Religioso Marista
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La liturgia come azione comune di Cristo e della chiesa si realizza anche nel quotidiano servizio di preghiera della Chiesa, la liturgia delle ore.
Dio prende l'iniziativa di far uscire - esodo - Abramo dal suo passato - terra, patria, casa - gli promette un nuovo futuro: terra, discendenza e benedizione estesa a tutti i popoli.
I Salmi come libro:
introduzione a una lettura continua del Salterio
di Tiziano Lorenzin
Il libro più usato della Bibbia è il Salterio. Fino a prima del concilio vaticano II ogni sacerdote e membro di un ordine monastico aveva l'obbligo di recitarlo integralmente ogni settimana. Eppure forse è il libro più difficile della sacra Scrittura. Proprio la moderna ricerca sui generi letterari, che ha molto contribuito alla comprensione dei salmi, ce li ha resi ancora più estranei. Gli studi di due grandi esegeti del secolo scorso, H. Gunkel (1862-1932) e S. Mowinckel (1884-1965), hanno permesso di stabilire la provenienza liturgica di molti salmi; ma era un altro culto, non il nostro.
E la classificazione dei salmi secondo il tipo (lamentazione, supplica, inno, salmo di ringraziamento, salmo sapienziale) ha rischiato spesso di mettere su uno stesso calderone tante preghiere, facendone perdere i colori originali. Gli studiosi erano più interessati al momento primitivo della produzione del testo e a ciò che lo rendeva simile ad altri testi sorti nella stessa situazione liturgica; molto meno al testo che abbiamo noi oggi, spesso considerato frutto di rimaneggiamenti peggiorativi.
Agli inizi degli anni Ottanta con i commentari di G. Ravasi e di L. Alonso Schokel si incominciò a tenere più in considerazione l'originalità poetica e teologica del singolo salmo. Il libro dei Salmi, tuttavia, era ancora considerato come un'antologia di poesie, una specie di archivio di testi senza alcun ordine oppure un cesto stupendo di frutti, salutari e nutrienti, da gustarsi però singolarmente. E questo tipo di considerazione sembra abbia influenzato anche il modo in cui sono distribuiti i salmi nell'attuale Liturgia delle Ore: salmi di supplica e di lode al mattino, di supplica e di rendimento di grazie la sera, salmi della torà nell' ora media.
Tuttavia, già nel 1972 in Italia si era levata una voce controcorrente, quella di D. Barsotti. Egli scriveva:
Per vivere i salmi come nostra preghiera s'impone prima di tutto che noi consideriamo il Salterio nella sua unità. [ ...] La prima cosa che s' impone per chi vuole affrontare il libro dei salmi, è rendersi conto che il Signore ha voluto che si presentasse a noi questo libro in una certa sua unità, che ci sfugge molto spesso, ma dà a noi la chiave migliore per l'interpretazione religiosa del Salterio.
Barsotti confessa candidamente di aver capito ben poco dei salmi, finche nell'introduzione al Salterio di Chouraqui non trovò questa proposta di una lettura unitaria e progressiva del libro dei Salmi.
È evidente che, se l'ordine dei salmi nel Salterio non è puramente casuale, ma è stabilito da un'intenzione precisa, allora è possibile che nei nostri studi abbiamo perso qualcosa. Da più di una decina d'anni cresce sempre più il numero di esegeti convinti che «il più antico commento al senso dei salmi è la maniera stessa del loro arrangiamento nel Salterio» (M.D. Goulder). Si prende, cioè, sempre più in considerazione il titolo tradizionale, che si ritrova già a Qumran nella seconda metà del sec. I a.C.: sefer tehillîm, «libro dei salmi», ma anche nel Nuovo Testamento (biblos psalmõn: Lc 20,42; At 1,20). Il libro, con tutti i suoi elementi canonici, è così un orizzonte verso il quale guarda oggi l'interprete, con la convinzione che nell'assemblaggio finale ciascun salmo è divenuto l' elemento di un tutto, da cui esso riceve senso e a cui pure dona senso.
Il Salterio: il «libro dei canti» del secondo tempio?
Davanti al Salterio ci si potrebbe perciò domandare se noi abbiamo veramente in mano il «libro dei canti» in uso nelle liturgie del secondo tempio di Gerusalemme, come pensava la maggioranza degli esegeti del secolo scorso dopo Mowinckel. L'uso dei salmi al tempo di Gesù e nel cristianesimo primitivo sembra invece affermare il contrario. Sembra certo, infatti, che il Salterio in quel tempo non avesse alcun grosso ruolo liturgico. Alcuni salmi erano adoperati nel tempio all' infuori delle grandi cerimonie: questo è tutto. E il Salterio non era neppure il «libro dei canti» della sinagoga. Anche quei pochi salmi che un tempo erano usati nel tempio non furono accettati subito dalla sinagoga (G. Stemberger).
Tuttavia, il Salterio a Qumran, negli scritti del Nuovo Testamento e nelle testimonianze del giudaismo ellenistico, era il libro dell' Antico Testamento più conosciuto e più usato, più amato e più citato (N. Flueglister). La spiegazione più probabile potrebbe essere che il rotolo dei salmi fosse diventato quella torà che i fedeli del Signore - i poveri che non potevano entrare in possesso del grande rotolo del Pentateuco - meditavano «giorno e notte» come si dice nelle prime righe del Salterio (Sal 1,2). L'ambiente dove i salmi veni- vano recitati e cantati sembra essere stato piuttosto le haburot, fraternità di vita dei rabbini e dei loro scolari, e soprattutto la famiglia. Questo appare dal testo di 4 Maccabei, sorto nel I sec. d.C., dove i sette fratelli così dicono al loro padre:
Quando egli era ancora presso di noi si preoccupava di insegnare la legge e i profeti... Egli cantava anche gli inni di Davide, che dice: «Molte sono le tribolazioni del giusto (Sal 34,20), (4Mac 18,10.15).
Il Salterio torà di Davide
Il libro dei Salmi, forse già dal tempo della redazione di Lc 24,44 ( «Bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mose, nei Profeti e nei Salmi» ), stava al vertice della terza parte del canone ebraico: gli Scritti. Era considerato, cioè, una Scrittura santa da meditare, per scoprire il piano di salvezza di Dio. Doveva essere letto come si leggeva la seconda parte del canone: i Profeti, il cui primo libro, secondo gli ebrei, è Giosuè:
Non si allontani dalla tua bocca il libro di questa legge, ma meditalo giorno e notte, perchè tu cerchi di agire secondo quanto vi è scritto; perchè allora tu porterai a buon fine le tue imprese e avrai successo (Gs 1,8).
Come Giosuè trovava nello studio della torà le indicazioni per poter entrare nella terra promessa, anche la comunità dei fedeli, andando, stando e fermandosi «con le parole del Signore» (D t 6,7; cf. Sal 1,1), non smarrirà la strada che porta alla vita. Il Salterio era considerato pertanto un rituale per una liturgia di santità da svolgersi nel grande tempio dell' esistenza concreta di ogni giorno.
Un ulteriore indizio per intendere il libro dei Salmi come torà - una Scrittura da meditare - è la divisione del Salterio in cinque libri come la torà di Mosè.
È una divisione che probabilmente appartiene alla fase finale della redazione. Secondo il midrash, «Mosè diede a Israele i cinque libri, Davide diede a Israele cinque libri» (Midrash Tehillim al Sal 1,1 [III-IX sec. d.C.]).
