri femminili: «Ci sarebbe qualche brava giovane da indirizzare qui? Verso quali ambienti, gruppi, movimenti, ecc... ci si potrebbe orientare per riuscire ad incontrare giovani interessate alla nostra proposta di vita?». Ma la brava giovane che ha in testa la nostra interlocutrice non corrisponde, se non molto vagamente, alla brava giovane che ci può essere in giro oggi, perché lei ha in mente la «brava giovane» di cinquant'anni fa, e le due immagini non sono sovrapponibili, anche se per designarle usiamo gli stessi termini.

Chi sono, cosa domandano i giovani e, più in generale, coloro che si avvicinano alla vita religiosa? È iniziando a cercare risposte a questi interrogativi che si dipana una maggior comprensione di quel nodo di reciproche aspettative, motivazioni, atteggiamenti, al fine di verificare se quello che loro cercano/domandano è quanto noi possiamo/sappiamo proporre. Perché se venti o trent'anni non sono un lungo periodo, quando li si misuri sulla scala del cambiamento generazionale segnano invece un distanziamento molto più ampio e marcato in termini di mutamento negli stili di vita, negli orientamenti di valore, nei modelli culturali.

Le ricerche condotte sui giovani religiosi ci documentano come rispetto a 20-30 anni fa l'atteggiamento di coloro che chiedono di entrare in una comunità religiosa sia molto più caratterizzato da elementi di «realizzazione», intendendo realizzazione di sé, ma anche realizzazione in termini di chiamata del Signore per me, realizzazione di un'intuizione spirituale e così via. Sono invece molto meno presenti le tematiche del distacco, spogliamento, abbandono. Potremo dire, schematizzando il nostro discorso, che si entra nella vita religiosa non per rinunciare a qualche cosa, ma per trovare qualche cosa; e già qui si rileva un primo profondo divario nei codici culturali.

L'orientamento all' autorealizzazione, così tipico dell' odierna cultura giovanile, viene per tal via ad affacciarsi all'interno delle comunità religiose. Esso si inserisce, o forse più precisamente s'insinua, come elemento di non facile integrazione, perché, nel codice valoriale sotteso alle Costituzioni, ai modi di pensare, alle esortazioni, ai modelli di santità tipici del lessico della vita monastica così come è intesa nei nostri ambienti, l'autorealizzazione non compare come valore da promuovere e tutelare. Anzi, già il richiamo al sé, alla valorizzazione delle doti personali viene percepito come rischio, elemento potenzialmente fuorviante da una corretta vita religiosa, la quale si caratterizza come estroversa, orientata all'altro, alla comunità, alla chiesa, e così via.

Un atteggiamento dell'animo più che un comportamento di facile individuazione. Vi è chi lo esprime attraverso forti istanze di spiritualità, in un quadro di grande idealità e profonda radicalità, o chi cerca nella comunità uno spazio per dare ordine e senso alle molteplici e talora dispersive esperienze vissute. In ogni caso, sia che si cerchi un luogo dove condurre una propria ricerca spirituale oppure un ambiente che dia risposta ad un proprio bisogno di senso e pace, quello che viene in evidenza è la centralità della ricerca di realizzazione personale. Ciò significa che il punto di vista del soggetto è quello determinante, per cui i vari passaggi ed impegni, incluse le rinunce e i cambiamenti implicati dal passaggio alla vita religiosa, tendono ad essere interpretati e vissuti da questa angolatura. Ovviamente questo non vale solo per la vita religiosa: troviamo la stessa cosa nella famiglia, nelle scelte professionali, e così via. Ne vengono alcune conseguenze, alle quali brevemente accenno.

In primo luogo, una scelta non è «per sempre», o meglio il per sempre è un auspicio implicito, ma non una certezza fondante il principio. Quindi noi corriamo il rischio di dire: «È per sempre che tu vieni?» e tutti rispondono: «Sì!»; solamente che per noi questo diventa un dato di fatto da cui si parte per realizzare la formazione spirituale e l'inserimento in comunità, mentre per interlocutore diventa un auspicio, come dire: «Spero che sia per sempre, ma, se poi lo sarà veramente, te lo dirò tra qualche anno». Sarà il permanere, o il venir meno, delle condizioni iniziali, come insieme di aspettative e motivazioni in base alle quali la persona si orienta alla vita monastica, che realizzerà la continuità dell'impegno, o l'interruzione dell'esperienza. Il fatto di porre all'inizio del processo di inserimento in comunità un insieme di attese legate ad una certa idea di realizzazione personale rende più difficile attuare in modo pieno (senza se e senza ma!) quell'affidamento, psicologico e spirituale, che è condizione indispensabile per giungere ad un'appartenenza stabile ed irreversibile.

Se si pongono condizioni, sulla cui realizzazione la persona si riserva una propria autonoma ed insindacabile valutazione, è facile che si attui un'appartenenza a due livelli: formalmente totale, ma di fatto circoscritta e vissuta con una sempre disponibile opzione di revoca degli impegni assunti. S'inserisce pertanto nella relazione comunitaria un elemento di instabilità, che può restare latente - o emergere improvvisamente anche dopo la professione solenne o l'ordinazione presbiterale - quando le esigenze della vita comunitaria non siano più eludibili. Ad una più immediata e netta percezione della distanza tra istanze soggettive ed impegni delle relazioni comunitarie, in molti casi fa da schermo il fatto che le richieste abbiano contenuti in sé positivi o evangelicamente ispirati, solo che possono muoversi verso progetti di impegno e testimonianza sui quali la comunità non sa o non intende impegnarsi. Non basta che una scelta o un orientamento sia buono in se stesso perché la sua realizzazione sia possibile o più semplicemente opportuna.

Secondo aspetto: l'appartenenza ad una istituzione religiosa non segna più una rottura radicale, una discontinuità rispetto alle esperienze precedenti. Più che una morte/rinascita, è uno sviluppo, una evoluzione di potenzialità. C'è quindi una «riserva» del soggetto che solo raramente emerge in tutta la sua limpidezza. Comprendiamo allora come rispetto al passato vi sia una minore disponibilità a lasciarsi plasmare e uniformare dall'istituzione, mettendo tra parentesi (o rimuovendo) quelle inclinazioni, spinte emotive, desideri che, pur importanti nell'identità della persona, risultino disarmonici rispetto ai valori, ai comportamenti, agli stili di vita presenti in comunità. Questo vuoI dire che, se è posto di fronte alla scelta tra la fedeltà a quella parte della propria identità percepita come positiva (essere autentico) e la necessità di uniformarsi alle esigenze di un'appartenenza istituzionale, l'opzione è per l'autenticità e quindi la rottura della comunicazione con l'istituzione: «Quando non intendo trasformarmi ti lascio parlare, tanto, comunque, io continuo a coltivare le mie idee». C'è in un simile atteggiamento il rischio molto concreto di una deriva narcisistica, anche se nello stesso tempo è doveroso riconoscervi l'istanza per un più sincero rispetto della persona.

Nella domanda di autenticità, che abbiamo rilevato come una richiesta di non andare contro l'identità profonda di sé, si esprime la consapevolezza che esiste in ciascuno di noi un nucleo originario ricevuto, che debbo scoprire, accogliere e portare a compimento, e non posso (ed oggi sempre più spesso non intendo) rimuovere, cancellare, per sostituire con un'identità «istituzionalmente» corretta. Allora qui, mi pare, c'è un punto molto importante nel dialogo tra nuove generazioni e istituzioni: perché le nostre strutture religiose, penso anche i monasteri, sono istituzioni tendenzialmente rigide a motivo dell'età, del peso attribuito alla tradizione nel definire i comportamenti e gli stili di vita, degli stessi ambienti architettonici così carichi di storia, ma anche ormai così sproporzionati alle esigenze relazionali di comunità piccole, con poche risorse umane. Per questo tipo di istituzioni la spinta all'autenticità è vissuta come una minaccia ed è quindi fonte di tensione e fraintendimenti, primo fra tutti il fatto che accettare l'autenticità sia un lasciare andare verso la spontaneità delle pulsioni e delle emozioni.

Ma autenticità è ricerca, spesso faticosa e sofferta, di un confronto con le proprie potenzialità e i propri limiti, impegno ad una riflessione seria su di sé, ad un serrato confronto con le vischiosità e le debolezze della realtà. E questo è un tratto estremamente importante nelle nuove generazioni. Una comunità che non teme il dialogo dovrebbe, oppure più semplicemente potrebbe, accogliere la sfida che si esprime nel desiderio di autenticità, integrando lo nel vissuto delle proprie relazioni interne, nella ricerca spirituale, portandolo cioè all'apertura verso l'alterità per non rischiare l'implosione o il ripiegamento narcisistico su se stessa.

Un ulteriore aspetto che la cultura giovanile evidenzia, capace di interferire profondamente nella relazione con la comunità religiosa, è l'importanza attribuita alla dimensione comunicativa, cioè il parlarsi è valore fondante la relazione, indipendentemente dai contenuti che si trasmettono. Se voi guardate i giovani quando si ritrovano insieme, li vedete intenti a parlarsi; se poi vi avvicinate ad ascoltarli, vi accorgerete che i contenuti dei loro discorsi sono piuttosto banali, inconsistenti, perché non è importante quel che dici, ma che ci sia qualcuno con cui tu puoi parlare. Ciò significa che in una comunità religiosa si cercano persone con le quali stabilire un dialogo intrattenere rapporti positivi in un clima confortevole, accogliente, sgombro da conflitti e tensioni. Tutto ciò avviene in un contesto sociale nel quale aumenta tra le generazioni, anche tra quelle contigue, la diversità culturale e quindi la distanza.

