Vita nello Spirito

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Venerdì, 08 Luglio 2005 20:59

Apertura al trascendente (Franco Gioannetti)

Apertura al trascendente
di Franco Gioannetti


 

L’esperienza religiosa ha coinvolto l’uomo fin dai tempi più remoti, assumendo varie caratteristiche.


Brahamanesimo: Già dal 2000 a.C. si ritrovano credenze e riti "vedici". Una religiosità, quella vedica, fondata su pratiche ascetiche tendenti ad ottenere la liberazione attraverso vari cammini, tra cui quelli della grazia e dell’amore. Dio è pronto ad aiutare l’anima e la grazia è uno stato divino di luce e di pace.

Una elevata riflessione religiosa del VII secolo d. C. così si esprime:

"Tu sei per me, o Signore, padre e madre
Tu sei per me l’amato
Tu mi doni vita e gioia
O Perla, o Ricchezza, Tu sei il mio tutto"
.


Buddismo: nasce alla fine del VI secolo a.C.; pensa ad una successione di esistenze che si deve interrompere per avere la felicità.

Questa interruzione può avvenire:

  • con la comprensione perfetta del sé universale, in cui è il sé personale.
  • con una valida disciplina e con tecniche di liberazione. La liberazione dalle passioni conduce al nirvana.

Taoismo: l’uomo ha un’anima superiore, huen, ed una inferiore, p’o. La superiore sale al cielo dopo la morte, l’inferiore scende nella tomba con il corpo. All’origine di tutto c’è il TAO, energia vitale, che si manifesta in due modi complementari: uno viene dalla terra, l’altro dal cielo.

A questo occorre aggiungere i cinque elementi che nell’uomo corrispondono alle cinque viscere il cui equilibrio è fonte di salute fisica e salvezza morale. La santità è lo stato di equilibrio. L’anima pura non è separata dal principio supremo. Il santo è pieno del soffio vitale che coincide con il principio della vita.


Sciamanesimo: tutti i movimenti che raggruppano coloro che si sentono vicini alle forze della natura.

Individui particolarmente dotati, fanno da intermediari tra il mondo degli uomini ed il mondo degli spiriti e delle forze misteriose attraverso riti, trance, poteri inspiegabili. Per restaurare la relazione io-altro.


Occidente: deriva l’esperienza mistica dal mondo greco. Anassimandro, 546 a.C., trova il principio di tutte le cose nell’infinito, o aperion, e afferma l’unificazione di tutti gli esseri.

Platone, che parla di un mondo iperuraneo sulla scia degli orfici e dei pitagorici.


Venerdì, 08 Luglio 2005 20:45

Vedere Dio (Franco Gioannetti)

Vedere Dio
di Franco Gioannetti


Angelo Silesio in "Il pellegrino cherubico" scrive: "Tu dici che vedrai Dio e la luce: stolto, mai lo vedrai se non lo vedi già ora!".

Vedere Dio è accorgersi che c’è e comprendere che ognuno deve cercarlo dentro di sé.

La mistica, esperienza soprannaturale che si svolge nelle profondità dell’incontro uomo-Dio, è il tentativo di cogliere appunto l’esperienza che l’uomo ha fatto e fa di questa esperienza misteriosa ma anche luminosa.

La mistica è acquisire conoscenza di come i mistici sono stati capaci, perché aperti al divino, di vivere e di raccontare le meraviglie di Dio, di aprirsi all'intimità più profonda con il Dio che li ha creati.

Mistici ce ne sono stati, ce ne sono, ce ne saranno perché pensare misticamente è un bisogno insopprimibile della vita.

L’uomo è fatto ad immagine di Dio, perché allora non pensare che in ogni uomo vi sia capacità di provare qualcosa della presenza divina?

Questa immagine è tesa al raggiungimento della somiglianza con Lui.

Questa immagine, per noi cristiani, è un dono ricevuto con l’essere. La somiglianza si realizza sotto l’influsso dello Spirito Santo, in dipendenza dall’incarnazione redentrice.

La pace, gli slogan e il cuore nuovo
di Gerolamo Fazzini





Va forte, di questi tempi, la pubblicità di una nota azienda di telecomunicazioni: come sarebbe oggi il mondo - questo il senso del messaggio - se Gandhi avesse potuto lanciare i suoi appelli alla non violenza dagli schermi di Times Square o toccare i cuori dei giovani raggiungendoli sul video del cellulare?

La domanda è suggestiva. ma fuorviante. Se l'educazione al perdono e alla riconciliazione chiedesse soltanto sistemi più evoluti di comunicazione, la questione sarebbe (relativamente) semplice. In realtà, l'adesione a opzioni etiche di fondo - come nel caso della pace - chiama in causa le ragioni profonde per cui l'uomo vive.
La lezione più impressionante che ho colto dal viaggio in Colombia (...) va in questa direzione. Incontrando tante persone della Chiesa e della società civile, in quel contesto così difficile, ho percepito chiaramente che la pace non chiede in primo luogo slogan efficaci o tecnologie sofisticate. Bensì esige di pagare un prezzo per essa.

Difficilmente potrò dimenticare le parole di padre Francisco De Roux, che davanti alla delegazione europea che sostiene i suoi progetti, disse: «Voglio chiedervi di non fermare il Laboratorio de Paz quando ci saranno dei morti, perché questo è inevitabile. Noi sappiamo di dover correre dei rischi per avere pace in questo Paese».
Da lui, da tanti altri missionari e da numerosi esponenti delle organizzazioni di base che ho incontrato mi aspettavo analisi socio-politiche, denunce contro il governo colombiano e la sua politica «militare», strali contro gli Stati Uniti (condivisibili, visto che appoggiano il famigerato Plan Colombia cui si deve la piaga delle fumigazioni delle coltivazioni illecite). Ebbene: nessuno dei miei interlocutori si è mostrato tenero nei confronti del presidente Alvaro Uribe. Nessuno di loro si sogna di negare che per arrivare a una pace vera sia necessario rimuovere ostacoli di ordine sociale, economico e politico, che per sciogliere il rebus-Colombia serva il contributo della comunità internazionale e che la lotta al narcotraffico debba essere una priorità... Ma nessuno di costoro si trincera dietro l'alibi di un contesto avverso per evitare di compiere fino in fondo il suo dovere di testimonianza. Chi operando sul fronte della lotta alla miseria e all'ingiustizia; chi impegnato direttamente nelle trattative con le varie fazioni armate; chi condividendo la sorte dei più vulnerabili. Ad accomunare tutte queste scelte è la convinzione che la guerra nasce prima nei cuori che sui campi di battaglia. Ed è da lì, dal cuore dell'uomo che bisogna ripartire. Come insegna il formidabile tentativo della «Scuola di perdono e riconciliazione».

Un altro motivo di riflessione nasce dall'aver constatato come per la Chiesa, dal vescovo al catechista più umile, l'educazione alla pace non si «aggiunge» alla vita cristiana, ma vi appartiene per così dire strutturalmente. Se si lavora per annunciare il Vangelo e costruire la comunità, insegnando a guardare l'altro non come un nemico, stando vicino a chi soffre, già si sta facendo... guerra alla guerra. In altri termini: la pace non è un valore per il quale i credenti debbano prevedere chissà quale corsia preferenziale, in obbedienza a una moda o al «politicamente corretto». Piuttosto, proprio perché tesi a dare carne alla Buona Notizia, i cristiani non possono non fare i conti con una situazione segnata dalla violenza e provare a rispondervi con la forza del Vangelo. La pace, insomma, non dipende da spot più o meno riusciti, bensì da coscienze che si convertono, da intelligenze che sanno leggere la storia, da persone che si mettono in gioco. Un messaggio esigente e attualissimo anche alle nostre latitudini.