Quattro formule dossologiche, che si richiamano a vicenda mediante la ripetizione di alcuni termini, indicano la conclusione dei primi quattro libri:
- Sal 41,14: «Benedetto il Signore, Dio di Israele, da sempre e per sempre. Amen. Amen»;
- Sal 72,18-19: «Benedetto il Signore Dio, il Dio d'Israele, lui solo compie meraviglie.
E benedetto il suo nome glorioso per sempre
e tutta la terra sia piena della sua gloria! Amen, Amen!»;- Sal 89,53: «Benedetto il Signore per sempre! Amen, Amen!»;
- Sal 106,48: «Benedetto il Signore, Dio d'Israele da sempre e per sempre!
E tutto il popolo dica: Amen».
Le quattro formule nella loro sequenza concludono quattro salmi che costituiscono un arco tematico: persecuzione (Sal 41 ), promessa messianica (Sal 72), venire meno della promessa messianica (Sal 89), compimento della promessa mediante YHWH, il Dio dell' alleanza (Sal 106). Al complesso dei Sal 107-150 manca una formula dossologica, che corrisponda alle quattro precedenti. Alcuni autori considerano il Sal 150 come la dossologia finale; altri, invece, nella composizione dei Sal 146-150 vedono la finale del quinto libro e anche di tutto il Salterio.
Il Salterio, una torà fatta preghiera
Anche le soprascritte che precedono molti salmi, pur essendo tardive e non canoniche, rappresentano un' importante riflessione su come i salmi - in quanto collezione di Scrittura sacra - erano compresi già prima di Cristo. Queste soprascritte rappresentano in effetti l'esegesi più antica atte stata di alcuni salmi. Di particolare importanza è l'espressione spesso ripetuta: «Salmo di Davide», che aiuta a meditare e pregare il salmo con il cuore e la bocca del «soave cantore d'lsraele» (2Sam 23,1), il poeta del Signore, che «cantò inni a lui con tutto il cuore e amò colui che l'aveva creato» (Sir 47,8). Soprattutto alcune soprascritte, che richiamano eventi della vita di Davide, invitano il lettore a rivivere gli stessi sentimenti che furono nel cuore dell' antico re di Israele: paura, coraggio, amore, lamento, invocazione, lode e ringraziamento.
Il Davide con cui il pio fedele si deve identificare è il «servo del Signore», il sofferente esemplare, che anche da peccatore a motivo della sua preghiera è salvato dal suo Dio da tutte le sue difficoltà. Di fronte ai conflitti, alle crisi e vittorie della vita, il Salterio offriva ai suoi lettori un modello di una risposta personale al Signore.
Anche questo fenomeno di davidizzazione del Salterio è un indizio che la collezione dei salmi ha perduto la sua funzione liturgica originale e ora ha un nuovo ruolo, quello di sacra Scrittura sulla quale i figli di Israele meditano in preghiera.
È una torà fatta preghiera.
Posizione strategica dei salmi regali
Gli studiosi, poi, hanno notato che ci sono alcuni salmi che sono messi intenzionalmente nei punti strategici del Salterio e costituiscono delle specie di sutura tra varie collezioni già esistenti. Questi sono alcuni salmi regali. La distribuzione dei salmi regali alI' interno del Salterio sembra corrispondere infatti a un principio deliberato di organizzazione dell'insieme del libro:
- il Sal 2 introduce la raccolta: introduce l'idea dell'alleanza davidica;
- il Sal 41 davidico, che alcuni commentatori classificano tra i salmi regali, conclude
il primo libro: riprende la suddetta promessa; Davide parla infatti della protezione
del Signore;- il Sal 72 conclude il secondo libro: con le richieste in favore del figlio del re
potrebbe rappresentare la preghiera di Davide per suo figlio Salomone in vista
della sua accessione al trono;- il Sal 89, anch'esso regale, conclude il terzo libro: in esso si popone una nuova
prospettiva: si ricorda l' alleanza davidica, ma essa è fallita; da qui il grido
angosciato dei discendenti davidici. L'alleanza davidica introdotta nel Sal 2 è
sfociata nel nulla, e il Signore tarda. Ma fino a quando? Con questo appello
termina la prima parte del Salterio (libri I, Il, III).
La risposta si trova nel libro IV (Sal 90-106), al cui centro ci sono i salmi che celebrano la regalità del Signore. È vero - sembrano dire questi salmi - che non abbiamo più un re a Gerusalemme, ma il nostro Dio era re ancor prima di Davide, anzi ancor prima di Mosè, da sempre. Di che cosa abbiamo paura? Il nostro Signore tiene saldamente in mano le redini della storia.
Il Salterio, partitura poetica della vita
Facendo una «lectio continua» dei salmi, si è notato poi una tensione all' interno del Salterio. Nella loro composizione i salmi sono disposti in modo tale da formare un cammino di preghiera - o un procedimento di preghiera - , mediante il quale essi vogliono trasformare gli oranti. L'io che parla alla fine nel Sal 150, è un io diverso da quello all'inizio nel Sal 3.
Si è fatto corrispondere in modo suggestivo i diversi libri del Salterio ai diversi momenti di una giornata, che secondo il costume ebraico comincia con la sera o con la notte.
- Il primo libro (Sal 3-41) descrive la notte; il tono dominante è quello della supplica dell'innocente ingiustamente perseguitato.
- Il secondo libro (Sal 42- 72) descrive il mattino e introduce una nota di maggiore fiducia e un ardente desiderio di vedere Dio.
- Il terzo libro (Sal 73-89) descrive il mezzogiorno, in cui il tono dominante è quello del lamento per le grandi sciagure storiche del popolo ebraico, che però non uccidono mai la speranza in un futuro intervento di Dio.
- Il quarto libro (Sal 90-106) descrive invece la sera, in cui si incomincia a sperimentare la potenza del regno glorioso di Dio.
- Il quinto libro (Sal 107-150) descrive infine il nuovo mattino in cui sgorga dal cuore del popolo un rendimento di grazie e il canto di lode finale alla fedeltà di Dio (A. Chouraqui).
Altri - sempre riconoscendo il carattere redazionale e quindi non accidentale dei cinque libri del Salterio - tentano di rintracciare un percorso lineare di vita spirituale nella lettura continua e contestuale dei 150 salmi. A. Mello, per esempio, nel susseguirsi dei cinque libri riconosce delle preghiere, che, per il fatto di essere suggerite dallo Spirito, hanno la capacità di sostenere l'orante nelle varie fasi del suo cammino spirituale:
- la vocazione (primo libro);
- la giovinezza (secondo libro);
- la crisi (terzo libro);
- l'uscita dalla crisi o la percezione del regno (quarto libro);
- la maturità spirituale (quinto libro).
Alcuni autori, poi, si soffermano a domandarsi perché la tradizione ebraica
antica abbia chiamato tutti i 150 tehillîm «lodi», quando in realtà nella prima parte del Salterio fino al Sal 89 troviamo soprattutto una lunga serie di suppliche individuali e collettive, in cui è espressa tutta l'angoscia di uomini e di donne avvolti nelle tenebre del dubbio, del pericolo, dell'oppressione, della morte e della lontananza di Dio. In una lettura contestuale, tuttavia, questi salmi sono interpretati come grida nella notte, che svegliano l' aurora, da cui sorgerà il Sole di giustizia. E di fatto, dal quarto al quinto libro il tono cambia, fino a trasformarsi nella lode di ogni uomo e donna, anzi, di ogni creatura che respira, nel fortissimo del salmo finale. Questa disposizione dei salmi non è certo casuale. L'editore voleva suggerire alla sua comunità di poveri e perseguitati il vero senso e scopo della vita: la lode al proprio signore.