L'incontro pertanto con le nuove vocazioni si muove tra due tensioni di segno opposto: da un lato, c'è la domanda di comunicazione assunta come valore in se stesso positivo, al di là dei con tenuti trasmessi, perché si esiste nella misura in cui si scambiano messaggi; dall' altro, cresce il distacco tra le generazioni e quindi diminuiscono gli spazi per il dialogo. Si aggiunga poi la diffusa esperienza del cambiamento sociale e culturale che porta a relativizzare codici comportamentali e contenuti normativi. Difficile (anche se non impossibile) che in un simile contesto la comunicazione diventi relazione e si vada oltre un generico rumore di fondo, un parlare stereotipato. Ne è riprova il fatto che, quando ci si avventura su temi che la persona non intende affrontare perché ritenuti troppo impegnativi o capaci di mettere in discussione sicurezze intellettuali o spirituali alle quali non s'intende rinunciare, allora la debolezza della comunicazione si palesa in tutta la sua realtà: il messaggio viene, per così dire, «rimosso», allontanato da sé con un leggero, quasi confidenziale, gesto di fastidio.

Nello specifico degli Istituti religiosi la comunicazione con il mondo giovanile si muove in un contesto reso difficile dalla scarsità delle vocazioni. Ciò non solo accresce la distanza tra le generazioni, come si è già ricordato, ma concorre a rendere «prezioso» il giovane che si affacci al monastero, specie se intenzionato a restarvi. Ad esso si applicano i criteri che in famiglia si accompagnano alla cura del figlio unico, al quale tutto è permesso purché non lasci soli i genitori e non li abbandoni, specie se anziani. Allora la comunicazione, da dialogo che coinvolge e può mettere in discussione ambedue le parti, diviene prassi contrattuale, con definizione degli ambiti del «privato» e del «comunitario». I mondi rimangono intimamente distanti e la comunicazione non diviene una relazione che modifica nel profondo, un impegno a tessere rapporti interpersonali, comunitari, ma definizione funzionale di regole del gioco in funzione del perseguimento di alcune attività condivise.

L'orizzonte che in tal modo si delinea è, quando riesce bene, quello di un gruppo efficiente, secondo le regole dell'agire sociale, ma con un debole senso di appartenenza comunitaria. La comunità monastica ambisce ad essere realtà che plasma l'identità psicologica e spirituale della persona. Le relazioni che vi si instaurano non sono solo osservanza di norme che delineano un «pubblico» ed un «privato», un permesso ed un vietato, ma vorrebbero essere testimonianza di uno stile di vita e di un linguaggio espressivo che riconosce affinità spirituali, si apre alla condivisione, crea koinonia. Sta qui il fascino con il quale si guarda alle nostre comunità: la nostalgia (o la profezia?) di relazioni interpersonali che non siano unicamente strumentali, ma attestino compassione, accoglienza, gratuità, in quanto scaturiscono da una quotidiana frequentazione dell'evangelo. Solo nel riconoscimento di una incondizionata fedeltà alla Parola di Dio, alla quale ognuno accetta di sottomettersi, la comunità monastica trova il codice comunicativo più adeguato per costruire rapporti interpersonali non effimeri. Diversi per età, carattere, sensibilità culturale, i monaci eviteranno una unità solo funzionale, costruita attorno ad un patteggiamento definitorio di quanto attiene al soggetto e di quanto invece spetta al comunitario, solo se sapranno riconoscere nella fede in Gesù l'elemento che radicalmente li unisce, permettendo loro di scambiarsi simboli e parole apportatrici di senso.


La pagina delle beatitudini evangeliche introduce la vita pubblica di Gesù con un messaggio che ne contiene l'annuncio fondamentale e può essere paragonata al nartece o al portale di una grande cattedrale.

La passione di Cristo,
storia, testimonianza e verità
di Marcelo Barros

Essere cristiani è seguire Gesù come discepoli nelle opzioni fondamentali della vita e ricevere dal Padre lo Spirito Santo, energia di amore divino che ci rende capaci di amare come Gesù e che ci "divinizza". Gli antichi pastori delle Chiese definivano questa fede come "cammino", itinerario spirituale, che può essere espresso in diverse forme. Ogni Chiesa o comunità privilegia di più l'uno o l'altro aspetto. Dire che il sole nasce alle 6 e tramonta alle 18 è tanto vero quanto parlare di movimento della terra intorno a se stessa mentre gira intorno al sole. Nessun linguaggio è assoluto. Non si deve assolutizzare un modo di parlare. Sarebbe confondere un'espressione della verità con la Verità che è al di là di tutte le nostre povere formulazioni. Nessuno possiede la verità totale. Ognuno può sempre apprendere qualcosa dall'altro, come altrettanto può insegnare all'altro.

Se è così, mi perdonino coloro che interpretano i testi biblici alla lettera, ma non credo che sia il sangue di Cristo che salva l'umanità. Non posso credere che Dio avesse bisogno che Gesù soffrisse a quel modo e morisse come un condannato per salvare il mondo. Quello che salva il mondo è l'amore. L'unica passione capace di salvare l'umanità è l'appassionarsi, che, secondo il Vangelo di Giovanni, è la chiave di lettura più appropriata per capire tutto quello che è successo a Gesù: "Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine" (Gv 13,1). Questo amore radicale, che giunse fino a dove l'amore più estremo può giungere, prese la forma del dono di sé. Non perché non desse importanza alla vita, o godesse del soffrire. E meno ancora perché credeva che Dio è sadico o crudele e si dilettasse nel vedere il Figlio soffrire e morire, come prezzo per placare la sua ira nei confronti dell'umanità peccatrice.

È dagli inizi della Chiesa che la croce di Gesù provoca polemica. Ferisce l'immagine convenzionale di Dio e contesta qualsiasi religione che illuda le persone promettendo miracoli e buoni risultati economici. La croce di Gesù denuncia che Dio sembra non proteggere i suoi. Già al suo tempo Paolo scriveva: "Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani" (1Cor 1,23).

In questi giorni, la passione di Gesù è motivo di dibattito a causa del modo in cui è narrata nel film di Mel Gibson. Rispetto quanti l'hanno apprezzato, ma io continuo a preferire il vecchio "Vangelo secondo Matteo" di Pasolini. Mel Gibson, interpretando i Vangeli alla lettera, privilegiando alcuni passaggi e dimenticandone altri, attribuisce la condanna di Gesù agli ebrei e immagina il diavolo come un essere androgino. Facendo questo, depone contro lo stesso Dio, accusato di usare la sofferenza del giusto per salvare il mondo. Così dà ragione agli intellettuali che accusano la religione di essere causa di intolleranza e violenza nella storia e nel mondo attuale.

Amo molto i Vangeli, ma so che furono scritti almeno 50 anni dopo i fatti narrati. Non hanno mai avuto la pretesa di essere biografici. Furono redatti da gruppi diversi e in contesti culturali distinti. Ogni evangelista racconta la passione a partire da prismi tanto differenti l'uno dall'altro che non possono essere armonizzati artificiosamente. Matteo narra la passione come sofferenza di un profeta. Marco mostra Gesù preso dalla solitudine e dal dolore per essere stato abbandonato da tutti. Al contrario, Luca mostra Gesù, nella sua passione, accompagnato da discepoli e donne. Racconta che le donne piangevano e egli le consolava. Un ladrone chiede perdono nell'ora della morte e, sulla croce, Gesù prega: "Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno". Secondo Marco, Gesù fu crocifisso alle nove della mattina. Per Matteo e Luca, successe a mezzogiorno. Matteo e Marco dicono che l'ultima parola di Gesù fu: "Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?". Luca dice che Gesù pregò: "Padre, alle tue mani affido il mio spirito". Senza dire che Giovanni segue una logica totalmente differente.

Come alcuni predicatori nei loro sermoni, il film di Gibson mescola i racconti evangelici senza nessuna preoccupazione storica o esegetica. Per questo, finisce coll'insistere su elementi che qualunque fondamentalista pensa di cogliere nei Vangeli: accusa agli ebrei, la giustificazione della violenza come necessaria a realizzare il progetto di Dio e a valorizzare la colpa come strumento della conversione dell'umanità.

Negli anni '80 del I secolo, i gruppi cristiani facevano parte della sinagoga e i capi degli ebrei li consideravano eretici e nemici. Sembra che, nelle comunità giudaiche dell'epoca, ci fossero preghiere che maledicevano i seguaci di Gesù. Molti cristiani di fede giudaica entravano in crisi, alcuni perfino lasciavano il gruppo cristiano. In questo contesto, i Vangeli entrano in polemica e dicono che quelli che perseguitano i cristiani sono gli stessi che perseguitarono Gesù. Raccontano la passione di Gesù in modo che sia diminuita la responsabilità dei romani nella condanna di Cristo e accentuano una presunta colpa dei cari religiosi di Gerusalemme. Il quarto Vangelo chiama "giudei" solo i dirigenti del tempio, alleati strategici dei governanti romani nello sfruttamento del popolo. A questo, al popolo, il Vangelo dà il nome di "israelita". Natanael è un vero israelita nel quale non c'è falsità. Chiama Gesù il "re di Israele", Maria e i discepoli sono israeliti (cfr. Gv 1,47-49). Mi sembra disonesto citare questo Vangelo e parlare dei giudei come di coloro che hanno insistito per condannare Gesù senza fare questa distinzione, soprattutto in un contesto politico internazionale nel quale, al contrario di come era anticamente, lo Stato che perseguita i palestinesi si chiama "Israele", mentre il popolo civile e i gruppi religiosi si chiamano ebrei.