(da Mondo e Missione, Novembre 2004)
Venerdì, 08 Luglio 2005 00:24

Il coraggio di confrontarsi (Ennio Bianchi)

Dinamismi comunitari inceppati
Il coraggio di confrontarsi
di Ennio Bianchi


 



La parresia, ossia la franchezza, l’apertura e la libertà di parlare, spesso è sopraffatta dalla paura di esporsi. In questo modo ne soffre il dialogo e si rinuncia a costruire insieme quella comunione che è fondamento dello stare insieme come Chiesa e come comunità.

«Se vuoi stare a galla, devi fare il morto» ci diceva in un serissimo corso di esercizi spirituali un dotto e arguto teologo e pastoralista. Il detto (oculatamente tenuto in grande considerazione in molti "palazzi") fotografa molte comunità ecclesiali e di vita consacrata, dove spesso esporsi troppo con le proprie convinzioni genera diffidenza, sospetti, emarginazioni e, per coloro che ci tengono, lo stop alla carriera.

Per questo la tradizione religiosa ha generato un'astuta e accorta prassi, piuttosto frequente nelle comunità cristiane: strategici silenzi, tattici mutismi, conniventi sorrisi, scaltri compromessi. Il tutto, magari, accompagnato da qualche mormorio, ma privato e circospetto e comunque sempre aperto - caso mai lo si venisse a sapere - a multiformi intendimenti e interpretazioni.

Atteggiamenti senz'altro avveduti per stare in linea con le indicazioni "superiori", ma contrari alla parresia biblica. Termine per molti alquanto ostico (e non solo linguisticamente), ma che tradotto connota le doti che dovrebbero essere in gran voga nelle Comunità di Cristo, considerato che nella parola di Dio esso significa franchezza, apertura, libertà di parlare, virtù che sono o dovrebbero essere una caratteristica della Chiesa di Cristo.

VIRTÙ DEL DISCEPOLO DI CRISTO

Un accenno soltanto alla parresia nell'AT, che pure ha pagine formidabili, rivelatrici della libertà e della sincerità che guidano il vero innamorato della verità di Dio. I profeti sono lì a dirci con quale forza e indipendenza di spinto occorre comunicare (in qualsiasi situazione esistenziale e sociale) la parola di Dio e le proprie convinzioni, senza tenere conto delle conseguenze personali, con l'atteggiamento etico dell'uomo libero, afferrato da Dio e che non teme di esporsi pubblicamente, sia nei palazzi del potere politico che nei palazzi del potere religioso. Nei salmi risuona più volte la voce “impertinente” del credente che sì rivolge a Dio per interrogarlo sul suo silenzio, sulla sua sordità alle preghiere, sul suo ritardo a fare giustizia.

Nel NT il termine (vi compare 31 volte) risplende in tutta la sua ricchezza e importanza. Il modello di parresia è Cristo stesso: l'intera sua predicazione è un parlare apertamente, senza sottintesi e fughe nel vago, delle esigenze del Regno, delle distorsioni portate dalle tradizioni alla genuinità e all’originalità della parola di Dio, delle ipocrisie di certi comportamenti, dell’insensibilità alla legge di Dio. Più volte deve intervenire con fermezza per chiarire ai suoi discepoli recalcitranti la natura della sua missione per richiamare senza mezzi termini la necessità della croce. Una vita, quella di Cristo, all'insegna della libertà interiore di proclamare le novità del Regno nella storia dell'uomo.

Ma i vangeli documentano anche il comportamento franco dei discepoli con Gesù, come quando essi - si fai portavoce Pietro - lo rimproverano apertamente per le sue parole che preannunciano la sua morte sulla croce. Ovviamente sbagliano, ma il fatto testimonia la circolazione di una libertà dialettica all'interno del gruppo, che non esita a contestare anche il venerato Maestro.

La Chiesa dei primi tempi respira o adotta - sia verso l'esterno che al suo interno - la parresia di Cristo, i discepoli annunciano con franchezza le opere di Dio, noncuranti delle persecuzioni, delle intimidazioni, consapevoli che non possono tacere le verità apprese. E resta proverbiale e paradigmatico lo scontro a viso aperto tra Paolo e i "conservatori" della religione e morale tradizionali e l'onestà e la schiettezza con le quali il problema è stato trattato e risolto. Inoltre le sue lettere lasciano chiaramente trasparire il dialogo, la schietta circolazione di  idee, ma anche gli scontri e le diatribe, con i membri delle chiese da lui fondate. Un rapporto tra persone libere.  

Franchezza, audacia, coraggio sono tutte espressioni della parresia e soltanto attraverso una sana manifestazione di queste virtù arrivano le novità di Cristo. Tacere, glissare vuol dire restare nel ricevuto, con la comodità e con il timore di chi non vuole essere libero, ma ubbidire passivamente, e di chi si rassegna a non essere portatore di qualcosa di nuovo.

L'ardire del discepolo di Cristo non è superbia, ma consapevolezza umile di essere figlio di Dio e quindi di avere il diritto di stare in piedi di fronte all'uomo e di avere il dovere di comunicare quanto - in coscienza - sì sente di dire per essere fedele a se stesso, in Dio.

Limitiamoci ad alcune brevi considerazioni a partire dal Vaticano II che - come noto - è stato un concilio essenzialmente ecclesiale e che ha messo in risalto l'uguaglianza sostanziale di tutti i battezzati, parlando di popolo di Dio.

VIRTÙ DEL POPOLO DI DIO

Di qui è partita la riflessione teologica che ha evidenziato che la “comunione” è l'idea centrale e fondamentale dei documenti conciliari, con la logica conseguenza che, essendo la Chiesa comunione, deve esserci partecipazione e corresponsabilità per tutti i suoi membri.  Condivisione totale che non può esistere senza la comunicazione aperta e il dialogo libero e sincero tra i suoi componenti.

Non fanno certo difetto i documenti del magistero che ribadiscono alcune verità dell'essere popolo di Dio. Le indicazioni sono allettanti - sulla carta - e attendono ancora, in molte comunità ecclesiali e particolarmente religiose, di essere prima conosciute e poi seguite. Ne richiamiamo il senso sintetico globale, ma rivelatore, cogliendolo da vari documenti:

- la comunicazione e il dialogo sono indispensabili per l'efficienza della vita della Chiesa;
- il dialogo e la comunione nella Chiesa richiedono particolare attenzione all'opinione pubblica dentro e fuori della comunità ecclesiale;
- se l'opinione pubblica venisse a mancare mancherebbe qualcosa alla natura della Chiesa;
- i cattolici debbono essere coscienti di avere quella libertà di parola e di espressione che si fonda sul senso della fede e della carità;  
- il libero dialogo non nuoce certamente alla saldezza e unità della Chiesa, anzi favorisce la concordia di intenti e di opere;
- si deve riconoscere - tenendo presente che l'opinione pubblica e il dialogo sono essenziali per la Chiesa - che i fedeli hanno il diritto di ottenere quelle le informazioni indispensabili per affrontare la loro responsabilità nell'ambito della vita ecclesiale.