Evidentemente può lodare il Signore chi ha gli occhi del cuore per riconoscere nella storia della propria esistenza, in quella della comunità e in quella del mondo, le orme dell'agire amoroso di Dio. Questi occhi del cuore possono sbocciare e essere continuamente rischiarati meditando, o meglio, sussurrando notte e giorno uno dopo l'altro i salmi imparati a memoria, come suggerisce il Sal 1 nell'introduzione al Salterio.
Alcune tecniche di collegamento tra i salmi
È una meditazione favorita da alcune importanti relazioni linguistiche e tematiche esistenti tra salmi immediatamente successivi: richiami non casuali, ma intesi dai redattori. Mentre l' orante o lettore passa di salmo in salmo, può cogliere un intreccio di particolarità significative tipiche di un testo unitario. Il pensiero semitico, infatti, rifugge dal cambiamento improvviso della situazione, preferendo superare uno iato con collegamenti di contenuto e di forma con il testo vicino. Questo procedimento ha come effetto di creare una continuità tra i salmi, che non sono più da leggersi come una successione di pezzi eterogenei, ma come lo sviluppo di una preghiera o lo sviluppo di un dramma. Le parole di un salmo risuonano come in un'eco nel seguente e si crea così l'impressione che sia la stessa voce a esprimersi lungo tutti i salmi. Colui che dice nel Sal 3,2: «Signore, quanti sono i miei oppressori», è lo stesso che dice: «Quando ti invoco, rispondimi, Dio, mia giustizia» (Sal 4,2), «Porgi l'orecchio, Signore, alle mie parole» (Sal 5,2), «Pietà di me, Signore: vengo meno» (Sal 5,3), e così di seguito.
Può darsi che questa somiglianza di parole o di motivi fosse stata per i redattori un buon motivo per mettere i salmi uno dopo l'altro (iuxtapositio). Ma può anche darsi il caso che questa concatenazione di parole e di motivi ( concatenatio ) sia dovuta alI' opera stessa dei redattori, che hanno composto o riscritto i salmi proprio perchè avessero la posizione in cui si trovano ora nel Salterio. Questi richiami si trovano di solito alla fine dei salmi e ai loro inizi.
Faccio un esempio. Il Sal 7 conclude con la promessa di lode: «Loderò il signore per la sua giustizia e canterò il nome di Dio, l' Altissimo» (v. 18). Il Sal 8 viene recitato come proseguimento di questa lode, come sottolinea il suo inizio: «O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra» (v. 2). Questa frase termina pure il Sal 8, preparando la promessa di lode finale del Sal 9,2-3: «Loderò il Signore con tutto il cuore e annunzierò tutte le tue meraviglie. Gioisco in te ed esulto, canto inni al tuo nome, o Altissimo». In questo modo, mediante la concatenazione attraverso la ripetizione del temine chiave «nome» nei tre salmi, il Sal 8 è espressamente considerato un inno di lode del perseguitato (Sal 7) e del povero (Sal 9), che nonostante le loro tribolazioni conservano in se stessi la «vera immagine di Dio» (cf Sal 8,6-9).
Un esempio di giustapposizione può essere il collegamento tra i Sal 1, 2 e 3: il Messia che spezza le nazioni con scettro di ferro e le frantuma come vasi d'argilla in Sal 2,9 è in realtà un sapiente che realizzerà tutto questo con le sole armi della saggezza (Sal 1), e questa sarà la sapienza della croce, in quanto vincerà le genti mettendosi alloro servizio come un servo del Signore (Sal 3).
A volte, poi, due salmi successivi sono strutturalmente e linguisticamente così simili, da essere giustamente chiamati «salmi gemelli». Un esempio chiaro sono i due salmi alfabetici 111 e 112.
Altre volte, più salmi sono messi uno dopo l'altro secondo uno schema liturgico o di genere letterario, in modo che la loro sequenza porti un messaggio teologico. Ad esempio, i tre Sal 90, 91, 92 guadagnano a essere letti senza discontinuità, perchè sono organizzati secondo la sequenza: supplica - oracolo di salvezza - azione di grazie (i tre elementi del genere letterario della supplica). Il lamento sulla brevità della vita umana (Sal 90,3-12), che è «come l'erba» (vv. 5-6), e la domanda dei servi di YHWH, di essere «saziati» da lui (vv. 13-17), non restano senza risposta. A chi si aggrappa a lui, Dio promette di «saziarlo di lunghi giorni e di manifestargli la sua salvezza» (Sal 91,16). Il Sal 92, poi, spiega che questo uomo è simile a una palma (sempre verde) e al cedro (simbolo di longevità), che «nella vecchiaia portano ancora frutti» (vv. 13-15), mentre i malfattori sono come l'erba che viene falciata (v. 8). Questi tre salmi sviluppano un'antropologia teologica disposta su tre gradini: dal lamento davanti alla caducità dell'uomo (90,3-6), attraverso la confidenza nella protezione dell' Altissimo nel Sal 91, fino alla ringraziamento per il governo di Dio su empi e giusti (Sal 92).
Un altro esempio è l'unità di composizione parziale dei Sal 3-7: cinque salmi collegati tra loro da uno schema temporale, che li rende la preghiera per tutti i tempi. Il Sal 3 è una preghiera del mattino (v. 4), il Sal 4 una preghiera della sera (v. 9), il Sal 5 ancora una preghiera del mattino (v. 6), il Sal 6 una preghiera della notte (v. 7), il Sal 7 una preghiera del giorno (v. 12). La notte richiama la morte, la sofferenza, la paura del nemico, l'insonnia di una malattia. In ogni situazione, soprattutto in quelle difficili, il giusto trascorre il tempo in preghiera: è l'uomo fatto preghiera, come si diceva di Francesco di Assisi.
Conclusione. Con l'espressione programmatica: «Lettura continua del Salterio» s'intende dire che la nuova prospettiva della ricerca esegetica considera il libro dei Salmi non come un ripostiglio di testi singoli o un'antologia di poesie raccolte a caso, ma una composizione formata da raccolte successive di collezioni parziali, sorta con l'aiuto di specifiche tecniche di composizione e con un programma teologico particolare.
I redattori e gli editori hanno posto i singoli salmi uno dopo l'altro secondo determinati concetti, in modo che i singoli salmi in questo modo ricevessero un'ulteriore dimensione di significato e di importanza.
(da Parole di vita, 5, 2004)
La numerazione dei Salmi
di Tiziano Lorenzin
Chi in questi anni usa abitualmente il Salterio per pregare le Lodi o i Vespri, ricorda a memoria il numero di alcuni salmi: il Sal 22 è Il Signore è il mio pastore, il Sal 50 è il Miserere. Se però prende in mano La Bibbia di Gerusalemme, si accorge che il Sal 22 è diventato il Sal 23; che il Miserere non è più il Sal 50, ma il Sal 51. Come mai? Richiamo un po' di storia dell'edizione del Salterio.
L'esistenza di una divisione del testo biblico in versetti - non solo per i salmi - è documentata dalla Mishna e dal Talmud babilonese. Nel Codice di Aleppo (ebraico, della prima metà del X sec. d.C.), i salmi sono scritti su due colonne; ma non c'è numero o lettera tra un salmo e l'altro. Si usava designare i vari salmi non con il numero, ma con la citazione delle sue prime parole.
La numerazione dei versetti nel Salterio ebraico fu inserita solo a partire dalla grande Bibbia rabbinica di D. Bomberg, pubblicata a Venezia nel 1547-1548, nella quale numeri ebraici (cioè lettere) sono apposti ogni cinque versetti.