In realtà, la passione di Gesù fu un assassinio, perpetrato dal potere politico romano con la complicità dei vertici del potere religioso ebraico dell'epoca. Non conosciamo i dettagli. Tutto quello che i Vangeli raccontano della passione certamente si basa sui fatti, ma ha più che altro valore simbolico e di parabola. Non è una cronaca o un réportage giornalistico.

Chi è cristiano crede che Dio ci salva attraverso Gesù. Questa salvezza non è il liberarci dall'inferno, parabola superata di un castigo contrario alla misericordia divina. Gesù ci salva con la pienezza della vita e della felicità. Gesù ci salva rivelandoci Dio, insegnandoci a metterci in relazione intima con Dio. Ci salva perché possiamo scoprire un modo di vivere più umano e felice, basato sull'amore-solidarietà, sulla giustizia, sulla pace e sulla comunione con l'universo.

(da Adista, n°34 8.5.2004)


Lo scandalo di una parola
di Vladimir Zelinskij


 



Fra tanti rumori che accompagnavano la fine del 2004 in Europa, una voce si è fatta particolarmente viva, quella che scandalizzava per il “peccato”. Sembra che qualcuno abbia tirato uno straccio rosso dallo scrigno della nonna per risvegliare un toro arrabbiato che dorme nel nostro continente, per ora assai pacifico. “Macché peccato! – mi ricordo il quasi un urlo di un noto conduttore televisivo, - si, sono laico (in lingua corrente: ateo), sono omossessuale, ma questo non è peccato, non è peccato!” Ma perché ti preoccupa così una parola? - viene spontanea la domanda, - da laico sei già vaccinato contro la malattia, di cui soffrono solo gli abitanti del pianeta dei credenti.

Davvero, si tratta di una certa logofobia: ciò che non esiste, ciò che è negato, ciò che fa ridere, appena prende “carne” (il suono, il senso) del concetto, provoca protesta pubblica. Ma perché non protestiamo noi nel nome del pluralismo del linguaggio? Il nostro discorso non è destinato, infatti, solo ad uso interno? Il nostro vocabolario non è accessibile esclusivamente agli adetti ai lavori religiosi? Nessuno vuol sostituire “il peccato” con “il reato”, ma davvero non possiamo chiamare le cose con i nomi che gli scegliamo? Sì, la nostra protesta sarebbe giusta, se a questa libertà di parola non avessimo rinunciato noi stessi.

Mi permetto di dire la mia verità, una confessione quasi. Vivo in un paese che poco fa poteva essere chiamato cattolico; amo la Chiesa Cattolica molto di più che una Chiesa-sorella. Sono legato a lei piuttosto come ad una madre che mi ha abbandonato. E con l’amore un po' ferito posso dire che questa Chiesa ha rinunciato con leggerezza alla sua coerenza ed onestà. L’onestà comincia con un buon uso del proprio lessico, non di quello preso altrove. Si può parlare anche in generale del fatto che il cristianesimo in Occidente ha voluto essere troppo inoffensivo, ben accolto da tutti. Leggo libri sulla spiritualità, ascolto ogni tanto le prediche nelle parrocchie, nei programmi religiosi in TV. Sono professionali, sono buoni. Direi, troppo buoni.

La realtà celeste o virtuale domina un po’ su quella quotidiana. Sì, la sessualità umana non può (o non dovrebbe) essere nient’altro che l’espressione dell’amore puro, unico, vero, eterno, perché il matrimonio è indissolubile. Quando le cose vanno molto diversamente, tutti dicono: qualcuno ha sbagliato. “Ha peccato” – non si pronuncia più, almeno in pubblico. Non solo politicamente, ma anche pastoralmente non è corretto. Tuttavia, chi può nutrirsi solo di dolcezze? Forse, per paura di far paura stiamo per buttare via il nostro sale. Ma se non abbiamo il corraggio di dire cose dure, a volte amare, davanti ai fedeli, come osare pronunciarle nel Parlamento Europeo?

Lasciamo stare il “peccato”, forse, questa parola è un po' compromessa. Ha qualche precedenza penale dell’abuso nel passato. Torniamo al linguaggio della Bibbia, a tutti chiarissimo: “Io ti ho posto davanti, - dice il Signore, - la vita e la morte, la benedizione  la maledizione; scegli dunque la vita...” (Deut 30, 19) Ma la morte, la maledizione, forse, sono parole ancora più fondamentaliste? Bene, parleremo dunque di quel nemico che impedisce a Cristo di venire ad abitare nei nostri cuori (cf. Ef 3,17). Oppure di quel muro che fa ostacolo all’amore di Dio, al Suo Spirito. Non so come un laico avrebbe reagito a questa definizione di peccato, anche nell’applicazione concreta a tante avventure e sventure sessuali (quelle omo, ma anche etero), ma sono quasi sicuro che, in fin dei conti, ci si capirebbe meglio.

Sono proprio l’ultimo a potersi vantare della sua Ortodossia. Il dialogo con il mondo contemporaneo è una vocazione che essa deve ancora scoprire. Per ora la Chiesa d’Oriente ha salvaguardato il suo vecchio linguaggio, spesso poco corretto, quello dei santi. Certo, non si può sentirla nei grandi areopaghi del mondo e chissà se è capace di parlare bene nella buona società. Ma nella sua camera, nel suo intimo, ogni ortodosso (almeno colui che prega), appena svegliato, dopo l’invocazione della SS. Trinità dice la supplica del pubblicano: “Signore, abbi pietà di me peccatore!”. Certo, sei parole non costano tanto. Ma alcuni le pronunciano mille volte, le vivono nell’abisso del loro cuore. Perché coloro che hanno provato la pienezza della grazia conoscono anche il tragico nudo dell’anima umana. Un altro santo antico che implorava il perdono di Dio tutta la sua vita disse sulla soglia della morte. “Credetemi, fratelli, non ho ancora cominciato la mia penitenza”. E' forse la confessione di un pazzo? Ma anche “peccato” è una parola che appartiene ad una lingua un po’ pazza, quella dell’animale umano che Dio ha scelto come Suo fratello e per il quale morì nello scandalo della croce.



Maestri da non imitare
Mc 7,1-23
di Karin Heller





«Allora si riunirono attorno a lui i farisei e alcuni degli scribi venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con le mani immonde, cioè non lavate - i fari sei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavate le mani fino al gomito, attenendosi alla tradizione degli antichi, e tornando dal mercato non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, stoviglie e oggetti di rame - quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani immonde?». Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto:
Questo popolo mi onora con le labbra,
ma il suo cuore è lontano da me.
Invano essi mi rendono culto,
insegnando dottrine che sono precetti di uomini.
Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». E aggiungeva: «Siete veramente abili nell'eludere il comandamento di Dio, per osservare la vostra tradizione. Mosè infatti disse: Onora tuo padre e tua madre, e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte.  Voi invece dicendo: Se uno  dichiara al padre o alla madre: È Korban, cioè offerta sacra, quello che ti sarebbe dovuto da me, non gli permettete più di fare nulla per il padre e la madre,  annullando così la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. E di cose simili ne fate molte».

Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e intendete bene: non c'è nulla fuori dell'uomo che entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall'uomo a contaminarlo».

Quando entrò in una casa lontano dalla folla, i discepoli lo interrogarono sul significato di quella parabola. E disse loro: «Siete anche voi così privi di intelletto? Non capite che tutto ciò che entra nell'uomo dal di fuori non può contaminarlo, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va a finire nella fogna?». Dichiarava così mondi tutti gli alimenti. Quindi soggiunse: «Ciò che esce dall'uomo, questo sì contamina l'uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l'uomo». (Marco 7,1-23)


Per colui che non vive in un ambiente ebraico o che gli è estraneo, l'incontro di Gesù con i farisei conservato da Marco (cf anche Mt 15,1-9 e Lc 11,38) sembra emergere da un'altra epoca. Tutte queste controversie non sono superate? Perché riportare simili discussioni, quando la maggioranza dei cristiani è uscita dalle nazioni pagane alle quali non è stato imposto il giogo che ne i padri, ne coloro che sono nati ebrei sono stati in grado di portare (At 15,10)?

Ma per colui che crede, la Scrittura non è un cimelio del passato, un monumento ai morti davanti al quale ci si inchina periodicamente con rispetto: è una parola viva, la parola nella quale Dio vuole comunicarsi a noi lungo i secoli. Ciò significa che certi eventi, e più particolarmente i diversi incontri che si trovano a dovizia nella Bibbia, sono inseparabili dalla rivelazione cristiana. Questa rivelazione svanirebbe, se questi incontri non esistessero. Quindi, nell'evento dell'incontro di Gesù con i farisei accaduto duemila anni fa, c'è una rivelazione, una verità di Dio per l'uomo, per gli uomini di ogni epoca. Anche per noi, uomini alle soglie del duemila. Qual è questa verità?

La rivelazione di un male profondo

All'epoca di Gesù, i farisei erano maestri di tutti quelli che avevano scoperto nella Legge del Signore una lampada per i loro passi, una dolcezza più grande di quella del miele, un tesoro più desiderabile di quello dell'oro fino (Sal 118,105 e 19,11). San Paolo stesso era stato formato alla loro scuola, quella di Gamaliele, nelle più rigide norme della legge (At 22,3). Allora, dove sarebbe il «male» a voler vivere in tutto conformemente alla Legge del Signore in cui l'uomo si compiace meditandola giorno e notte (Sal 1,2)?