Le linee generali per una bella e diffusa parresia sono - sulla carta, ripetiamo - tracciate. Attendono ancora, in molti ambiti della vita ecclesiale di essere applicate.

Al riparo della parola di Dio e incoraggiata dal magistero della Chiesa, la parresia dovrebbe dilagare nelle comunità religiose, anche perché tutte ci tengono a fregiarsi della qualifica di "famiglia".

DELLA "FAMIGLIA" RELIGIOSA

Ora nelle famiglie - quelle autentiche - si parla, si dialoga, si discute, magari ci si scontra e ci si arrabbia, ma sempre con l'obiettivo - dichiarato e riconosciuto - di cercare il bene di tutti.

Le parole di Cristo: «Sia il vostro parlare sì, sì, no, no» vogliono pure significare qualcosa: intendono richiamare alla veracità e alla sincerità del dialogo, proclamare che la relazione autentica con Dio e con gli uomini può fondarsi soltanto su una parola e un atteggiamento trasparenti e schietti. La prudenza (niente affatto cristiana) di certi comportamenti rivela il desiderio di non avere fastidi che rovinino la tranquillità esistenziale conquistata dopo anni di presenze defilate nei cantucci della comunità, quando non manifesta il sostanziale vuoto (colpevole perché cercato nel tempo) di proposte da presentare.

Le parole astratte, sfuggenti, prudenti non coinvolgono più di tanto il nostro essere, ci lasciano, psicologicamente e di fatto, ai margini dei problemi e degli interessi reali della comunità: sono chiacchiere che non dicono il significato profondo di quello che sentiamo e viviamo personalmente e che sogniamo per la nostra vita di consacrati. In questo caso nascondiamo sempre qualcosa di noi stessi e quindi ci rifiutiamo di donarci, con le nostre ricchezze e povertà, alla comunità.

Il rinnovamento tanto auspicato della vita consacrata passa anche, e in gran parte, attraverso il coinvolgimento coraggioso e responsabile - anche questo è parresia - di tutti i religiosi nei problemi in discussione. Restare ai margini svela il poco o il nessun interesse reale alla famiglia nella quale si vive e non costruisce una realtà condivisa perché discussa, partecipata, comunicata. La parresia dichiara che i religiosi sono dei credenti nella nobiltà dei figli di Dio e nella libertà interiore che Gesù ha portato. E la sua accettazione da parte di chi è proposto alla comunità esprime il riconoscimento della dignità del discepolo di Cristo e la volontà di condivisione, di revisione, di corresponsabilità. In una parola che il dialogo è l’unica via per edificare una comunità dove non vi siano ostracismi, relegazioni, livelli e gradi più o meno percettibili, ma fratelli, uniti dalla stessa missione di edificare, il meno peggio possibile, la comunità di Cristo.

(da Testimoni, 7, 2004)


Centralità della prospettiva ecumenica
nei documenti del concilio
di Lorenzo Cappelletti




Il Simposio annuale che il COP organizza assieme all'Istituto teologico leoniano è giunto alla sua VII edizione e dunque comincia ad assurgere ormai alla dignità di un appuntamento tradizionale in questo mese di gennaio. Il tema scelto quest'anno, «Parrocchia, comunità di vita ecumenica. Esperienze di ecumenismo in parrocchia», oltreché stimolante è, per molteplici ragioni, legato alla natura e al compito tanto del COP quanto dell'Istituto teologico.

Lascio ad altri autorevoli interventi di rappresentanti del COP, in primis quello di mons. Bonicelli per tanti anni suo presidente, di introdurre i lavori, situando nell'attualità pastorale tale tema. Per conto mio vorrei solo ricordare innanzitutto la centralità della prospettiva ecumenica nei documenti del concilio ecumenico Vaticano II. A cominciare dal discorso d'apertura della seconda sessione del concilio, il 29 settembre 1963, quando Paolo VI disse che, insieme a una più meditata definizione che la Chiesa doveva dare di sé e al suo rinnovamento, «terzo scopo che interessa questo concilio e ne costituisce, in un certo senso, il suo dramma spirituale è quello che riguarda gli altri cristiani, coloro, cioè, che credono in Cristo ma che noi - diceva il papa con la sua prosa accurata - non abbiamo la fortuna di annoverare con noi compaginati nella perfetta unità di Cristo».

D'altra parte, tanto in apertura che in chiusura dei lavori di quel concilio, Giovanni XXIII e Paolo VI ne affermavano all'unisono la natura tipicamente pastorale: «Si dovrà ricorrere a un modo di presentare le cose che più corrisponda al magistero, il cui carattere è preminentemente pastorale», diceva papa Giovanni l'11 ottobre 1962; gli facevano eco le parole di Paolo VI nella omelia di chiusura del 7 dicembre 1965, quando diceva che «il concilio aveva scelto la sollecitudine pastorale come nota specifica dei suoi lavori».

Se si uniscono le due prospettive, si vede che niente è più congruo al mandato del concilio di un simposio che metta a tema l'ecumenismo in chiave pastorale. E specificamente all'interno delle attività di una realtà impegnata nella pastorale come il COP e delle attività di un centro di studi come l'Istituto teologico leoniano. Si legge infatti in Unitatis redintegratio 5 che «la cura di ristabilire l'unione riguarda tutta la Chiesa, sia i fedeli che i pastori, e tocca a ognuno secondo le proprie capacità, tanto nella vita cristiana di ogni giorno quanto negli studi teologici e storici». E ancora al n. 10 che «l'insegnamento della sacra teologia e delle altre discipline specialmente storiche [questo, in quanto storico, mi riguarda anche più personalmente] deve essere fatto anche sotto l'aspetto ecumenico».

Altri documenti usciti recentemente fra cui il Direttorio per l'applicazione dei principi e delle norme sull'ecumenismo del 1993, a cura del Pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani, o l'enciclica Ut unum sint del 1995, sono venuti non solo a ribadire che «tutti i fedeli sono chiamati ad impegnarsi per realizzare una comunione crescente con gli altri cristiani» (Direttorio § 55), ma a dettagliare le modalità di tale impegno. Affermando che ambiti privilegiati della formazione ecumenica debbano essere la parrocchia (cf. § 67), gruppi, associazioni e movimenti ecclesiali (§ 69) e le Facoltà ecclesiastiche, tanto che, «nell'insegnamento e nella ricerca teologica non deve mai mancare la dimensione ecumenica» (§ 88). Ma è anche in ragione della sua origine da Leone XIII che l'Istituto teologico leoniano deve mantenere viva una particolare attenzione alla riunificazione dei cristiani, a cui il suo fondatore dedicò ben 6 encicliche, 7 lettere apostoliche, 14 allocuzioni e 5 discorsi. Scrive Bernard Stasiewski: «Con il pontificato di Leone XIII, che, oltre alla sua generosa politica di comprensione nel campo politico e sociale,intendeva perseguire una riconciliazione con gli anglicani e con le Chiese orientali autonome, cominciò una nuova fase dei rapporti fra Roma e la cristianità dell'Oriente».

Eppure quel papa proveniva da una terra che non aveva conosciuto per esperienza diretta i problemi e le opportunità legate alla compresenza di differenti confessioni cristiane.