Il dato curioso è che l'attuale numerazione dei salmi fu adottata a partire dalla traduzione latina della Bibbia, la Volgata.
È il Salterio ebraico, pubblicato da J. Froben nel 1563, la prima sezione della Bibbia ebraica che si presenta con numerali arabi al margine di ogni versetto. La diversità poi di numerazione dei salmi dipende dal fatto che la liturgia latina segue la numerazione introdotta nella Volgata, probabilmente da S. Langton, nel tredicesimo secolo. Questa, a partire dal Sal 9 si discosta dalla quella ebraica, perché nel Salterio ebraico il Sal 9 è diviso in due (Sal 9 e Sal 10), per cui quasi fino alla fine del Salterio il numero dei salmi che recitiamo nella nostra Liturgia delle ore è di un numero inferiore a quello della Bibbia ebraica. Comunque dal Sal 148 i numeri dei salmi ritornano a coincidere. E il numero totale dei salmi rimane di 150 sia nel testo ebraico che nelle versioni greca (L XX) e latina (Volgata).
Ecco le differenti numerazioni:
Testo ebraico | Volgata (LXX) |
1-8 | 1-8 |
9-10 | 9 |
11-113 | 10-112 |
114-115 | 113 |
116,1-9 | 114 |
116,10-19 | 115 |
117-146 | 116-145 |
147,1-11 | 146 |
147,12-20 | 147 |
148-150 | 148-150 |
Le Bibbie moderne, tradotte dai testi originali, seguono la numerazione dell'ebraico, ma di solito mettono tra parentesi anche la numerazione della Volgata, che a sua volta segue la numerazione dell'antica versione greca dei Settanta.
(da Parole di Vita, 5, 2004)
La contraddizione
tra guerra e Cristianesimo
di Primo Mazzolari
Il cristiano che non si scopre in contraddizione col Vangelo di pace, o non si è mai guardato in Colui che — essendo “segno di contraddizione” — svela i pensieri degli uomini, oppure ama ingannare se stesso. La misura della nostra elevazione spirituale viene fornita dalla maggiore o minore consapevolezza delle nostre contraddizioni, la quale ci distoglie dal sentirci soddisfatti e dal legare lo Spirito al nostro corto passo e ai nostri brevi traguardi.
Non è forse una contraddizione
che dopo venti secoli di Vangelo gli anni di guerra siano più frequenti degli anni di pace?
che sia tuttora valida la regola pagana: “ si vis pacem, para bellum”?
che l'omicida comune sia al bando come assassino, mentre chi, guerreggiando, stermina genti e città sia in onore come un eroe?
che nel figlio dell'uomo, riscattato a caro prezzo dal Figlio di Dio, si scorga unicamente e si colpisca senza pietà il concetto di nemico per motivi di nazione, di razza, di religione, di classe?
che l'orrore cristiano del sangue fraterno si fermi davanti a una legittima dichiarazione di guerra da parte di una legittima autorità?
che una guerra possa portare il nome di “ giusta ” o di “ santa ”, e che tale nome convenga alla stessa guerra combattuta dall'un campo o dall'altro per opposte ragioni?
che si invochi il nome di Dio per conseguire una vittoria pagata con la vita di milioni di figli di Dio?
che venga bollato come disertore e punito come traditore chi, ripugnandogli in coscienza il mestiere delle armi, che è mestiere dell'uccidere, si rifiuta al “ dovere ” ?
che sia fatto tacere colui, che per sé soltanto, senza la pretesa di coniare una regola per gli altri, dichiara di sentire come peccato anche l'uccidere in guerra?
che si dica di volere la pace, e poi non ci si accordi sul modo, appena sopraggiunge il dubbio che ne scapiti la potenza, l'orgoglio, l'onore, gli interessi della nazione?
che si predichi di porre la vita eterna al disopra di ogni cosa, e poi ci si dimentichi che il cristiano è l'uomo che non ha bisogno di riuscire quaggiù?
Crediamo che questi pochi accenni bastino per dar rilievo alla nostra sostanziale contraddizione, per metterci in vergogna davanti a noi stessi, e per sentirci meno sicuri in un argomento ove la nostra troppa sicurezza potrebbe degenerare in temerarietà o in un delittuoso conformismo alle opinioni dominanti.
(tratto da Primo Mazzolari, Tu non uccidere, Vicenza, 1955)
Spiritualità Marista
di Padre Franco Gioannetti
Trentatreesima parte
A noi interessa ora cogliere il nesso tra lo spirito e il carisma della Società di Maria nel pensiero del P. Colin, seguendo principalmente le Costituzioni da lui redatte e approvate dal Capitolo Generale del 1872.
Se il carisma è l’intuizione profonda, donata dallo Spirito Santo al Fondatore dell’Istituto, e il discernimento della fede per comprendere le esigenze del Vangelo e ciò che è richiesto per rispondergli, lo spirito dell’Istituto è lo “stile di vita” che permette di tradurre pienamente il carisma in un preciso contesto di motivazioni teologiche e spirituali che scaturiscono dal carisma.
Il P. Colin paragona lo spirito dell’Istituto al carattere dell’individuo; Entretiens Spirituels, Doc 102, n.3, “Esigete che un individuo non segua il suo spirito, il suo carattere, un certo modo di reagire, una certa ampiezza nel giudicare. Ebbene, esigete che un individuo non segua il suo spirito, il suo carattere, voi esigete da lui l’impossibile… Questo spirito, questo carattere, è Dio che glieli ha dati. Egli ne deve trarre il miglior partito possibile e non preoccuparsi del resto. Una società ha egualmente il suo Spirito, chi glielo ha dato? Se questo Spirito è contenuto nella Regola, è evidente che è stato Dio a darglielo”.
Lo spirito si esprime in una regola di vita, che costituisce il patrimonio proprio a cui fare continuo riferimento per realizzare la fisionomia dell’Istituto nella Chiesa: è il modo specifico di realizzare il Vangelo con le sottolineature derivanti dagli aspetti del mistero di Cristo impliciti nel carisma dalla regola di vita si distingue il regolamento, costituito dall’insieme delle norme e delle consuetudine che regolano dall’esterno il modo di vivere del religioso. (Cfr. L. Guccini, Carisma persona e comunità nella vita religiosa, Bologna, s.d., pp. 26-27.)
Il P. Colin, pur avvertendo l’importanza del regolamento per l’organizzazione dell’apparato istituzionale e delle opere della Società di Maria, nelle varie Costituzioni da lui redatte ha voluto raccogliere in un articolo speciale il suo pensiero sullo “spirito dell’Istituto”. Lo “spiritus” delineato in tale articolo esprime la genialità cristiana specifica della Società con cui si traduce la fede e il carisma religioso: contiene la “spiritualità” dell’Istituto, l’anima di tutte le norme. (Parole di un fondatore, Doc. 174, n. 1: “Una Società deve avere il suo spirito; lo spirito di una Società è come l’anima che anima i corpi; se lo spirito è buono, tutto va bene”.)
“Spirito” è anche riferimento costante all’azione dello Spirito Santo che rende traducibile praticamente il carisma attraverso la fedeltà alla vocazione dell’Istituto e dei suoi membri.