Nel passato di Marco che studiamo, la discussione tra Gesù e i fari sei scoppia a causa dei discepoli che prendono il cibo con «mani immonde», cioè non lavate fino al gomito secondo la tradizione degli antichi (Mc 7,1-3). A prima vista, il dibattito potrebbe sembrare una discussione tra genitori preoccupati di inculcare ai loro figli un «saper vivere» secondo lo stile degli antenati e i figli che non se ne curano o non ne vedono la necessità.

Invece l'incidente rivela un disagio più profondo di quello di un conflitto tra generazioni. Rivela, in effetti, che I 'unità del doppio comandamento dell' amore di Dio e del prossimo è
frantumata. E, cosa forse ancora più grave, i trasgressori coltivano l'illusione di essere a posto in coscienza.

Gesù denuncia l'incongruenza di tale comportamento con due citazioni bibliche. Comincia
citando Isaia: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini» (Mc 7 ,6- 7). Questa citazione mette in rilievo un divario tra il culto a Dio, cioè il comandamento dell'amore di Dio, e l'insegnamento che si allontana dalla Parola di Dio, fino a sostituirla con la tradizione degli uomini. Così il popolo pratica un culto che ha tutte le apparenze di un «vero» servizio di Dio, mentre invece la sua vita quotidiana non è più regolata secondo i precetti del Signore, bensì secondo le convenienze di ciascuno. Il culto serve a tacitare la coscienza e il comandamento dell'amore di Dio è usato per dissimulare il disprezzo verso il prossimo. Poi Gesù cita Mosè, che insegna con l'autorità di Dio: «Onora tuo padre e tua madre, e chi maledice il padre o la madre sia messo a morte» (Mc 7,10). A questo punto, Gesù mette in rilievo l'ambiguità circa il comandamento dell'amore del prossimo che, nel caso presente, interessa il padre e la madre. I genitori sono esposti ad un'esistenza miserabile, se non alla morte, perché i figli hanno preso il pretesto di dichiarare «offerta sacra» (korbàn in aramaico) i beni destinati al sostentamento di padre e madre (Mc 7,11-13). Era una subdola scappatoia per evitare l'aiuto agli altri, con il pretesto di una causa religiosa. Quando l'uomo mette davanti «l'amore di Dio» senza curarsi del prossimo, produce una mostruosità. L'assurdità di questo gesto diventa ancora più evidente sapendo che i templi dell'epoca, e quindi anche il Tempio di Gerusalemme, avevano, oltre alla loro specifica funzione religiosa, anche quella di essere un centro finanziario; erano l'equivalente delle nostre banche. Quindi, in questo senso «l'offerta sacra» non era un obolo per realizzare una buona opera, ma costituiva ciò che chiameremmo oggi un investimento finanziario.

Una rivelazione dell'identità di Gesù

Dopo questa dimostrazione, Gesù ritorna al problema iniziale, quello che aveva causato la sua viva reazione: perché i suoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi e prendono il cibo con «mani immonde»? L'insegnamento di Gesù è comprensibile soltanto in considerazione di ciò che Dio ha creato e voluto all'origine, quando ha messo l'uomo e la donna all'interno di una creazione integralmente buona (Gn 1). Infatti, all'origine non ci sono elementi puri o impuri. Non c' è nulla che potrebbe insozzare l'uomo dal di fuori. L'esterno, cioè la creazione; e l'interno dell'uomo sono omogenei. Non c'è possibilità di conflitto tra loro quando l'uomo rimane unito a Dio mediante il comandamento divino, che insegna come comportarsi nel sistema complesso della creazione. Quando l'unità è spezzata dal peccato, il cuore dell'uomo è diviso, il suo interno non corrisponde più all'esterno: ciò si manifesta attraverso i perversi disegni prodotti dal cuore dell'uomo.

Quanto a Gesù, Lui è venuto nel mondo per riprendere il progetto originario che Dio creato
Ire aveva preparato per il primo Adamo. Ristabilisce in se stesso il rapporto frantumato tra interno ed esterno, tra il cuore dell'uomo e la creazione, affrontando il caos del deserto, vivendo con le fiere, sostenendo la tentazione di Satana (Mc 1,12-13). In se stesso, figlio dell'Uomo e Verbo eterno, realizza l'unione perfetta con il Padre. È da questa unità che vede il mondo; è ancora da questa prospettiva che giudica il comportamento dei fari sei e lo ritiene inaccettabile.

La verità dell'incontro

Come già notato, l'incontro tra Gesù e i farisei si colloca nella logica di una rivelazione. Questa rivelazione non «cade dal cielo» come un aerolito estraneo al nostro universo, ma si realizza attraverso parole ed azioni molto precise, quelle di Gesù e dei farisei. Parole ed azioni di entrambi sono l'espressione esteriore non dissociabile dal loro stato interiore.

Nel caso dei farisei c'è omogeneità tra il cuore e le azioni, entrambi ugualmente corrotti. E tale corruzione rende la guarigione difficile, se non impossibile. Sarà infatti molto improbabile trovare un punto di accordo con loro che si considerano giusti. Gesù ha dichiarato di essere venuto per i peccatori, non per i giusti (Mc 2,17). Potrà verificarsi un incontro fruttuoso tra Gesù e i farisei ? Come potranno cambiare, educandosi alla logica del donare senza la pretesa del contraccambio? Nel presente caso, siamo di fronte a una parte che non vuole comunicare con Gesù.

In effetti, incontrare Gesù significa incontrare il Verbo eterno di Dio venuto nella carne; solo Lui può favorire il cambiamento e solo in Lui è data agli uomini la vita che esiste dall'eternità tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Quindi, incontrare Gesù significa per l'uomo la possibilità inaudita di accedere alla guarigione del cuore grazie al dono dello Spirito, di ritrovare l'unità originale tra interno ed esterno voluta dal Padre, di entrare nella vita beata della risurrezione. Viceversa, fallire quest'incontro significa fallire la VITA come Dio la promette, la dà e la realizza dall' eternità nel Figlio suo Gesù.

I discepoli uniti per grazia di Gesù

Quanto ai discepoli di Gesù, devono ricevere una doppia rivelazione dall'incontro del loro Maestro con i farisei. Dapprima: possono prendere il cibo senza essersi lavate le mani, perché il loro Maestro lo autorizza. Infatti, in ragione della presenza di Gesù, anche loro sono già mondi per la Parola che egli ha annunciato, secondo l'espressione di san Giovanni (Gv 15,3). Dovranno però essere attenti e ricordare che anch'essi corrono sempre il rischio di diventare farisei, annullando il comandamento dell'amore di Dio e del prossimo e sostituendolo con precetti e tradizioni umane.

Se l' incontro tra Gesù e i fari sei prende molto spazio nei Vangeli, è giustamente perché anche noi siamo permanentemente esposti a diventare «vecchi» fari sei forti delle nostre tradizioni di 2000, 200, 50 o 3 anni. Come era già il caso al tempo di Gesù, siamo anche noi esposti ogni giorno al pericolo di annullare la Parola di Dio (Mc 7,9.13), il comandamento divino, per mettere al suo posto i nostri gusti, le nostre convenienze, i nostri desideri personali.

Grazie al Vangelo, che è Buona Notizia, sappiamo come dobbiamo comportarci per vivere correttamente il duplice comandamento dell' amore di Dio e dell'amore del prossimo. A loro modo, anche i farisei ci rendono un grande servizio, se non altro perché ci insegnano come non dobbiamo comportarci.

(da Parole di vita)

ZOHAR
(IL LIBRO DELLO SPLENDORE)

(Passi scelti)

 

DIO (EN SOPH)

 

 
(III, 225a, Ra'yà Mehemnà, "Il fedele pastore")

Egli afferra tutto e non c'è chi afferri lui. Egli non si chiama col nome JHWH e con gli altri nomi, se non quando la sua luce si diffonde su di loro; mentre quando si allontana da loro, egli, a sé stante, non ha alcun nome.

"E profondo, profondissimo; chi lo può trovare?" (Eccl. VII, 24). Non c'è luce che possa guardarlo, senza oscurarsi. Persino la "corona eccelsa", la cui luce è più forte di tutti i gradi e di tutte le schiere celesti, le superiori e le inferiori, di lei è detto: "Egli pose l'oscurità, come suo nascondiglio"(Sal. XVIII, 12). Così pure la "sapienza" e "l'intelligenza", di loro è detto: "La nube e la caligine è intorno a lui" (Sal. XCVII, 2). Tanto più le altre sephiroth, le chayoth, e gli yesodoth che sono corpi morti. Egli gira su tutti i mondi, e non c'è chi giri su di essi da ogni lato, sopra e sotto ed ai quattro angoli, all'infuori di lui. E non c'è chi esca fuori dal suo dominio. Egli riempie tutti i mondi, e non c e altri che li riempia. Egli dà loro la vita, e non c e su di lui un'altra divinità che dia a lui la vita. Così è scritto: "Tu dai la vita a tutti" (Num. IX, 6). E in relazione a ciò Daniele ha detto: "Tutti gli abitanti della Terra sono considerati come nulla dinanzi a lui ed opera a suo piacimento con la schiera celeste"(Dan. IV, 32). Egli collega e unisce ogni specie alla sua specie, in alto ed in basso, e non c e vicinanza nei quattro yesodoth, se non per mezzo del Santo, che benedetto egli sia, quando si trova in essi.