Ora questa terra è diventata, come tutta l'Italia, luogo di immigrazione di uomini provenienti da tanti Paesi dell'Europa, dell' Asia, dell' Africa, parte dei quali appartenenti a comunità non in piena comunione o anche soltanto con usi diversi da quelli latini. E dunque il dramma spirituale del concilio (il concilio, ricordiamolo, non solo di Unitatis redintegratio ma anche di Gaudium et spes e di Dignitatis humanae) è diventato obiettivamente il dramma di ogni singolo cristiano anche delle nostre parrocchie. Ma con ciò è diventato più nostro un aspetto del disegno provvidenziale di Dio che magari fin qui risultava incomprensibile: il movimento degli uomini, popoli e nazioni rende presente il senso provvidenziale che tutto governa, come si legge nel discorso di Paolo all'Areopago: «Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l'ordine dei tempi e i confini del loro spazio perché cercassero Dio se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui, infatti, viviamo ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto "Perché di lui stirpe noi siamo"» (At 17,26-28).

Come già riconosceva al suo esordio Unitatis redintegratio è «il Signore dei secoli che con sapienza e pazienza persegue il disegno della sua grazia verso di noi peccatori» (n.1) l'autore primo di «questo movimento per l'unità chiamato ecumenico» (ivi). Non solo perché ha cominciato a effondere con maggiore abbondanza nei cristiani tra loro separati l'interiore ravvedimento e il desiderio dell'unione, ma forse anche attraverso proprio quel grande muoversi di uomini e popoli che caratterizza la nostra epoca.

(da Orientamenti pastorali, 4, 2005)

I libri della Bibbia
e gli "apocrifi"
di Gaetano Castello


 

Una qualunque edizione cattolica della Bibbia elenca settantatre libri, divisi nelle due grandi sezioni dell'Antico (quarantasei libri) e del Nuovo Testamento (ventisette libri). Anche la loro successione è costante. È tuttavia naturale, per la natura stessa della Bibbia, per il suo lungo processo di formazione durato oltre un millennio, che la sistemazione dei libri riconosciuti dalla Chiesa come "ispirati" sia avvenuta nel tempo. Può meravigliare sapere che il "canone", la lista completa dei libri biblici, fu fissato in maniera autorevole e definitiva solamente nel 1546, con i Decreta de Sacris Scripturis del Concilio di Trento. Prima di quel momento non mancava certamente il riferimento a liste ritenute ufficiali, ma la crisi determinata all'interno del mondo cristiano con la riforma protestante che rifiutò la canonicità di alcuni libri, impose con urgenza il problema di stabilire in maniera definitiva "semel pro semper", quali fossero i libri ritenuti "ispirati" dalla Chiesa.

Il canone della Scrittura

Con questo breve accenno al problema del canone biblico, risulta chiaro che anche per questo aspetto bisogna parlare della Bibbia in termini storici. È già accaduto quando si è accennato alla formazione della Bibbia ed alla sua natura divino-umana. E per questa sua caratteristica fondamentale che la Sacra Scrittura non può essere assimilata a una sorta di scritto preconfezionato da Dio e semplicemente consegnato nelle mani dell'uomo. La collaborazione tra Dio e l'uomo iniziò già prima che nascessero i testi sacri, quando chiamò Abramo, quando svelò a Giacobbe il destino suo e del suo popolo: continuò nell'impulso divino che mosse alcuni uomini a mettere per iscritto esperienze e parole che avrebbero continuato a rivelare nel tempo la volontà e la natura di Dio; proseguì nell'opera di discernimento a cui i credenti furono chiamati per accogliere le divine Scritture distinguendole da tanti scritti simili per forma ma non ispirati da Dio. Questo processo continua oggi con l'azione dello Spirito che accompagna la lettura e la comprensione delle sacre Scritture nella comunità dei credenti, e nel servizio di discernimento, affidato ai successori degli apostoli, sull'interpretazione autentica della Scrittura.

È in quest'ampio contesto, storico e di fede, che va affrontato anche il problema del canone, altrimenti incomprensibile. La Costituzione Dei Verbum del Concilio Vaticano II, al n. 8, afferma perciò che "la stessa tradizione (che trae origine dagli apostoli) fa conoscere alla Chiesa il canone integrale dei libri sacri".

A determinare la canonicità, il riconoscimento cioè che quei libri sono frutto dell'azione ispiratrice dello Spirito Santo, non fu un unico e determinato elemento, ma l'uso e l'accoglienza di essi nelle comunità cristiane vagliato dal discernimento attento di chi nellaChiesa continuò la missione degli apostoli.

Il canone ebraico

La definizione del canone biblico fu dunque graduale. Già molto tempo prima di Gesù Cristo, nel mondo ebraico venivano venerati come scritti sacri i rotoli della Torah, i primi cinque libri della Bibbia definiti dai cristiani, con termine greco, Pentateuco. La loro origine divina non fu messa in dubbio nemmeno nelle travagliate vicende storiche che portarono a conflitti e separazioni all'interno stesso dell' ebraismo. Così, per es., i samaritani, pur divisi ed in lotta con i giudei, conservarono e venerarono sempre, fino ad oggi, la Torah come parola di Dio. Anche per gli scritti profetici, che per gli ebrei comprendono i "profeti anteriori" (Giosuè, Giudici, 1 e 2 Samuele e 1 e 2 Re) ed i "profeti posteriori" (Isaia, Geremia, Ezechiele, e i dodici profeti minori) vi sono testimonianze molto antiche circa il loro uso liturgico ed il riconoscimento della loro ispirazione.

Ne dà testimonianza, in particolare, il prologo del Siracide che parla, già alla sua epoca (II sec. a.C.), di Torah, Profeti e Scritti. Proprio la terza categoria fu quella più fluttuante. Comprendeva infatti libri di diverso genere, dai salmi ai libri sapienziali, a libri di tipo storico. Dall'altra parte vi sono testimonianze antiche circa l'uso di libri che poi non entreranno nel canone ebraico né in quello cristiano. Ciò non deve meravigliare. La definizione del canone avvenne, come si è detto, non per un principio unico prestabilito, ma per la graduale, comune presa di coscienza che alcuni di quei libri presentavano autenticamente la parola di Dio a differenza di altri che pure utili, consigliabili per la consultazione e per l'edificazione, non esprimevano autenticamente la parola di Dio.

Gesù e i suoi discepoli condivisero, all' inizio dell' era cristiana, quest'uso spontaneo delle scritture sacre dei giudei, il cui primo posto era senza dubbio assegnato alla Torah. La liturgia sinagogale, come riferiscono gli stessi Vangeli, sin da allora prevedeva la lettura di pagine dei profeti, come Gesù stesso ebbe modo di fare (cf Lc 4,16-19). Tuttavia ancora a quell'epoca non si può parlare di un "canone" ebraico, di qualcosa che corrisponda alla nostra idea di una lista ben fissata e definita di tutti i libri ispirati. Il bisogno di una definizione dovette farsi sentire soprattutto nel conflitto crescente tra sinagoga e Chiesa. Il fatto che i cristiani si ritenessero gli eredi legittimi delle scritture di Israele portò, tra le prime conseguenze, al rifiuto ebraico della traduzione greca della Bibbia detta dei Settanta (in sigla L XX). Il largo uso che i cristiani fecero delle scritture ebraiche nella loro versione greca, portò i giudei a sostituire quella traduzione, nata per i tanti giudei sparsi nell'area mediterranea e che comprendevano ormai solamente il greco, con nuove versioni greche comparse nel secondo secolo dopo Cristo (Aquila, Simmaco, Teodozione).