ZOHAR
(IL LIBRO DELLO SPLENDORE)
(Passi scelti)
IL MALE
(III - 70a)
Considera dunque. Il Santo, che benedetto egli sia, produsse dieci corone, diademi sacri, in alto, con le quali egli si incorona e si riveste. Egli è in esse ed esse sono in lui; come la fiamma è legata al tizzone, là non esiste separazione. In corrispondenza di queste, esistono però altre dieci corone, che non sono sacre, e si trovano in basso. Esse sono legate alla “sporcizia dell'unghia” di una santa corona, che è chiamata sapienza; perciò anch'esse sono chiamate sapienza. Si insegna inoltre che questi dieci tipi di sapienza discesero nel mondo e furono tutti assimilati dall'Egitto, all'infuori di uno che si diffuse in tutto il mondo. Queste sapienze sono specie di ed è perciò che gli egiziani furono esperti di stregonerie più del resto degli abitanti del mondo.
(I - 194a)
Rabbi Izchaq disse: Le “sette vacche grasse” (Gen. XLI, 26) sono i sette gradi, superiori agli altri; mentre le “sette vacche magre” (Gen. XLI, 27) sono altri gradi, in basso. I primi appartengono alla santità; i secondi all'impurità. Le “sette spighe” (Gen. XLI, 7). Rabbi Yehudà disse: le prime sette spighe sono buone perché si trovano a destra, a proposito della quale parte è scritto: “E Dio vide che era buono” (Gen. I, 4); le spighe magre si trovano invece al di sotto delle prime. Le sette spighe buone si trovano dalla parte della purezza, mentre le sette magre dalla parte della impurità. E tutti questi gradi si trovano gli uni sopra gli altri, e tutti furono visti dal Faraone in sogno.
Chiese Rabbi Yosè: E forse che Dio mostrò a quel malvagio tutte queste cose?
Gli rispose Rabbi Yehudà: Il Faraone vide delle immagini di quelli. Perché i gradi si trovano gli uni sugli altri ed egli vide quelli in basso. E sappiamo bene che l'uomo, in base alla propria indole, riesce a vedere nel sogno e la sua anima risale nella conoscenza. Ognuno può vedere secondo il grado cui gli è dato di giungere; perciò il Faraone poté vedere come gli era consentito e non di più.
(III - 80b)
Rabbi Izchaq prese a dire: “Ohi, paese dalle ali spiegate...” (Is. XVIII, 1). È possibile che il fatto che esso sia “un paese dalle ali spiegate” costituisca motivo di irritazione, sicché è scritto: “Ohi, paese...”? Ma così intese Rabbi Izchaq: Quando il Santo, che benedetto egli sia, creò il mondo, cercò di rendere manifesto il significato profondo da dentro il segreto e la luce da dentro le tenebre, perché tali elementi erano compresi gli uni negli altri. Perciò dall'interno delle tenebre scaturì la luce e dall'interno del segreto scaturì il significato profondo e manifesto. L'uno scaturì dall'altro; così dal bene scaturì il male e dalla pietà il giudizio severo. Ma precedentemente tutti questi elementi erano compresi gli uni negli altri: l'istinto buono e l'istinto cattivo, la parte destra e quella sinistra, il popolo di Israele e gli altri popoli, il bianco ed il nero. Ed ognuno di questi elementi dipendeva dall'altro.
(II - 103a)
Considera dunque. E scritto: “Dall'Eden esce un fiume per bagnare il giardino” (Gen. Il, 10). Questo fiume non cessa mai di fecondare, di produrre e di dare frutti. Ma c'è un'altra divinità, che non ha mai potere autonomo né desiderio. Essa non produce e non dà frutti perché se così facesse, cancellerebbe tutto il mondo. Perciò chi consente a tale elemento di produrre nel mondo, è chiamato malvagio e non potrà mai vedere l'aspetto della presenza divina (Shekhinà), come è scritto: “Tu non sei un Dio, che ama la malvagità, il male non dimora presso di Te” (Sal. V, 5).
(II - 112a)
Considera dunque. Chi trova un compagno simile a se stesso, che si comporta nel mondo come lui, gli si affeziona, lo ama e gli fa del bene. Non così agisce il male, quando trova qualcuno che ha abbandonato il campo della santità, su cui presiede il Santo, che benedetto egli sia, e si è messo ad agire come lui, affezionandosi così al male. Infatti cerca subito di distruggerlo e di cancellarlo dal mondo. Quando la donna, sospetta di adulterio, si è effettivamente comportata secondo i dettami del male, affezionandosi ad esso, guarda in che modo il male la contraccambia: “Il ventre le si gonfiò e la coscia le cadde” (Num. V, 27). Non così avviene con il Santo, che benedetto egli sia. Chi infatti abbandona il male e si affeziona al Santo, che benedetto egli sia, subito ne viene riamato e ne riceve ogni bene che è nel mondo.
(I - 190a-190b)
Disse Rabbi Izchaq: Quando la forza del male viene a sedurre l'uomo, questi si attacchi alla Torà e si allontani da esso. Considera dunque. Abbiamo appreso che quando lo spirito del male sta dinanzi al Santo, che benedetto egli sia, per sedurre il mondo con le azioni malvagie, il Santo, che benedetto egli sia, è mosso a pietà per il mondo e dà agli uomini un consiglio per sfuggire al male, sicché esso non possa dominare su di loro né influenzare le loro azioni. Ed in che consiste tale consiglio? Nell'occuparsi della Torà, sfuggendo così al male. Da dove lo sappiamo? Dal verso che dice: “Poiché un lume è il precetto ed una luce l'ammaestramento, e gli ammonimenti morali sono la via della vita” (Prov. VI, 23). E cosa dice il verso successivo?: “Essi ti preservano dalla donna malvagia, dalle lusinghe della straniera” (Prov. VI, 24). Questa è il dominio dell'impurità, il male, che si trova sempre dinanzi al Santo, che benedetto egli sia, per accusare gli uomini dei loro peccati. Il male sta sempre in basso per traviare gli uomini e sta sempre in alto per ricordare i peccati degli uomini, per accusarli delle loro azioni, sicché siano concessi in suo potere, come fece per Giobbe. Nei periodi in cui il Santo, che benedetto egli sia, esercita il giudizio sugli uomini, il male sorge ad accusarli ed a ricordare i loro peccati. Ma il Santo, che benedetto egli sia, si muove a pietà verso il popolo di Israele e dà agli uomini un consiglio per sfuggire al male. Ed in che esso consiste? Nel suono del corno di Capo d'Anno e nel capro espiatorio nel Giorno dell'Espiazione, sul quale si pongono i peccati, sicché esso si allontani dagli uomini e se ne vada per conto suo
Considera dunque. Cos'è scritto? “I suoi piedi scendono verso la morte, i suoi passi conducono al baratro” (Prov. V, 5). E del mistero della fede, cos'è scritto? “Le sue vie sono vie soavi e tutti i suoi sentieri conducono alla pace” (Prov. III, 17). Tali sono le vie ed i sentieri della Torà e tutti sono una sola cosa. Così la pace e così la morte e tutti i sentieri della Torà sono contrari a quelli (del male). Beata la sorte dei figli di Israele, che aderiscono al Santo, che benedetto egli sia, come si conviene; e questi, a sua volta, dà loro un consiglio per sfuggire a tutti gli spiriti malvagi che sono nel mondo. I figli di Israele sono infatti, quali popolo santo, il suo retaggio e la sua parte: siano beati in questo mondo e nel mondo futuro! Considera dunque. Quando lo spirito del male discende e vaga per il mondo, esso osserva la condotta degli uomini, che pervertono le loro strade. Allora risale in alto e li accusa; e se non ci fosse il Santo, che benedetto egli sia, che ha pietà per l'opera delle sue mani, di uomini non ne rimarrebbero nel mondo.