 

 

(Seconda prefazione - Tiqqunè Zohar)

Elia prese a dire: Signore dei mondi. Tu sei uno e non rispetto ad un numero. Tu sei eccelso su tutti gli eccelsi, nascosto su tutti i nascosti ed il pensiero non ti afferra affatto. Tu sei che hai fatto scaturire i dieci ordini che noi chiamiamo dieci sephiroth, per guidare per mezzo loro i mondi segreti che non sono stati svelati ed i mondi che sono stati svelati. Per mezzo loro Tu ti nascondi agli uomini, e sei Tu che le colleghi e le unisci. Per il fatto che Tu ti trovi in esse, chiunque separi una di queste dieci dall'altra, è come se ponesse una separazione in Te. Queste dieci sephiroth procedono secondo il loro ordine: l'una lunga, l'altra breve, l'altra ancora media. Sei Tu che le guidi e non c e chi guidi Te, non in alto, né in basso, né da ogni lato. Hai stabilito per loro delle membra corporee, che sono definite "corpo" rispetto alle vesti che le ricoprono, e vengono così chiamate secondo quest'ordine: "l'amore", chesed, il braccio destro; la "giustizia", gheburà, il braccio sinistro; la "misericordia", tiphereth, il corpo; "l'eternità", nezach, e la "maestà", hod, le due gambe; "il fondamento", yesod, la fine del corpo, il segno del santo patto; il "regno", malkhut, la bocca, che noi chiamiamo Torà orale. La "sapienza", chokhmà, è il cervello, il pensiero interno. L'"intelligenza", binà, è il cuore, di cui è detto: "il cuore comprende" (Talmud: Berakhoth 61a). Di queste due ultime sephiroth è scritto: "le cose segrete appartengono a Dio" (Deut. XXIX, 28). La "corona eccelsa", Keter’ Eliyon cioè la "corona regale", Keter malkhut, di cui è scritto: "Annunzia dall’inizio la fine" (Is. XLVI, 10) è il cranio, intorno al quale si pongono i filatteri. All'interno (la corona) è Jod He Waw He, che è l'ispirazione divina. E ciò che abbevera l'albero, con i suoi rami e le sue fronde, come l'acqua che abbevera l'albero e lo fa crescere grazie a tale irrigazione.

Signore dei mondi, Tu sei l'altezza delle altezze, la causa delle cause, che abbeveri l'albero con la fonte. E quella fonte è come l'anima per il corpo, che costituisce la vita per il corpo. In Te non c e immagine né somiglianza in tutto ciò che esiste all'interno (della corona). Hai creato il cielo e la terra, hai fatto spuntare nel cielo il sole, la luna, le stelle e le costellazioni e nella terra gli alberi, le erbe, il giardino dell'Eden, gli animali, gli uccelli, i pesci e gli uomini. Ciò affinché si rivelassero per mezzo loro i mondi superiori, e fosse conosciuto come si comportano i mondi superiori e quelli inferiori e come si conoscono i mondi superiori e quelli inferiori. Non v'è chi sappia nulla di te, ed all'infuori di Te non esiste unico né unicità nei mondi superiori e in quelli inferiori; Tu sei riconosciuto come Signore di tutto. Quanto alle Sephiroth, ognuna di esse ha un nome conosciuto e con tali nomi sono chiamati gli angeli. Tu invece non hai un nome conosciuto, perché riempi di Te tutti i nomi e ne costituisci la perfezione: quando Ti allontani da loro, tutti i nomi rimangono come corpo senza anima.

Tu sei sapiente e non di sapienza conosciuta, Tu sei intelligente e non di intelligenza conosciuta. Tu non hai un luogo conosciuto, se non per far conoscere la Tua forza ed il Tuo potere agli uomini e per mostrare loro come si guida il mondo con il giudizio (din) e la pietà (rachamim), che sono la giustizia (zedeq) ed il diritto (mishpat), secondo le azioni degli uomini.

Il giudizio (din) è la potenza (gheburà); il diritto (mishpat) è la colonna mediana. La giustizia (zedeq) è il santo regno (malkhut); la bilancia della giustizia sono le due basi della verità; la misura della giustizia è il segno del patto. E tutto ciò per mostrare come si guida il mondo. Ma non si deve intendere che Tu abbia una giustizia (zedeq) conosciuta, che è il giudizio (din), o un diritto (mishpat) conosciuto che è la misericordia (rachamim). E parimenti per tutti gli altri attributi.

 

 

(III, 257b - 258a,

Ra’yà Mehemnà "Il fedele pastore")

Bisogna sapere che egli è chiamato saggio in ogni tipo di saggezza, intelligente in ogni tipo di intelligenza, benefico in ogni tipo di beneficio, consigliere in ogni tipo di consiglio, giusto in ogni tipo di giustizia e re in ogni tipo di regno, fino all'infinito (En Soph) ed all'imperscrutabile (En Cheqer). Ed in tutti questi attributi, in uno è chiamato "pietoso" in un altro "giudice", e così per tanti attributi fino a En Soph.

E se Tu dicessi: Allora c'è differenza tra "pietoso" e "giudice"?

C'è da dire che ancor prima di creare il mondo egli è stato chiamato con tutti quegli attributi a causa delle creature che erano destinate ad essere create. Perché, se non per quelle creature che sono nel mondo, sarebbe chiamato "pietoso" e "giudice"? Sì, soltanto a causa delle creature destinate ad essere create. Perciò tutti i suoi nomi sono appellativi fissati sulla base delle sue azioni. Per esempio egli ha creato a sua somiglianza l'anima, così definita sulla base della sua attività sulle singole membra del corpo, che è chiamato piccolo mondo ('olam qatan). Come il Signore del mondo si comporta con tutte le sue creature e con ogni generazione secondo le loro azioni, così l'anima si comporta secondo le azioni delle singole membra. In quella parte del corpo, con cui l'uomo realizza un precetto divino (mizwà), l'anima prende il nome di misericordia, beneficio, grazia e pietà. Invece in quella parte del corpo, con cui l'uomo commette una trasgressione, l'anima prende il nome di giudizio, ira e furore.

Ma al di fuori del corpo, a chi sarebbe applicata la pietà o la crudeltà?

Così pure il Signore del mondo, prima che creasse il mondo e creasse le sue creature, rispetto a chi avrebbe potuto essere chiamato misericordioso, pietoso o giudice? Ma tutti i suoi nomi sono degli appellativi, con cui viene chiamato, soltanto a causa delle creature che sono nel mondo.

E per tale motivo che quando la generazione degli uomini è buona egli è chiamato nei loro confronti JHWH, con l'attributo della misericordia; mentre quando la generazione degli uomini è malvagia, egli è chiamato ADNY, con l'attributo della giustizia, per ogni generazione e per ogni uomo secondo il suo attributo. Ma non si deve intendete che egli abbia un attributo né un nome conosciuto, sull'esempio delle sephiroth, ognuna delle quali ha un nome conosciuto, un attributo, uno spazio ed una collocazione determinata.

In quei nomi il Signore del mondo si diffonde; in essi scorre; in essi viene appellato; in essi si cela; in essi si insedia, come l'anima nelle membra del corpo. E come il Signore dei mondi non ha un nome conosciuto, né una collocazione conosciuta, ma il suo potere è in ogni lato, così pure l'anima non ha un nome conosciuto né una collocazione conosciuta, ma il suo potere è in ogni lato e non c'è parte del corpo che ne sia priva. Perciò non bisogna attribuirla ad un solo luogo, perché se così fosse mancherebbe il suo dominio sulle altre membra. Così non si deve chiamarla con un solo nome, né con due, e neppure con tre, dicendo che essa è sapiente ed intelligente e possiede conoscenza e nulla più; perché, così facendo, la si priva degli altri attributi. Tanto più il Signore del mondo, che non può essere attribuito ad un luogo conosciuto, né essere chiamato con nomi. Quando egli era unico, prima che creasse il mondo, perché avrebbe dovuto essere chiamato con quei nomi o con altri appellativi, come per esempio: "pietoso, misericordioso e longanime, etc." (Esodo XXXIV, 6), giudice, forte, potente e molti altri attributi del genere? Con tutti quei nomi e quegli appellativi egli è chiamato a causa dei mondi e delle creature che sono in essi, per mostrare il suo dominio su di essi.

Così pure per l'anima, a motivo del suo dominio su tutte le membra del corpo, egli l'ha resa simile a lui. Non che essa sia simile a lui nella sostanza, perché mentre egli l'ha creata, non c e una divinità sopra di lui che l'ha creato.

Ed ancora: l'anima è soggetta a taluni mutamenti, accidenti e cause relative ad essa, ciò che non è per il Signore di tutto. Perciò essa è simile a lui, per quanto concerne il suo dominio su tutte le membra del corpo, ma non sotto gli altri aspetti.

 

 

(Zohar Chadash - 55b-d - Tiqquné Zohar)

Egli ha fatto scaturire ogni cosa dallo stato di potenza in atto: egli muta le sue azioni ed in lui non è mutamento. Egli è colui che ordina le sephiroth: nelle sephiroth c'è la grande, la media e la piccola, ognuna di esse sulla base dell'ordinamento da lui operato, mentre in lui non è ordine. Egli ha creato tutto con l'intelligenza (binà) e non c'è chi abbia creato lui. Ha modellato e formato tutto con la gloria (tipheret), mentre egli non ha modello né modellatore.

Egli ha fatto tutto con il regno (malkhut) e non c e chi abbia fatto lui. E poiché egli è all'interno di queste dieci sephiroth, con le quali ha creato, ha modellato ed ha fatto ogni cosa, vi ha posto il nome della sua unità affinché ve lo riconoscessero. Chiunque separa qualsiasi sephirà da un'altra di queste dieci sephiroth, che sono chiamate Jod He Waw He, è come se ponesse una separazione in lui. E lui che unisce la lettera Jod con la He e la Waw con la He, che non vengono chiamate JHWH se non in lui. E così pure per ADNY, per EHYH e per ELHYM. Non appena si allontana da esse, egli non ha un nome conosciuto. E lui che lega tutti i nomi degli angeli, li lega insieme e sorregge i mondi superiori e quelli inferiori. Se egli si allontana da loro, non hanno più mantenimento, né conoscenza, né vita.