È dunque in questo contesto di tipo polemico, soprattutto a difesa della propria identità, che si andò a mano a mano precisando quali fossero i libri sacri per il mondo giudaico. Il processo di definizione fu sollecitato anche dal grande disastro determinato dai Romani che nel 70 d.C. ad opera di Tito distrussero il Tempio di Gerusalemme, deportarono molti giudei, annientando dal punto di vista organizzativo, politico, militare, religioso, quello che era sino ad allora il mondo giudaico. Dopo una simile catastrofe è indubbio che fosse avvertito con urgenza il problema di una ricostituzione, del recupero della propria identità nazionale e religiosa che dovette passare, tra l'altro, attraverso la distinzione da quel gruppo di giudei che avevano riconosciuto in Gesù il Messia atteso e che utilizzavano gli scritti sacri dell'ebraismo.

Gli ebrei esclusero così alcuni libri di cui non si conosceva l'originale ebraico o che furono addirittura composti in greco. Si tratta dei cosiddetti deuterocanonici: Tobia, Giuditta, i due libri dei Maccabei, Baruk ed epistola di Geremia ( = Bar 6), Siracide, Sapienza, con le sezioni di Daniele ed Ester scritte in greco (Dn 13-14; Est 10,4-16,24). È per questo che la Bibbia ebraica presenta sette libri in meno rispetto all'AT dei cattolici. Al canone ebraico si uniformeranno più tardi i riformatori protestanti che definiranno "apocrifi" i libri deuterocanonici sopra elencati, escludendoli dalle loro Bibbie.

Come si diceva, la Chiesa primitiva condivise la comune fede ebraica nell'autorità dei libri ritenuti sacri. Vi sono testimonianze, anche presso alcuni antichi autori cristiani, circa l'uso di libri che non entreranno a far parte del canone biblico, né di quello ebraico né di quello cristiano; il caso più evidente è quello della lettera di Giuda che al v. 14 cita il libro di Enoch, uno scritto giudaico che non entrerà nel canone ebraico né in quello cristiano. Segno evidente che l'estensione del canone dell'AT andrà chiarendosi solo gradualmente.

Il canone del NT

Sempre in questa chiave storico-religiosa, va individuata l'origine del canone del Nuovo Testamento. Anche per le comunità cristiane delle origini abbiamo testimonianze di un uso antichissimo e costante di alcuni libri ritenuti universalmente come ispirati (è il caso dei Vangeli, delle lettere di Paolo), ed un uso diversificato di altri libri, ritenuti sacri ed utilizzati in alcune comunità e non in altre.

È il caso della lettera agli Ebrei, quella di Giacomo, la seconda lettera di Pietro, la seconda e la terza di Giovanni, quella di Giuda e l'Apocalisse.

Al contrario, vi furono testi utilizzati da alcune comunità che saranno abbandonati e non riconosciuti, alla fine, come testi ispirati. Anche per il NT non esistette un unico criterio per decidere della canonicità, benché l'origine apostolica (reale o apparente) e la conformità degli scritti alla fede apostolica dovettero essere elementi importanti nel discernimento.

La formazione del canone dipese, insomma, dalla coscienza dell'ispirazione. Nella misura in cui ebraismo cristianesimo si andarono organizzando e uniformarono gli usi nelle diverse comunità, sorse il problema di elencare con precisione i libri da proporre alla comunità dei credenti come "parola di Dio". Testimonianze di questa esigenza risalgono a tempi molto antichi. È il caso della lista contenuta nel famoso "Frammento muratoriano", del II secolo d.C.; della lista di Origene (III sec.) o di quella di Eusebio (IV sec.). Tuttavia solo alla fine del IV sec., con le liste di Atanasio e di Agostino, e soprattutto con quelle dei Concili di Ippona (393) e di Cartagine (397 e 419) si avrà la lista lunga valida nell'Occidente cristiano. Si tratta del canone che sarà poi ripreso dal Concilio di Firenze (1441).

Nessuno dei Concili citati aveva tuttavia affrontato il problema in maniera esplicitamente definitiva, quasi non avvertendone il bisogno, che invece si presentò come urgenza quando i riformatori esclusero dal canone i libri deuterocanonici. Essi designarono, tali libri con il nome di "apocrifi", riservato dai cattolici a quei testi che pur trattando di argomenti simili ai libri biblici, ed in forma simile, furono esclusi dal canone delle Scritture Sacre perché non riconosciuti come libri "ispirati".

Questi libri conservano naturalmente un interesse del tipo storico e culturale sempre meglio apprezzato, nella misura in cui si distingue anche per essi il genere letterario, le circostanze e le finalità per le quali vennero scritti. In relazione all’ AT è il caso di quella vasta produzione letteraria che si sviluppò nell’ambito della cosiddetta "apocalittica giudaica", tra il II sec. a.C. ed il I d.C.

Un caso particolarmente interessante per i cristiani è quello dei cosiddetti Vange li apocrifi da cui derivano addirittura notizie mantenute nell'ambito della tradizione cristiana (come per es., le notizie sull'infanzia e sui genitori di Maria, Gioachino è d Anna, dei quali si ha notizia nel Protoevangelo di Giacomo, del 200 d.C., ca.).

Sempre relativamente ai vangeli apocrifi non è difficile notare come si differenzino notevolmente dai Vangeli canonici. Mentre questi ultimi conservano una certa sobrietà nel raccontare le vicende di Gesù di Nazaret, finalizzata alla testimonianza di fede, vero scopodegli scritti evangelici (cf Gv 20,30-31), gli apocrifi abbondano di tratti descrittivi che hanno a che fare con la ricerca del prodigioso.

Ne sono testimonianza alcune storie di cui ritroviamo l'eco in racconti tramandati soprattutto ai bambini sull'infanzia di Gesù, o alcune rappresentazioni della passione di Gesù (per es. il Vangelo di Nicodemo) con evidenti tendenze pro-romane, in cui Pilato, rappresentante del vittorioso mondo di Roma, appare quasi come un eroe del cristianesimo, vinto dalla protervia giudaica. Altri scritti apocrifi, come il Vangelo di Tommaso, il Vangelo di Filippo ecc., ebbero una più chiara origine di elaborazione gnosticheggiante del messaggio cristiano. Proprio l’uso di alcuni di questi scritti da parte di gruppi eterodossi fu uno degli elementi che ne determinarono l'esclusione dal canone.

Oggi nel mondo protestante le Bibbie presentano l'AT nella forma ridotta dei primi riformatori. Come nei primi tempi della Riforma, tuttavia, i sette libri deuterocanonici vengono spesso raccolti in appendice all'AT chiarendo che essi sono esclusi dal canone ebraico. Non si presentano invece differenze per quanto riguarda il canone del NT.

Proprio la questione del canone biblico, uno dei motivi originari della rottura tra cattolici e protestanti, si presenta oggi come un campo fecondo di riflessione e di la dialogo ecumenico.