Cosa è scritto? “Quantunque essa parlasse ogni giorno della cosa con Giuseppe, questi non le dava ascolto di giacere con lei e perfino di starle vicino”(Gen. XXXIX, 10). “Quantunque essa parlasse ogni giorno”, il male ogni giorno risale in alto ed accusa, pronunciando dinanzi al Santo, che benedetto egli sia, tante calunnie e tante maldicenze per distruggere la gente del mondo. Cosa è scritto? “Questi non le dava ascolto di giacere con lei e perfino di starle vicino”. Il Santo, che benedetto egli sia, non gli dà ascolto, perché ha pietà del mondo. Che significa la espressione “di giacere con lei”? Significa che il male vuole ricevere il potere di dominare il mondo, perché non può dominare sinché non ne abbia ottenuto il permesso.
L'incarnazione ha manifestato questa verità: il valore della terra vivificata dallo Spirito. Perciò non si può parlare di Spiritualità cristiana quando, a motivo di qualche spiritualismo viene disprezzata la terra, il creato, il corpo, la materia.
Epilogo aperto
di Pedro Casaldáliga
L'ecumenismo e la Chiesa ortodossa
di Vladimir Zelinskij
La quarta difficoltà proviene da un fatto che tutti conoscono e sempre dimenticano: le Chiese ortodosse, con poche eccezioni, stanno praticamente vivendo i primi 15 anni della loro libertà in senso pieno, come la viviamo in Occidente e non hanno avuto ancora il tempo per abituarsi a tutte le sue sfide. Non sanno bene che cos’è la libertà della società civile con il suo inevitabile pluralismo religioso, come affrontarlo e viverlo pacificamente accanto alle altre forme della vita religiosa, a volte anche abbastanza intolleranti ed aggressive (se pensiamo alle sette, soprattutto straniere). Esse si sono abituate sia ad una situazione molto favorevole nei confronti dell’ortodossia come religione privilegiata, in regime di persecuzione crudele, ma non verso lo Stato indifferente e laico, che con la sua neutralità favorisce, in un certo senso, la vocazione ecumenica. Ma anche dall’altra parte, quella occidentale, democratica e dialogica, manca spesso l’immaginazione che possa esistere una mentalità diversa da quella occidentale, democratica, dialogica, ecc.
La più importante è anche la quinta difficoltà (lasciamo perdere le altre a cui non ho potuto accennare) che tutti conoscono, ma di cui non sempre si tiene conto. Si tratta del problema teologico nel senso essenziale e precisamente che la Chiesa ortodossa (in questo contesto possiamo parlare di Chiesa nel suo insieme) è la Chiesa tradizionale. Il suo carattere tradizionale significa che non solo la sua fede, ma anche la sua ragione, il suo pensiero, il suo atteggiamento nei confronti dei fenomeni della vita cristiana, delle fedi delle altre Chiese si appoggiano sulla Tradizione di duemila anni, soprattutto sull’eredità dogmatica dei sette Concili ecumenici, sul lavoro teologico dei Padri della Chiesa, sulla vita spirituale vissuta nell’esperienza dei santi.
Prima di cominciare il dialogo ecumenico con l’ortodossia, bisogna cercare di capire che cos’è la Tradizione e il suo ruolo nella Chiesa. Non siamo come la prima generazione dei cristiani che non avevano neanche la Scrittura, ma solo la testimonianza della parola orale, la speranza, l’attesa del Ritorno del Signore e il martirio (ma tutti questi momenti rappresentavano già una forma della Tradizione). Gli ortodossi non scoprono la fede come se fra di essi in ogni momento della storia e della rivelazione di Dio in Cristo non ci fosse niente. Perché secondo la loro fede, anche dopo l’Incarnazione, il Padre Celeste continua ad agire con le sue due mani, il Figlio e lo Spirito (secondo l’espressione di Sant’Ireneo di Lione), e gli ortodossi si sentono eredi di questo enorme lavoro nella storia umana, ne portano e ne custodiscono la memoria. La Tradizione è una memoria sacra e incarnata nella vita ecclesiale del passato, dei nostri giorni, ma anche del futuro e il dovere della fedeltà a questa memoria è più importante del nostro adattamento alle regole e alla morale del mondo in cui viviamo. Devo dire che questa fedeltà, che può essere autentica, ma a volte anche fanatica, ha provocato non poche lacerazioni e scismi all’interno dello stesso mondo ortodosso (soprattutto russo).
La Tradizione spesso prende su di sé il ruolo che svolge il Magistero nella Chiesa cattolica, ma non coincide con esso. Se il Magistero interpreta la Rivelazione rispetto ad ogni epoca della storia, spiegandola e a volte adattandola alla comunità dei credenti, la Tradizione ortodossa è, in un certo senso, la Rivelazione stessa come frutto dell’azione permanente dello Spirito Santo che agisce nella Chiesa. E può essere cambiata solo con un’altra azione dello Spirito, invocato o “voluto” unicamente dal Concilio ecumenico (secondo la formula: “Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi...” – Atti, 15, 28), ma anche confermato dalla ricezione del “noi” nel senso più ampio, cioè dal Popolo di Dio. Si vede che questo concetto della Tradizione, formulato in modo diverso dai vari teologi, consegna all’ortodossia una grande stabilità e la protegga dalle molte crisi che subiscono le Chiese Occidentali, ma nello stesso tempo renda difficilissimo qualsiasi cambiamento all’interno, senza il quale non è possibile un vero riavvicinamento fra le Chiese. Non si può spiegare questa difficoltà solo con l’immobilismo orientale; il concetto nodale in questo caso è quello della comunione della Chiesa con il proprio passato, con il suo vissuto che è, infatti, un eterno presente nella sua realtà quotidiana.
La Tradizione è il canale e il «recipiente» della santità rivelata in passato e che continua nei riti e nei sacramenti, nei gradi di ministero e nei dogmi, nelle preghiere, nelle istituzioni e nelle immagini, nella vita dei santi e nell’architettura ecclesiale, ma anche nelle abitudini e nei ritmi dell’esistenza quotidiana. Non è la sovrana ragione umana e nemmeno il “senso religioso” il punto di partenza della riflessione teologica, ma l’ubbidienza a ciò che è stato tramandato dai nostri padri nella fede. E l’accoglienza spirituale di questa eredità è la base del dialogo con il mondo contemporaneo. Non è accettata la logica del: “adesso facciamo noi ciò che, a nostro avviso, è buono e giusto”, perché nella Chiesa niente è inventato da qualche illuminazione mistica o ragionevole, ma tutto è frutto dell’esperienza e della presenza operosa dello Spirito Santo che vive nel Corpo di Cristo nel suo insieme attraverso la storia. Questa esperienza non va persa o dimezzata in nome dell’aggiornamento alla modernità, come essa possa essere utile. Nell’ortodossia non c’è affatto il culto dell’“oggi” della storia e dell'uomo moderno come punto di partenza per la riflessione teologica, ma piuttosto la comunione con tutto ciò che Dio ha fatto nella storia con le mani, con le preghiere, con i doni dei Suoi servitori.