Non v'è luogo dove egli non sia: di sopra fino all'infinito (En Soph) e di sotto allo sconfinato. Da ogni parte non esiste divinità all'infuori di lui. Ma, nonostante egli si trovi in ogni luogo, ecco che non ha posto la creazione (beriyà), la formazione (yézirà) e l'azione (’asiyà) né nel trono, né negli angeli, né nel cielo, né nella terra e nel mare, né in qualche creatura del mondo, affinché tutte le creature lo conoscano attraverso le sephiroth.

E non soltanto questo, ma di più, tutte le creature sono state create attraverso le sephiroth, alcune per mezzo della creazione, altre per mezzo della formazione, altre ancora per mezzo dell'azione. Ma nelle sephiroth, nonostante che egli abbia tutto creato, formato e fatto attraverso di loro, non si può parlare di creazione, di formazione e di azione come negli esseri inferiori, se non come mondo dell'ispirazione. Perciò le sephiroth della corona (keter), della sapienza (chokhmà), dell'intelligenza (binà), della conoscenza, che sono nelle altre creature, non assomigliano ad esse, secondo quanto è scritto: "A chi dunque mi assomiglierete, in modo che io sia veramente simile? - dice il Santo" (Is. XL, 25), e secondo l'esempio della Torà, della quale è detto: "E più preziosa delle gemme) e tutto ciò che hai di più caro non la eguaglia" (Prov. III, 15). Egli crea, forma e fa ogni cosa.

Nonostante che egli sia conosciuto dagli uomini attraverso le dieci sephiroth, che sono la corona eccelsa (keter ’eliyon), la sapienza (chokhmà), l'intelligenza (binà), etc. è detto di lui: egli è sapiente, ma non di sapienza conosciuta; è intelligente, ma non di intelligenza conosciuta; è benefico, ma non di beneficio conosciuto; è potente, ma non di potenza conosciuta; è glorioso in ogni luogo, ma non in un luogo conosciuto; è maestoso e magnifico in ogni luogo, ma non in un luogo conosciuto; è giusto, ma non in un luogo conosciuto; è re, ma non di una regalità conosciuta; è uno, ma non rispetto ad un numero, come è invece l'uno che assomma i tredici attributi. Nonostante che egli sia al di fuori di tutto, sorregge i mondi superiori e gli inferiori, e sorregge tutti i mondi fino all'infinito (En Soph) ed allo sconfinato. Ma non esiste chi sorregga lui. Ogni pensiero si sforza di pensarlo, ma nessuno di essi sa raggiungerlo. Perfino Salomone, di cui è detto: "Fra il più saggio tra tutti gli uomini" (1Re, V, 11), cercò di raggiungerlo con il suo pensiero ma non vi riuscì. Perciò disse: "Voglio diventar sapiente; ma la sapienza è lontana da me" (Eccl. VII, 23).

Se egli dà la vita a qualcuno, con l'attributo di JHWH, non esiste chi lo possa uccidere. Se poi egli dà la morte a qualcuno con l'attributo di ADNY, non esiste chi gli possa dar la vita. E queste lettere, nonostante che vi sia in esse la morte e la vita, non derivano in sé la vita e la morte se non da lui. Né derivano la loro vicinanza ed unione se non da lui. Il nome non è chiamato perfetto, se lui non è in esso, né realizza alcuna azione, se lui non è in esso. Anche le forze del male, che costituiscono un altro dominio, sono tutte in suo potere, e di loro è detto: "Tutti gli abitanti della terra sono considerati come nulla dinanzi a lui ed opera a suo piacimento con la schiera celeste" (Deut. IV, 32). Non c'è chi possa opporsi a lui, dicendogli: cosa hai fatto? Egli afferra ogni pensiero, ma non c'è pensiero che possa conoscerlo. Non gli era necessario fissare un'entità limitata, attraverso la quale pensare e conoscere, ma l'ha fissata per le creature, perché il loro pensiero non lo può raggiungere in ogni luogo. Infatti egli possiede dei mondi anche al di sopra delle sephiroth, come i capelli che sono innumerevoli. E proprio perché gli uomini sapessero invocarlo in un luogo determinato, egli ha fissato per loro le sephiroth. Ciò affinché essi lo potessero conoscere tramite loro, che sono collegate con i mondi superiori e quelli inferiori. Egli ha creato per mezzo delle sephiroth tutte le creature, affinché potessero conoscerlo attraverso di esse.



Il punto di partenza per ogni tipo di riflessione teologica e spirituale in materia politica non può essere per il cristiano altro che la parola di Dio. Il grande tema del Regno, insieme a quello della pace, ad esso strettamente correlato, devono dominare la riflessione e le scelte del cristiano.

Non sono pochi, quarant'anni, per percepire lo sviluppo di un processo storico: e non sono pochi i quarant'anni che ci separano dall'avvio della riforma liturgica che il Vaticano II ha intrapreso.

«Il rischio dell’Europa è che si accorga del dramma dei poveri con una mentalità da ricca, mentre la Chiesa lo avvicina con un cuore da povera». L’omelia del presidente emerito del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace durante la messa di chiusura delle Settimane sociali di Francia il 26 settembre 2004.

I profeti biblici di fronte a Babilonia
di Jesus Asurmendi*


 




* Professore all’Institut Catholique di Parigi

È impossibile parlare di Babilonia in una prospettiva culturale ampia senza rifarsi ai testi biblici. Oltre che in Genesi 11 e nell’Apocalisse di Giovanni, testi a valenza mitica e simbolica, Babilonia appare nella Bibbia in un periodo ben determinato, quello dei profeti Geremia, Ezechiele e del Secondo Isaia, il periodo del Nuovo Impero Babilonese (605-539). Il regno di Giuda, che era in una posizione-cerniera tra la potenza babilonese e l’Egitto, si trovò preso in un’autentica tempesta. Con la caduta di Ninive nel 612, Babilonesi e medi avevano dato il colpo di grazia all’impero assiro. Nel 605, Nabucodonosor inflisse una cocente sconfitta al faraone. Per un certo tempo, Giuda oscilla tra questi due protagonisti, prima di cadere nell’orbita babilonese. La prima deportazione nel 597, poi la caduta di Gerusalemme nel 587 significano l’influenza totale di Babilonia. È in questo contesto che bisogna situare gli interventi profetici.


 



GEREMIA: LA SOTTOMISSIONE

A partire dal momento in cui gli  Egiziani sono sconfitti da Nabucodonosor a Karkemiš, nel 605, il nemico del Nord, di cui Geremia aveva  predetto la venuta quale castigo per Giuda, si precisa: sono i Babilonesi. Ma  curiosamente, il profeta va a chiedere la  sottomissione al re di Babilonia. Come  spiegare questa posizione che lo fece considerare un collaborazionista dai suoi  compatrioti?  
Questa pressi di posizione antinazionalista si manifesterà in circostanze diverse.  Prima di tutto la si scopre nel testo di Geremia 27,1-11. Siamo nel 594-593, sotto il  regno di Sedecia.  

«PROCURATI UN GIOGO E METTILO SUL TUO COLLO»  
Il cambiamento del sovrano in Egitto suscita in alcuni vassalli di Nabucodonosor  delle speranze di indipendenza. Una riunione di «ribelli» ha luogo a Gerusalemme: Edom, Moab, Ammon, Tiro e Sidone rispondono all’appello. È allora che Geremia riceve dal Signore uno strano ordine: procurarsi un giogo, metterselo sul capo e presentarsi così davanti agli inviati dei regni vicini.
Il messaggio è chiaro: il Dio del cielo e della terra ha sottomesso tutti i popoli a Nabucodonosor. Chi si sottomette vivrà. Altrimenti sarà la disfatta e la morte certa. Nel suo oracolo, il profeta attribuisce a Nabucodonosor uno dei titoli più prestigiosi della monarchia in Giuda: egli è il «servo del Signore». Per Geremia, il Dio dell'universo si preoccupa di tutti i popoli e, nel suo disegno, Nabucodonosor ha un posto essenziale. Adesso, gli ha dato ogni potere. Ribellarsi contro di lui equivale a ribellarsi contro il Dio di Israele.
Da quel momento, la posizione del profeta diventerà sempre più delicata. Egli infatti non si accontenta di trasmettere questo messaggio di sottomissione, ma moltiplica i suoi interventi per far «passare» il suo punto di vista. Così, in questo stesso capitolo 27, altri due oracoli riaffermano che bisogna sottomettersi e annunciano la totale rovina se la ribellione si concretizza.

UN MESSAGGIO OSTINATO IN FAVORE DELLA SOTTOMISSIONE
Molto chiaramente, egli si oppone agli altri profeti e ai responsabili del regno: mette in guardia i suoi ascoltatori contro coloro che predicano la ribellione, affronta il profeta Anania che, da parte sua, annuncia la liberazione dal giogo babilonese «entro due anni» (28,3). Scrivendo ai deportati di Babilonia, consiglia loro di prevedere un esilio lungo, di stabilirsi in terra straniera e di non ascoltare coloro che annunciano un rapido ritorno (c. 29).
Dopo la caduta di Gerusalemme e l'attentato contro Godolia, il governatore posto dai Babilonesi in Giuda, Geremia raccomanda ancora a un gruppo di Giudei atterriti dalle conseguenze di questo assassinio di rimanere nel paese e di «non temere il re di Babilonia» (42,10ss).