(da Parole di vita)

Giovedì, 07 Luglio 2005 01:33

Il fuoco sacro della pace (Marcelo Barros)

Il fuoco sacro della pace

di Marcelo Barros




Accesa da uno sciamano brasiliano quando cessano le piogge, o divampata in un braciere davanti al portale di una chiesa durante la veglia di pasqua, la fiamma dell'amore e della pace attende di essere appiccata ovunque. Per bruciare il vecchio e fare spazio al nuovo.

Nella parte centro-occidentale del Brasile, quando il tempo cambia, le piogge cessano e i venti d’autunno soffiano sulla folta foresta, in qualche luogo segreto della montagna qualcuno accende il fuoco sacro della pace. Si tratta di un antico rito indio, rivissuto da persone che si rifanno alla saggezza degli antichi maestri. Prima di accendere il fuoco, chi vuole ricevere l'energia degli antichi sciamani trascorre un intero giorno in meditazione e digiuno. La fiamma, attivata con pochi arbusti e una manciata di erba secca, divampa rapidamente, alimentandosi del legno degli alberi abbattuti dalle tempeste. Questo "sacrificio" del vecchio consentirà ai nuovi arbusti di germogliare e di crescere, preannunci di una pace totale che invaderà il mondo intero.

La notte del sabato 26 marzo scorso (o alle prime ore di domenica 27), due giorni dopo la prima luna piena della nuova stagione, tutte le comunità cattoliche del mondo si sono riunite nella Veglia pasquale ("la festa delle feste", "la madre di tutte le vigilie") per celebrare il centro della loro fede: la risurrezione di Gesù dalla morte e il dono a tutti della vita senza fine. Una liturgia suggestiva, ricca di simboli e gesti che coincidono con il mistero. Emozionante il momento del "lucernario", con l'accensione e la benedizione del fuoco nuovo, che la tradizione vorrebbe avviato da scintille sprigionate da due pietre focaie. Anche qui, il mistero è il significato del segno: questo fuoco è la somma espressione del trionfo della luce sulle tenebre, del calore sul freddo, della vita sulla morte; è l'inizio della nuova creazione; è il simbolo del rinnovamento, della purificazione, della trasformazione, del calore e della gioia. Giustamente, i cristiani collegano questo fuoco con il Cristo che esce vivo dalla pietra del sepolcro: luce per illuminare il mondo, amore per riscaldarlo, pace (shalom) per renderlo sempre più simile al Regno di Dio.

Sulla montagna brasiliana, lo sciamano chiede allo Spirito che il fuoco che egli ha acceso in quel piccolissimo punto del mondo si unisca a tutte le fiamme di amore e di pace che ardono in tutti gli angoli della terra, per indicare il senso di ogni sincera ricerca umana. E lo Spirito sussurra ai quattro venti che la persona è là dove c'è il suo cuore; che la fiamma intima che illumina il cuore non può essere attivata da nessuna pietra focaia percossa in questo o quel determinato rito; che la pace interiore si raggiunge solo attraverso il perseverante e arduo sforzo che ciascuno di noi è chiamato a compiere, per domare la fiera che è dentro di noi e per insegnare al cuore il linguaggio segreto dell’amore.

Cristo esclamò: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!» (Luca 12:49). Il "fuoco" è interpretato come lo Spirito Santo purificatore, oppure la carità, l'amore. Dovremmo tutti lasciarci incendiare da questo fuoco-amore. E non sto parlando soltanto dell'amore interpersonale, ma anche di quell'amore che si fa scienza, arte della politica, per trasformare la società. Solo assumendo la solidarietà, non come atteggiamento di circostanza, ma come principio strutturante di tutta la vita, sapremo interiorizzare i bisogni degli altri come parte essenziale di noi stessi e sperimentare in famiglia, nel mondo del lavoro, per le strade... un nuovo mondo possibile.

Solo se resi "folli" da questo fuoco, sapremo unirci e sostenerci a vicenda nel difficile compito di bruciare le nostre bramosie consumistiche e le nostre spasmodiche ambizioni. Solo se animati da questo amore, sapremo riscaldare la vita contro il freddo mortale dell'indifferenza. Uno aiuterà l'altro a incenerire le palizzate che ci siamo costruite dentro di noi e ad abbattere i muri di separazione che abbiamo edificato attorno a noi, nell'insensato tentativo di proteggerci dalle nostre stesse maschere e di rifuggire dalla responsabilità di essere liberi. Poi, attraverso il dialogo e la reciproca attenzione, potremo edificare - mattone su mattone, cementati da sangue, sudore e lacrime - l'unità interiore di ogni essere umano. Esperimenteremo le doglie di un lungo parto, ma anche la gioia della nascita di un nuovo mondo.

Il fuoco sacro della pace acceso dallo sciamano e il fuoco nuovo della Pasqua cristiana sono un invito rivolto a tutti a riorganizzare radicalmente la propria vita, fondandola sulla condivisione, non sulla competizione; sulla gioia del convivio, non sull'ansia di dominare l'altro.

Il cero pasquale acceso in ogni chiesa e le fiamme ardenti nei luoghi di culto dei vari gruppi umani ci diano davvero la luce necessaria per vedere sul volto di ogni essere umano la sua dimensione sacra. E lo Spirito di Dio, che è la sorgente di ogni amore, ci incendi della sua vampa e ci inondi della sua compassione, così da poter scorgere la sua presenza in ogni goccia di pioggia (come la scorge lo sciamano), nella delicatezza del fiore (come la vede il poeta), in un bacio e in un abbraccio (come l'avvertono due innamorati). Solo così divamperà la fiamma della pace, unica energia in grado di rinnovare l'universo.

(da Nigrizia,aprile 2005)

Parecchi moralisti provano ancor oggi delle difficoltà a vedere nel Cristo la condizione di possibilità di una morale per tutti. A fianco di autori reticenti o anche esitanti, ci sono quelli che dichiarano chiaramente che la messa in atto di una morale centrata sulla persona del Cristo sia di ostacolo alla concezione di una morale valevole per tutti.

Spiritualità Marista 

di Padre Franco Gioannetti


 



Sono anche necessari approfondimento e riflessione su come P. Colin, contro la tendenza dell’epoca, ci presenta Maria.

Per Lui è una “figura ecclesiotipica” un’intuizione dunque precorritrice che ben si accorda con l’attuale riflessione mariologica che osiamo sintetizzare così:

“Maria e la Chiesa: un cosa sola”.

In proposito, i visitatori che vogliono approfondire questo tema, possono visiater la rubrica “spiritualità mariologica” sul portale “Noi Cattolici” (http://www.noicattolici.it) curato dallo stesso autore di queste note.

E' dunque su Maria e sulla Chiesa nascente che si innesta il Carisma marista che possiamo così esplicitare:

“Essere icona di Maria – Essere icona della Chiesa”.

Un carisma, a mio avviso affascinante, che ha bisogno di essere approfondito e calato nella realtà dell’oggi, nella vita apostolica e nel servizio ecclesiale e di tutti e tutte coloro che in qualche modo si rifanno alle intuizioni del P. Colin.

Ovviamente l’intuizione Coliniana è esistenziale ed ha bisogno di percorsi formativi che debbono tuttavia essere studiati, ovviamente proposti, offrendo poi anche degli accompagnamenti.