Ammettiamo che quest’argomento possa suonare anche bene alle orecchie dei non-ortodossi nel quadro della teologia dei manuali e delle conferenze, ma può offendere qualcuno quando si tratta di conclusioni pratiche e di comportamenti umani. L’incomprensione reciproca emerge prima di tutto nel rapporto con le Chiese e le comunità protestanti nella loro attuale evoluzione. Il sacerdozio femminile, la lingua inclusiva (Dio chiamato non solo come Egli, ma anche come Ella), i diritti delle minoranze sessuali e gli altri problemi di questo tipo per l’ortodossia non sono neanche discutibili. Perché? Prima di tutto, questo non ha nessun rapporto con la Tradizione, con ciò che la fede proclama, con il vissuto dei padri nella fede venerati nella Chiesa, con l’esperienza del credere e del servire Dio da ortodosso. Sono problemi importati dall’esterno. Naturalmente, delle minoranze sessuali esistono anche fra gli ortodossi, ma non c’è nessuna istanza autorevole, nessun patriarca, nessun sinodo, che avrebbe il pieno diritto di trovare un nome più attraente e diplomatico per ciò che dal I secolo fino al 2006 venne chiamato e percepito come peccato mortale. Esistono santi ed antichi canoni che puniscono severamente tali comportamenti e che nessuno può o vuole cambiare perché sono sempre in vigore.
“Ma non si può prendere tutto alla lettera - sento l’obiezione energica, - soprattutto questi precetti paolini, condizionati dalla sua epoca, che la moglie sia sottomessa al marito, che la donna in chiesa debba avere il capo coperto...” Ma chi ha detto che non si può? Il nostro buon senso? Non è una cosa sempre apprezzata nella nostra Chiesa. Anche oggi una signora che entra in un tempio ortodosso senza fazzoletto sulla testa o in pantaloni rischia di non avere una buona accoglienza. E, tra l’altro, non da parte del clero, ma da altre signore, che si sentono custodi dell’ordine del luogo e del suo spirito. Non credo che una donna vestita in modo maschile sia ammessa alla confessione e alla comunione in nessun monastero ortodosso, almeno in Russia, ma suppongo che sia lo stesso anche in Grecia, in Bulgaria, in Georgia, ecc.
Questo non è fondamentalismo, come noi lo intendiamo, ma semplicemente gelosia per la casa del Signore, come la gente percepisce, nel grande e nel piccolo. Questi dettagli che, certo, non hanno molta importanza per il nostro discorso possono servire da introduzione se non alla spiritualità, ma in senso ortodosso, della Chiesa. La Chiesa non è il Regno di Dio, ma, diciamo, la sua anticamera. La Chiesa è la terra santa su cui ci si deve togliere i sandali o il banchetto di nozze dove non si deve entrare senza abito nuziale. La sacralità della casa della preghiera e della comunione chiede non solo un semplice rispetto, ma quasi una venerazione (che naturalmente può essere anche eccessiva, a volte ridicola). La stessa cosa, però, vale anche per l’ecumenismo. Il senso della sacralità del tesoro intoccabile della fede, con tutte le sue espressioni, spesso prevale sul desiderio del dialogo e di conoscere gli altri. C’è un errore tipico dell’Occidente: apprezzare la bellezza della Chiesa Orientale e aspettare nello stesso tempo che la portatrice di questa bellezza pensi e si comporti in modo moderno, aggiornato, aperto al mondo, ecc. Ma tutta la ricchezza orientale fu creata in epoche lontanissime dalla nostra e porta anche una forte impronta della sua visione del mondo, dello spirito di tempi passati che preferivano isolare gli eretici con anatemi piuttosto che dialogare con loro. Ammirare le icone, i canti, la teologia palamita, la “preghiera di Gesù”, il commovente “pellegrino russo” e nello stesso tempo sinceramente stupirsi perché questi “pellegrini”, che oggi si possono incontrare dappertutto in Occidente, spesso non siano così ecumenici..., significa non capire che la cultura dell’Oriente cristiano è omogenea, non è cambiata nei secoli. E per ora non ha manifestato una grande voglia di cambiare.
Certo, non tutto nelle nostre tradizioni, che provengono dalla mentalità orientale e dalle abitudini popolari, appartiene alla Tradizione come forma della Rivelazione e questo lavoro di separazione della “carne e del sangue” dall’azione dello Spirito Santo nella storia richiederà un enorme sforzo teologico e che potrà essere difficilissimo per gli ortodossi. Ma dobbiamo e possiamo farlo solo noi mentre gli altri cristiani hanno un certo diritto ad aspettare che lo facciamo. Abbiamo bisogno anche noi della purificazione della memoria. Una cosa deve essere, però, chiara: qualsiasi purificazione, se sarà chiamata “riforma”, rinnovamento”, “aggiornamento” o con un altro simile nome, può essere fatta nella Chiesa ortodossa solo nello spirito del ritorno alla Chiesa apostolica, alla sua santità iniziale. Non si tratta della copiatura dell’antichità, ma dell’ascolto dello Spirito pentecostale.
Parecchie volte mi è capitato di sentire la domanda: perché “La dottrina sociale della Chiesa Ortodossa Russa” adottata nel 2000 afferma che la Chiesa Ortodossa sia unica Chiesa di Cristo? Come si possono affermare delle cose simili alle soglie del XXI secolo? La risposta corretta sarebbe troppo lunga e dettagliata, ma per far fronte alla domanda, rispondo così: il pensiero della Chiesa cattolica su se stessa 50 anni fa, prima del Vaticano II, era davvero diverso? Per dire la verità, anche oggi non è molto diverso, ma semplicemente si usa un linguaggio un po’ più sottile. Anche oggi nei mezzi di comunicazione, nei colloqui quotidiani sotto la parola “Chiesa” s’intende sempre quella cattolica. Più volte ho sentito l’espressione “la Chiesa in Russia” proprio con questo senso univoco. Si può constatare l’esistenza di due linguaggi, uno teologico, riflettuto, bilanciato, l’altro radicato nella mentalità diffusa e non solo popolare, quasi nel subconscio con le sue reazioni spontanee. Ma la Chiesa ortodossa per ora ha solo un linguaggio, meno moderno, forse, ma più sincero, in cui la teologia non si è staccata dalla spontaneità, dal senso di essere nella verità. Perciò non proclama che la Chiesa di Cristo sussiste (subsistit in) nella Chiesa ortodossa, come dice la Chiesa romana, ma continua ad usare il vecchio verbo “essere”, “è” al presente, che non lascia molto spazio ai compromessi e alle sottigliezze.
Perché l’unica, autentica Chiesa di Cristo è proprio la Chiesa Ortodossa? Il nostro modo di pensare, che ragiona nei termini della “legittima pluralità di tutte tradizioni più o meno uguali”, non può prendere sul serio questo verbo “essere” che si fa segno di uguaglianza fra l’ortodossia e la Chiesa di Dio sulla terra. Ma ascoltiamo la sua risposta, abbastanza conosciuta, ma messa sempre tra parentesi. La Chiesa Ortodossa, che nella sua dottrina non ha cambiato niente nella fede degli Apostoli e non ha aggiunto niente che non sarebbe implicitamente contenuto in questa fede, deve essere considerata come una, santa, cattolica e apostolica Chiesa, fondata da Cristo stesso. La sua cattolicità si esprime non nei termini dell’universalismo geografico, ma nei concetti dell’unità e della coerenza organica della fede.