TRADITORE DELLA PATRIA O SEMPLICEMENTE PRAGMATICO
Ma è soprattutto al momento della caduta di Gerusalemme, nel 587, che il profeta appare ai suoi concittadini come un traditore. Durante un'interruzione dell'assedio,Geremia esce dalla città per raggiungere il suo villaggio. Anatot, dove deve sistemare una questione di eredità. Nel momento in cui attraversa la porta, una guardia ferma Geremia e gli dice: «Tu passi ai Caldei!» (37,11ss). Poco più tardi, alcuni ministri chiedono al re la testa del profeta: «Si metta a morte questo uomo perché egli scoraggia i guerrieri che sono rimasti in città»; e, afferratolo, lo gettano in una cisterna (38, 1-6). Dopo averlo liberato, Sedecia lo fa però guardare a vista. In breve, anche se non è stato il solo a prendere questa posizione, Geremia è apparso agli occhi dei Giudei conte il traditore per eccellenza.
La sua posizione era certo ben nota ai Babilonesi, come rivela il loro atteggiamento dopo la caduta di Gerusalemme: lo lasciano libero di circolare e Geremia resta nel paese con coloro che, come Godolia, avevano sostenuto la sottomissione a Nabucodonosor. Sfortunatamente, dopo l'assassinio di Godolia, le cose si metteranno male per lui, e sarà così costretto a fuggire in Egitto, oggetto di ogni critica (43,4-7).
L'atteggiamento di Geremia di fronte a Babilonia può sorprendere. Esso riflette la fedeltà del profeta alla fede d'Israele. Dio, padrone del mondo e della storia, ha un progetto per tutti i popoli: le loro relazioni, spesso tumultuose, devono servire a guidare Israele, il suo popolo eletto, verso il destino che Dio gli prepara. Il suo atteggiamento rivela ancora un’intelligenza politica improntata al pragmatismo, di fronte a un tentativo di ribellione completamente irrealistico.

EVOLUZIONE ULTERIORE DEL LIBRO DI GEREMIA
Gli avvenimenti storici hanno dato ragione a Geremia, squalificando le posizioni dei suoi avversari. Da allora, i suoi oracoli e i suoi interventi politici sono stati accuratamente tenuti in considerazione, come prova della legittimità religiosa della sua parola profetica. Ma nel libro di Geremia non si trovano solo le parole e le prese di posizione del profeta. Il suo libro ha continuato a vivere. I suoi discepoli ed epigoni, sempre messi a confronto con Babilonia, si sono trovati davanti ad altri problemi. Il popolo di Israele - i deportati, come gli altri rimasti nel paese - subì con forza la pressione del dominatore del momento.
L'atteggiamento verso Babilonia cambierà radicalmente. Non è del resto escluso che Geremia stesso abbia previsto un ulteriore castigo di questa grande potenza (cf 27,7: 25,26). Nel grande blocco degli oracoli contro le nazioni (Ger 46-51), gli ultimi due capitoli sono dedicati a questo. Al lamento che Israele rivolge al Signore sul comportamento di Babilonia, il Signore risponde: «Ecco, io difendo la tua causa, compio la tua vendetta» (51,36). L'idea di vendetta implica che Babilonia ha avuto torto in un certo momento: «Ha peccato contro il Signore!». Questo peccato dei popoli contro il Signore è un motivo classico: si tratta dell'orgoglio: «Eccomi a te, o arrogante» (50,31). Babilonia a sua volta dovrà dunque essere punita: «Ripagherò Babilonia di tutto il male che hanno fatto a Sion» (51,24). Così, le sorti di Sion e di Babilonia saranno sempre opposte, ma la loro posizione si ribalta. «Babilonia non è guarita... poiché la sua punizione giunge fino al cielo... il Signore ha fatto trionfare la nostra giusta causa: venite, raccontiamo in Sion l'opera del Signore, nostro Dio» (51,9-10).
IL tema del castigo di Babilonia ritorna più volte nei capitoli 50-51. In un primo momento sorprende il contrasto con le posizioni di Geremia. Questo paradosso riflette il radicamento della parola profetica nella realtà storica: gli avvenimenti hanno spostato i ruoli dei protagonisti, ma le due letture della storia partono dalla stessa fede in un Dio che si prende cura del suo popolo attraverso la mediazione degli attori della storia.

 



EZECHIELE: L’ESILIO E LA SPERANZA

Ezechiele, sacerdote del tempio di Gerusalemme, fa parte degli esiliati della prima deportazione nel 597. Non c'è motivo di mettere in dubbio le notizie del suo libro secondo le quali egli è vissuto in Babilonia, a Tel Abib, presso il fiume Kebar, vicino a Nippur.
Il suo libro contiene un buon numero di date o di allusioni che permettono di situarlo nel tempo. Così, non solamente egli ha atteso e annunciato la caduta di Gerusalemme, ma ha seguito le peripezie della lotta di Nabucodonosor per l'egemonia politica nel Vicino Oriente. Quanto all'ultimo oracolo datato del suo libro, è stato pronunciato il 26 aprile 571 e tratta delle controversie del re babilonese con Tiro e l'Egitto (29, 17-21). Ezechiele ha 52 anni. È sempre a Babilonia. Poi, se ne perdono le tracce.

EGIZIANI E CALDEI DI FRONTE ALLA PROSTITUTA GERUSALEMME  
Ezechiele ama gli affreschi storici in cui  Giuda e Israele sono gli attori principali.  La storia del suo popolo gli appare come  una sequenza di infedeltà al Signore, che  si manifesta con la ricerca di legami politici e religiosi con le grandi potenze  dell'epoca. L'Egitto non appare come «l'amante» più ricercato? Anche gli Assiri sono ricordati, ma il loro potere è scomparso da tempo. Sono dunque i Caldei di Babilonia che si contendono, insieme all'Egitto, la prostituta Gerusalemme. Con questa chiave giuridico-politica il profeta esprime i rapporti tra Giuda e il potere babilonese (Ez 16,29; 23,14-18).

L'INFEDELTÀ Dl GIUDA AL GIURAMENTO DATO
Aldilà dello sfavillio delle immagini più o meno scabrose, il fondo del problema è politico e religioso. Il capitolo 17 di Ezechiele è un modello di questo genere. All'inizio è il simbolo dell'albero piantato dalla grande aquila per mostrare la situazione di vassallaggio di Giuda nei confronti dei Babilonesi dopo la prima deportazione e i tentativi di rivolta del re di Gerusalemme che volge all'Egitto.
Giuda ha prestato, di buono o cattivo grado, un giuramento di fedeltà al re di Babilonia, facendo Dio testimone e garante della sua fedeltà. I suoi tentativi di ribellione manifestano la sua infedeltà alla parola data al re di Babilonia, ma anche al Signore, suo testimone e garante. Così, è il Signore stesso che è messo allo scoperto. Gli tocca punire l'infedele: «Lo porterò a Babilonia [= il re di Gerusalemme] e là lo giudicherò per l'infedeltà commessa contro di me» (17-20b). Inutile dire clic Nabucodonosor, di fronte all'infedeltà del suo vassallo, ha anche lui voluto dare un castigo!
Questo testo non è datato. Ma si sa che gli inviati dei paesi vicini a Giuda si sono riuniti a Gerusalemme nel 593, per liberarsi dal giogo babilonese. Ora, è proprio nel 593 che Ezechiele pone l'inizio del suo ministero profetico (1,2). È dunque in un momento di grave crisi che il Signore manda il suo profeta per fare un estremo tentativo di evitare la catastrofe.

BABILONIA, STRUMENTO DELLA COLLERA DI YHWH
Ezechiele, biasimando le scelte dei responsabili di Gerusalemme e l'infedeltà di Giuda, giustifica in qualche modo la reazione di Nabucodonosor. Ma la visione del profeta non può ridursi a questo aspetto.
Tutta la prima parte della sua predicazione (fino al momento della caduta di Gerusalemme) è consacrata a denunciare le colpe del suo popolo. I capitoli 8-11 ne sono il quadro più avvincente. L'idolatria è dipinta con una forza e una fantasia sorprendente. Poi, al capitolo 22, è tutta la società gerosolimitana ad essere denunciata per la sua ingiustizia: la città è corrotta, senza prospettive.
Il castigo è inevitabile: «Il Signore disse: Seguitelo attraverso la città e colpite. Il vostro occhio non perdoni, non abbiate misericordia! (...) Neppure il mio occhio avrà compassione e non userò misericordia: farò ricadere sul loro capo le loro opere» (9,5ss). Il legame tra il castigo meritato da Giuda e l'azione di guerra di Nabucodonosor diventa ben presto più esplicita: «Nella sua [del re] destra è uscito il responso: Gerusalemme, per far udire l'ordine del massacro, echeggiare grida di guerra... Perciò dice il Signore: Poiché voi avete fatto ricordare le vostre iniquità, rendendo manifeste le vostre trasgressioni e palesi i vostri peccati in tutto il vostro modo di agire, voi resterete presi al laccio» (21,27-29). E più avanti: «I figli di Babilonia e di tutti i Caldei... verranno contro di te (...). Deporteranno i tuoi figli e te tue figlie e ciò che rimarrà di te sarà preda del fuoco» (23,23.25).

LA RICOMPENSA DEL RE DI BABILONIA
Che il re di Babilonia sia lo strumento della collera del Signore, o che egli abbia il diritto di punire Giuda per la sua infedeltà, questo a rigore lo si può capire. Ma Ezechiele va oltre. Nel suo ultimo intervento datato, il profeta presenta un oracolo sconcertante. Promette l'Egitto al re di Babilonia: «Per l'impresa compiuta io gli consegno l'Egitto, perché l'ha compiuta per me. Oracolo del Signore» (29,20). Inutile dire che i Giudei deportati hanno dovuto far fatica ad accettare una simile visione delle cose!