ZOHAR
(IL LIBRO DELLO SPLENDORE)

(Passi scelti)

LE SFERE CELESTI (SEPHIROTH)

 

(I - 246b)

"Simile ad una cerva veloce è Naftalì, che pronuncia discorsi eloquenti" (Gen. XLIX, 21); così è scritto: "il Tuo parlare è grazioso" (Cant. IV, 3).

In effetti è la voce che guida il discorso e non c e voce senza discorso. Quella voce è emessa da un luogo profondo in alto ed è inviata dinanzi al discorso, per guidarlo, perché non c'è voce senza discorso, né discorso senza voce, come un'espressione generale ed una particolare, che servendosi reciprocamente di spiegazione, vengono a determinare la regola. Questa voce esce da sud e va a guidare l'occidente, prendendo così possesso di due settori, secondo quanto è scritto: "Per Naftalì disse: Naftalì gode il favore ed è pieno della benedizione di Dio, possiede i territori a occidente ed a mezzogiorno"(Deut. XXXIII, 23). In alto è maschile, in basso è femminile. Infatti è scritto in Gen. XLIX, 21: "Naftalì è simile a una cerva veloce" al femminile, quindi è femminile in basso. Ma più avanti nello stesso verso è scritto: "egli che pronuncia discorsi eloquenti": "egli che pronuncia" è scritto al maschile, non "essa che pronuncia", quindi è maschile in alto.

Vieni e considera. Il pensiero abissale (machshabà) è il principio di tutto. Per il fatto che è pensiero, si trova all'interno, segreto e non palese. Spingendosi oltre il pensiero giunge laddove si trova il respiro (ruach); e quando giunge in quel luogo prende il nome di parola interna (binà) e pur non essendo segreta come il pensiero precedente, è in qualche misura segreta e non udibile. Il respiro (ruach) si diffonde e produce la voce percepibile formata di fuoco, acqua e respiro e sono anche nord, sud ed oriente. La voce comprende tutte le altre facoltà. La voce guida il discorso, che esprime la parola nella sua articolazione; infatti la voce è emessa dal luogo del respiro (ruach) e viene a guidare la parola, sicché le parole siano pronunciate giustamente.

Se tu poi porgerai mente alle sephiroth, vedrai che il pensiero abissale, la parola interna, la voce percepibile ed il discorso sono la stessa cosa. Tutto è uno. Il pensiero è il principio di tutto e non c e separazione, ma tutto è uno ed il legame è uno. Questo è il pensiero reale legato al "nulla" (ayn), che non ha separazione in eterno, come è scritto: "Il Signore è uno, ed il Suo nome è uno" (Zacc. XIV, 9).

(I - 74 a)

Disse Rabbi Shim'on bar Yochai: Come sono care le parole della Torà! Beato chi si occupa di esse e sa procedere per la via della verità! "E la casa nel suo essere costruita..." (1Re VI, 7). Quando fu intenzione del Santo, che benedetto egli sia, di conferire gloria alla propria gloria, nel suo pensiero sorse la volontà di diffondersi. Il pensiero quindi si diffuse dal luogo dove era pensiero abissale, segreto, non rivelato, fino a stabilirsi nella sede della gola, il luogo che fluisce sempre nel segreto dello spirito vivente. Allora, quando il pensiero si diffonde e si stabilisce in questo luogo, prende il nome di Dio vivente, così come è scritto: "egli è il Dio vivente" (Gen. X, 10). Volendo ancora diffondersi e manifestarsi, da lui scaturiscono il fuoco, il respiro e l'acqua e ne esce inoltre Giacobbe, uomo integro, cioè la voce che è emessa ed è percepibile. Di qui, il pensiero, che era nascosto, segreto, si fa chiaramente percepibile. Si diffonde ulteriormente il pensiero per manifestarsi di più e così la voce percepibile batte alle labbra. Allora ne fluisce il discorso che tutto perfeziona e tutto rende manifesto. Ciò vuol dire che tutte le sephiroth sono il pensiero segreto, che ne è all'interno, e tutto è uno. Dato che quella diffusione del pensiero è giunta a realizzarsi come discorso articolato, grazie alla voce percepibile, per questo è scritto: "la casa nel suo essere costruita" (1Re VI, 7). Non è infatti scritto: "quando fu costruita", ma "nel suo essere costruita". Di volta in volta.

(Zohar chadash - 43b - Tiqquné Zohar)

L'anima (neshamà) si trova nella sephirà dell'intelligenza (binà) e su di essa aleggia il pensiero che non ha fine. La sfera dell'intelligenza non ha immagine, né figura, né somiglianza, perché costituisce il mondo futuro. E questo non ha né corpo, né immagine, come hanno insegnato i dottori della Mishnà: il mondo futuro non ha né corpo, né corporeità (Talmud: Berakhot 17a). L'anima si veste nel trono, che è l'uomo, e nei suoi quattro angoli. A proposito della sfera dell'intelligenza è detto: "Dato che non avete visto alcuna immagine" (Deut. IV, 15), ed ancora: "Mai occhio vide un Dio all'infuori di te" (Is. LXIV, 3). Grazie al pensiero divino i profeti si figuravano tutte le immagini e le raffigurazioni al di sotto di quella, mentre al di sopra di quella non raggiungevano alcuna immagine. Se già in esse non potevano afferrare alcuna raffigurazione e neppure una pallida sfumatura, tanto più al di sopra di quella.

(II - 164b - 165a)

Rabbi Chiyà iniziò a dire: "Tu ti ammanti di luce, come se fosse un drappo, stendi i cieli come una cortina" (Sal. CIV, 2). La spiegazione di questo verso è la seguente: quando il Santo, che benedetto egli sia, creò il mondo, si ammantò della luce primitiva e con essa creò il cielo. Considera dunque. La luce e l'oscurità non stavano insieme, ma la luce era a destra e l'oscurità a sinistra. Cosa fece il Santo, che benedetto egli sia? Mescolò insieme questi due elementi e creò il cielo. Cos'è dunque il cielo? E il fuoco e l'acqua, mescolati insieme, sicché la pace sia stabilita tra loro. Quando furono insieme, Dio li distese come una cortina, formando con essi la lettera WAW, che è chiamata quindi "cortina". Il verso di Es. XXVI, 1 parla di "cortina", perché da quella lettera si diffuse la luce che formò le cortine, così come è scritto: "Farai il Tabernacolo composto di dieci cortine" (Es. XXVI, 1). Inoltre vennero distesi sette firmamenti, nascosti nel nascondiglio eccelso, come hanno spiegato, ed un firmamento al di sopra di essi. Questo firmamento non e raffigurabile, non è collocato in un luogo manifesto, né si può immaginare con il pensiero. E nascosto ed illumina tutti gli altri, guidando i loro tragitti; ognuno secondo quanto gli è proprio. Non c'è chi sappia o veda oltre questo firmamento e l'uomo deve chiudere la bocca alla parola ed astenersi dall'indagare con il pensiero. Chi provi ad indagare procede a ritroso, perché non c'è chi possa sapere.

Le dieci cortine sono i dieci firmamenti. Questi costituiscono le cortine del Tabernacolo che sono dieci e si lasciano conoscere dai sapienti . Chi li conosce medita sulla grande sapienza e sui misteri del mondo e risale nella meditazione oltre quello stadio raggiungibile da parte di ognuno. Non può tuttavia arrivare a quei due firmamenti che si trovano a destra ed a sinistra della presenza divina (Shekhinà) e con essa sono celati.