LA GLORIA DI DIO HA SEGUITO IL SUO POPOLO IN ESILIO
Ma il Signore non abbandona i deportati. Essendosi manifestata a lui la Gloria di Dio, è a Babilonia che Ezechiele ha saputo di essere stato chiamato al ministero profetico (Ez 1,1-3,15). La Gloria di Dio è a Babilonia: Ezechiele l'ha vista, in una visione grandiosa, lasciare la sua casa, il Tempio di Gerusalemme (8.11), e questo è avvenuto ancora prima che Gerusalemme cadesse, tra le due deportazioni. Coloro che sono rimasti in Giuda sono certi che Dio è con loro, nel suo Tempio, mentre gli esiliati soffrono duramente la loro lontananza dal Signore. Ora, Ezechiele, con le sue visioni come con il racconto della sua vocazione, mostra che è una concezione falsa: «Se li ho dispersi in terre straniere, sarò per loro un santuario per poco tempo nelle terre dove sono emigrati» (11,16).
Tuttavia, l'orizzonte non si chiude, per il profeta, nel paese della deportazione. Le prospettive di ritorno sono spesso enunciate. Ma soprattutto, a partire dalla caduta di Gerusalemme, tutto cambia. Ezechiele diventerà il cantore della speranza. Con lo stesso vigore con cui aveva annunciato il castigo, predicherà la salvezza per Israele. La vita del popolo è assicurata nella affascinante visione delle ossa aride che riprendono vita (Ez 37), il ritorno della Gloria di Dio è annunciato.

UN'IMMAGINE POSITIVA CHE NIENTE INTACCHERÀ
Babilonia ha incontestabilmente un ruolo positivo nel pensiero di Ezechiele: come potenza politica, ma soprattutto come il paese da cui uscirà Israele, in un nuovo ed autentico esodo. Questa visione è così forte che, diversamente che in Geremia, non si trova un oracolo contro Babilonia nel blocco «oracoli contro le nazioni» del libro di Ezechiele. E niente nemmeno nel suo libro che, venendo dalla sua scuola, dai suoi successori, abbia attenuato il ritratto positivo di Babilonia che egli aveva tracciato. Sui questo tema, non ci sono state, da parte dei discepoli, aggiunte o sviluppi in funzione delle nuove circostanze. Questo è tanto più notevole in quanto il libro testimonia molte riletture e aggiunte, che talvolta deformano il testo fino a dare del Profeta un'immagine patologica. Ma l'immagine Positiva di Babilonia rimane intatta.

 



IL SECONDO ISAIA: L’ANNUNCIO DELLA LIBERAZIONE

Non c'è più praticamente nessuna discussione circa la paternità dei capitoli 40-55 del libro di Isaia comunemente chiamato Secondo Isaia o Deutero-Isaia. Non è il profeta conosciuto sotto questo nome, autore dei capitoli precedenti, che era vissuto nell'VIII secolo. Il Secondo Isaia, anonimo, ha esercitato il suo ministero profetico tra il 550 e il 520. Come dire che è stato il testimone degli ultimi anni dell'impero babilonese e della speranza suscitata in tutto il Vicino Oriente dall'arrivo al potere del persiano Ciro. In tale contesto si deve situare Babilonia nei suoi oracoli.
Gli oracoli su Babilonia sono poco numerosi. Le menzioni esplicite si trovano nella prima parte (40-48) il cui asse essenziale è costituito dall'annuncio della liberazione degli esiliati e del ritorno nel paese. La seconda parte (49-55) tratta principalmente della restaurazione di Gerusalemme.

«COSÌ DICE IL SIGNORE,  VOSTRO REDENTORE»  
L'annuncio della caduta di Gerusalemme  si trova in un breve oracolo in 43, 14-15:  «Così dice il Signore, vostro redentore, il  Santo di Israele: per amor vostro, l'ho  mandato contro Babilonia e farò scendere tutte le loro spranghe e quanto ai Caldei muterò i loro clamori in lutti». Si può  accostare a questo testo un altro versetto, anche se Babilonia non vi appare direttamente: «A terra è Bēl (uno dei nomi di  Marduk), rovesciato è Nebo... ed essi se ne vanno in schiavitù» (46,1-2). Così il  movimento della storia provocherà la caduta di Babilonia: una lieta notizia per gli  esiliati!  
Questa caduta, i capitoli 40-80 l'annunciavano già: era come instancabile invito alla fede e alla speranza. Non era evidente per i deportati credere che Dio volesse fare ancora qualcosa per loro, che aveva punito così pesantemente. Il Deutero-Isaia si adopererà per convincerli. Da una parte ricorderà le meraviglie che il Signore ha compiuto nel passato a favore di Israele, e in modo particolare l'esodo. Colui che ha fatto, farà. Farà addirittura delle azioni ancora più sorprendenti in favore di Israele, suo servo. Dall'altra, l'argomento cosmologico avrà un ruolo importante: il Creatore dell'universo continua ad agire nella storia. È il Dio di Israele. Egli è il padrone degli avvenimenti, li conduce secondo il suo disegno. E il profeta insiste a più riprese sulla volontà di questo Dio onnipotente.

BABILONIA PUNITA PER IL SUO ORGOGLIO E LA SUA MAGIA
In questo contesto, ancora una volta in modo indiretto, il posto che Ciro assume nel libretto è molto significativo. Il percorso di questo conquistatore fu tanto straordinario quanto folgorante. Geremia aveva, a nome del Signore. chiamato Nabucodonosor «mio servo». Ezechiele aveva annunciato la ricompensa data a questo stesso re pagano dal Signore per i servizi resi. Il Secondo Isaia si volge verso un altro personaggio. Il servo del Signore è ora Ciro, il Persiano. È lui che realizzerà la liberazione del suo popolo.
Il posto che Ciro occupa nel libretto dei Deutero-Isaia è tanto più interessante in quanto i testi del conquistatore attribuiscono le sue vittorie a Marduk, il dio babilonese. La lettura della storia non è univoca.
Il profeta arriverà fino al punto di pronunciare una sorta di lamento su Babilonia vinta. Ma egli non si dilunga sulla sua caduta. Strumento della collera del Signore contro il suo popolo, Babilonia ha superato i limiti della sua missione: la sua mano fu troppo dura e il suo orgoglio smisurato: «Tu pensavi: Sempre io sarò signora, sempre... Eppure dicevi nel tuo cuore: Io e nessuno fuori di me» (14,7-8,10). Fatale errore: ella, la sovrana, lavorerà come una schiava: ella che aveva lasciato tante donne vedove e senza figli, eccola improvvisamente vedova e senza figli.
A questi motivi classici si aggiunge un capo d'accusa poco frequente negli oracoli contro le nazioni. Babilonia è accusata di avere una forte propensione per i sortilegi e la magia, il che aggrava considerevolmente la sua situazione.

«USCITE DA BABILONIA, FUGGITE DAI CALDEI»
Il ruolo di Babilonia nei confronti del popolo del Signore è esaurito. Dopo aver annunciato il castigo che ha meritato per i suoi eccessi, il profeta può cantare il ritorno, l'uscita, l'esodo: «Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa... per dissetare il mio popolo, il mio eletto» (43,16-21). E dopo questi preparativi: «Uscite da Babilonia, fuggite dai Caldei, annunziatelo con voce di gioia... Il Signore ha riscattato il suo servo Giacobbe» (48,20). Il cammino di Israele è così compiuto.
La politica di Ciro fu generosa e abile. Il suo editto del 538 permette ai Giudei che lo desideravano di ritornare a Gerusalemme. Da quel momento, Babilonia sparisce dall'orizzonte del Secondo Isaia. Gerusalemme ritorna ad essere «la Città della Santità»: «... perché più numerosi sono i figli dell'abbandonata» (54.1)

DALLA REALTÀ STORICA AL SIMBOLO
I profeti sono gli interpreti del presente alla luce della fede di Israele. Le loro posizioni sono ispirate da un principio teologico di base: Dio è presente nella storia, Egli la guida. Ma l'interpretazione di questa storia richiede un grande discernimento: in caso contrario, questo principio applicato in modo troppo meccanico porrebbe togliere all'uomo le sue responsabilità o far identificare troppo rapidamente ogni avvenimento con l'intervento di Dio. Al contrario, interpreti del presente, Geremia, Ezechiele e il Secondo Isaia sono con discernimento e intelligenza politica. Vedendo in Babilonia lo strumento della collera di Dio contro il suo popolo, vanno contro ogni rigido nazionalismo. Tuttavia, quando le circostanze cambiano, anche le loro posizioni si evolvono: il libro di Geremia è il testimone esemplare di questi contrasti.
A partire da questo vissuto storico, Babilonia diventerà a poco a poco il simbolo dell'oppressione che Israele ha subito nella storia. Una serie di oracoli contro Babilonia si troveranno inseriti posteriormente anche nella prima parte del libro di Isaia, integrata in un insieme di «oracoli contro le nazioni» (13-14, 23; 21, 1-10).
Ma è sopratutto nel libro di Daniele che Babilonia diventa, nei racconti come nelle visioni, il simbolo della potenza politica ostile al popolo eletto. Siamo così preparati a comprendere come mai, nell’immaginario cristiano, Babilonia venga ad essere il simbolo del male, come si vede nel libro dell'Apocalisse, fino agli Esercizi di Ignazio di Loyola...


(da Il mondo della Bibbia n. 20)

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