(I - 35a)

Rabbi Abbà disse: Perché è scritto: "l'albero della vita in mezzo al giardino e l'albero della conoscenza del bene e del male" (Gen. II, 9)? Sappiamo già che l'albero della vita ha cinquecento anni e che tutte le acque della creazione si dipartono da sotto di esso. L'albero della vita si trova proprio in mezzo al giardino e raccoglie tutte le acque della creazione, che poi si dividono da sotto di esso. Infatti il fiume, che di là scorre e scaturisce, benefica tutto il giardino entrandovi. Indi le acque si dividono, prendendo diverse direzioni. Il giardino raccoglie tutte le acque, che successivamente ne escono, dividendosi in basso in diversi rivoli secondo quanto è detto: "essi dissetano tutti gli animali della campagna" (Sal. CIV, 11). Le acque escono dal mondo superiore ed abbeverano le alte montagne del puro balsamo; così come, successivamente, quando giungono all'albero della vita, si dividono da sotto di esso verso ogni direzione secondo il proprio corso.

"E l'albero della conoscenza del bene e del male", perché è chiamato così? Invero questo albero non si trova in mezzo al giardino. E poi "la conoscenza del bene e del male" cosa significa? Dato che esso assorbe l'acqua da due parti e le sa distinguere, come chi sugge il dolce e l'amaro, essendo immerso in esse, viene chiamato albero della conoscenza del bene e del male. Tutte le piante del giardino si appoggiano ad esso e vi si abbarbicano anche altre piante, superiori, che vengono chiamate "cedri del Libano", secondo quanto è scritto: "Si saziano gli alberi del Signore, i cedri del Libano che egli ha piantato" (SaI. CIV, 16). Chi sono i cedri del Libano? Sono i sei giorni superiori, i sei giorni della creazione.

(I - 186a)

Rabbi Yehudà iniziò a dire: "Il Signore tuonò in cielo e l'Eccelso fece sentire la sua voce per mezzo di grandine e carboni infuocati" (Sal. XVIII, 14). Considera dunque. Quando il Santo, che benedetto egli sia, creò il mondo, stabili sette colonne sulle quali esso poggiasse. Queste colonne poi, a loro volta, poggiano su una sola colonna, secondo quanto hanno spiegato in base al verso: "la sapienza ha edificato la sua casa, ne ha intagliato le sette colonne" (Prov. IX, 1): e queste poggiano su un'unica base, che è chiamata: "il giusto è un pilastro eterno" (Prov. X, 25). Il mondo è stato creato da questo luogo, che ne costituisce la perfezione ed il fondamento, ed, essendo un punto del mondo, è il centro di tutto. E quale è questo luogo? È Sion, secondo quanto è scritto: "Salmo di Asaf, Dio, il Signore Iddio parla e convoca tutta la terra da dove spunta il sole fin dove tramonta" (Sal. L, 1); dunque da quale luogo? da Sion, secondo quanto è scritto: "Da Sion, il luogo della bellezza più perfetta, è apparso Dio" (Sal. L, 2); da quel luogo che costituisce la perfezione della fede perfetta. Sion è la forza ed il centro di tutto il mondo. Da questo luogo il mondo si perfeziona e si realizza, e dal suo interno trae alimento.

(III - 74a)

Rabbi Chiyà iniziò a dire: "Come il melo tra gli alberi del bosco così è il mio amico tra i giovani"(Cant. II, 3). Questo verso lo interpretino i discepoli. Come è cara la comunità di Israele al Santo, che benedetto egli sia, che la loda con tale espressione. In questo caso c'è da approfondire i motivi per cui egli la loda con l'appellativo di "melo" e non con quello indicante un'altra cosa, differente per colore, per odore o per sapore. Come il melo è di guarigione per tutto, così il Santo, che benedetto egli sia, è di guarigione per tutto. Come il melo si trova tra i colori, così il Santo, che benedetto egli sia, si trova tra i colori superiori. Come il melo ha un profumo più sottile di tutti gli altri alberi, così del Santo, che benedetto egli sia, è scritto: "Il suo profumo è come quello del Libano" (Is. XIV, 7). Come il melo è dolce di sapore, così del Santo, che benedetto egli sia, è scritto: "Il suo parlato è dolcissimo" (Cant. V, 16). Ed il Santo, che benedetto egli sia, ha inoltre paragonato la comunità di Israele ad una rosa , secondo quanto è scritto: "Come rosa tra le spine, così è la mia amica tra le fanciulle" (Cant. II, 2). Rabbi Yehudà disse: Quando i giusti del mondo sono numerosi, la comunità di Israele emana un buon profumo ed è benedetta dal Santo re, mentre la sua faccia si illumina. Quando invece sono numerosi i malvagi del mondo. è come se la comunità di Israele non emettesse buoni profumi e provasse invece l'amaro sapore del male. In quel caso è scritto: "Egli gettò giù dal cielo a terra la gloria di Israele" (Eccl. II, 1), e la sua faccia si oscurò.

(II - 146a - 146b)

È scritto: "Che egli mi baci con i baci della sua bocca" (Cant. I, 2). Perché mai re Salomone, ha voluto introdurre espressioni di amore tra il mondo superiore e quello inferiore, ed ha usato, iniziando la lode all'amore tra di loro, il termine: "Che egli mi baci"? Invero si è già spiegato, e così è in realtà, che non esiste amore tra due spiriti che aderiscono l'uno all'altro, se non nel bacio. Ed il bacio si dà con la bocca, che è la sorgente dello spirito ed il luogo da cui esso esce. Quando si baciano l'uno con l'altro, gli spiriti aderiscono questi a quelli e divengono una sola cosa. Allora l'amore è uno. Nel Siphrà de-Rab Hamnunà, un saggio vegliardo diceva a proposito di questo verso: Il bacio d'amore si diffonde ai quattro venti e i quattro venti si uniscono insieme e si trovano nel mistero della divinità. Poi si innalzano, emergendo in quattro lettere, che sono quelle da cui dipende il santo nome ed inoltre i mondi superiori e quelli inferiori, ed infine la lode che è nel Cantico dei Cantici. E quali sono queste lettere? AHBH (amore). Esse costituiscono il carro eccelso e sono l'unione, l'adesione e la perfezione di tutto. Queste lettere sono i quattro venti e costituiscono gli spiriti dell'amore e della gioia, cui aderiscono tutte le membra del corpo, senza avere affatto mestizia. I quattro spiriti sono nel bacio, ed ognuno di essi è compreso nell'altro. Quando poi uno spirito è compreso nell'altro e l'altro nel primo, divengono infine due spiriti che poi si uniscono. Allora i quattro spiriti sono uniti insieme in una perfetta adesione; scaturiscono l'uno dall'altro e sono compresi l'uno nell'altro. Quando essi si diffondono, vengono a formare di quattro spiriti un unico frutto, cioè un solo spirito che è formato dai quattro spiriti. Questo si innalza, aprendosi un varco attraverso i firmamenti, finché, risalendo, si colloca presso un palazzo che è chiamato palazzo dell'amore. Da questo luogo dipende ogni amore ed anche quello stesso spirito è chiamato così: amore. E quando lo spirito risale, sollecita quel palazzo ad aderire all'alto.

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