All’interno di questa visione, condivisa praticamente da tutti teologi ortodossi (almeno a livello ufficiale) esistono due scelte, quella della cosiddetta acribia e quella dell’economia. La prima scelta, assai diffusa ai nostri giorni, soprattutto nell’ambiente monastico ortodosso, corrisponde a ciò che si chiama l’integrismo nel linguaggio cattolico postconciliare, ma io preferisco usare il concetto ecclesiale. L’acribia afferma, secondo lo spirito intransigente di san Cipriano di Cartagine (III sec.), che le tutte comunità che a causa dei loro errori si sono staccate dall'unica Chiesa di Cristo - che oggi è la Chiesa Ortodossa - hanno perso tutto e che fuori di essa non c'è proprio nulla: né sacramenti, né grazia, né salvezza. Dunque, unica forma del dialogo è il ritorno alla Chiesa o nella versione più mite, alla eredità intatta del primo millennio cristiano. In questa ottica l’ecumenismo stesso che presuppone che oltre la Chiesa di Cristo ci siano altre Chiese, è già tradimento, un'eresia ingannevole e pericolosa che raccoglie in sé tutte le eresie antiche (come, per esempio, l'arianesimo, l'incredulità nella vera e visibile Chiesa, una, santa…, ecc.). Che dialogo può esistere con la gente che ha scelto di andare alla propria rovina? Ma chi vuole essere salvato deve prima chiedere il battesimo nella Chiesa ortodossa e poi vivere secondo i suoi statuti.
Ma c’è un altra strada, quella dell’economia che parte anche dalla stessa premessa: che la pienezza della Chiesa di Cristo si possa trovare solo nella Chiesa Ortodossa (“la teoria dei rami” non è accettatta in nessun modo), ma che fuori dall’ortodossia esista anche una grande comunità di battezzati. La Chiesa agisce con la sua grazia anche fuori dei suoi confini visibili. L’unità della Chiesa che già esiste non può essere messa in discussione perché l’unità è il dono dato fin dall’inizio dal Signore. La Chiesa non si è mai divisa, nonostante le divisioni e le crisi che hanno attraversato tutta la sua storia, ma le parti della Chiesa che si sono staccate dal suo corpo visibile non hanno perso tutti i doni del Signore. Questo concetto intuito o elaborato dai più importanti pensatori ortodossi (devo dire che la piattaforma integrista non ha dato per ora nessun teologo di un certo rilievo), nonostante la premessa dogmatica che per ora è fuori discussione (cioè che l’unica Chiesa di Cristo è la Chiesa ortodossa, anche se ha tantissime debolezze storiche), apre una vasta strada a un vero e profondo discorso ecumenico. Possiamo e dobbiamo discutere sui doni di noi stessi e degli altri. Da qui rimane un passo dall’idea dello “scambio dei doni”, così cara a Giovanni Paolo II.
Ma di quali doni parliamo? Tutti i doni che abbiamo ricevuto appartengono a Cristo, erano nascosti e rivelati in Cristo, ma rivelati in modo diverso. Questa diversità nella rivelazione, anche se come concetto è abbastanza nuovo per l’ortodossia, in nessun modo contraddice i suoi orientamenti fondamentali. Anzi, esiste già una base teologica per tale discussione, più precisamente per una libertà più grande anche nel campo dogmatico. Ancora alla fine del XIX secolo un grande storico della Chiesa antica e teologo Vassily Bolotov ha proposto questa classifica per ogni affermazione ecclesiale. La prima è il dogma, cioè la verità della fede adottata dai Concili Ecumenici (come, per esempio, che Cristo è vero Dio e vero Uomo, che Maria è la Madre del Signore e Sempre Vergine, ecc.) che non può essere cambiata e su cui la Chiesa ortodossa non accetta discussioni. La seconda è la cosiddetta teologumenon, cioè la fede teologica valida per una Chiesa, ma non obbligatoria per un’altra (per esempio, il famoso filioque, pomo della discordia, Bolotov lo considerava come teologumenon - con cui noi ortodossi non siamo d’accordo -, ma che non dovrebbe essere la causa della divisione fra l’Oriente e l’Occidente). La terza è l’opinione teologica, che non ha validità dogmatica e che è ammissibile nel campo della libera ricerca individuale e delle tradizioni nazionali di ogni Chiesa.
E’ evidente che questa classifica offre un largo spazio per il dialogo fra le Chiese storiche. Tenendo conto delle difficoltà, di cui abbiamo parlato all’inizio, non si può chiedere tutto e subito. Non si può neanche aspettare che la Chiesa Ortodossa da domani inserisca nel suo linguaggio teologico questo famoso verbo: “subsistit in”. Per ora l’unica strada per l’ecumenismo, a mio avviso, è il dialogo sui doni, sulla scoperta dei doni di un’altra Chiesa nella nostra Chiesa. Ma il dono principale è proprio quello dell’unità. La Chiesa Ortodossa insiste - e questo è il punto cruciale - che l’unità non è il premio da conquistare con i nostri sforzi, che l’unità c’è e sempre c’era dal giorno della nascita della Chiesa, anche se non è sempre visibile. Sembra che questa affermazione sottintendente un’unità già realizzata sia un impasse per l’ecumenismo. Invece no, è solo un’esigenza più alta della fede che crede all’unità già realizzata e questa esigenza può servire come premessa per un dialogo più profondo e più onesto.
Faccio un esempio scomodo: l’enciclica "Dominus Iesus", firmata qualche anno fa dal Cardinal Ratzinger, che ha provocato tanto disagio nel campo ecumenico cattolico, un’amarezza fra i protestanti e quasi un’ironia fredda fra gli ortodossi, al di là di queste reazioni immediate, a lungo andare, potrebbe avere un ruolo positivo, proprio per la sua chiarezza ed onestà. Perché la mancanza della chiarezza, il linguaggio troppo accarezzante e troppo evasivo fanno solo danno al vero dialogo teologico. Con le buone maniere possiamo arrivare all’amicizia e alla simpatia reciproca che, certo, è una conquista importante, ma l’amicizia non deve essere una sosta permanente nel nostro cammino verso l’unità. Questo è il pericolo nascosto dell’ecumenismo dei nostri giorni: sostituire il mistero della riconciliazione e dell’unione in Cristo con il sorriso diplomatico, ma anche con una preghierina recitata per qualche attimo (per essere sinceri: gli ortodossi non hanno nessun gusto per le preghiere improvvisate, a volte sentimentali ed esaltate; spesso chi vi partecipa le sopporta).
Affermare esplicitamente che solo Gesù Cristo è unico e universale mediatore della salvezza fa bene per il nostro dialogo perché la Chiesa ortodossa non ha mai detto diversamente. Proclamare che la Chiesa cattolica è la vera Chiesa di Cristo può anche servire a modo suo alla ricerca della comunione perché la Chiesa ortodossa di se stessa non ha mai detto diversamente. Non mettiamo in ombra queste cose. Il dialogo sulla verità, se siamo supportati dall’animo fraterno, può solo favorire la vera riconciliazione. Ciò che sembra un maggior ostacolo all'unità può diventare un giorno il suo inizio o, diciamo, il lievito della comunione. Perché dobbiamo essere schiavi della vecchia logica "orizzontale": la verità può essere racchiusa solo in questa o quella formula, mentre la terza soluzione è esclusa? Al suo posto, invece, si può mettere la logica della profondità, dell'incontro nella verità di ciascuno, quando noi andiamo proprio al cuore della fede del nostro fratello cristiano, quando all'origine della sua fede troviamo il mistero più profondo anche della nostra fede. Se siamo sicuri che la verità sia nella nostra Chiesa, perché non cercare l'immagine, il riflesso, la vita della stessa verità in un'altra Chiesa? Perché non ci si può riconoscere l'un l'altro presso la stessa sorgente della fede cristiana, nel volto di Cristo, nella nostra vita in Cristo che è "lo stesso ieri, oggi e sempre" (Ebr. 13,8)? E ieri, oggi, sempre proprio Lui rimane l’unico principio fondamentale nella ricerca ortodossa dell’unità visibile.
Sì, ci troviamo davanti ad un paradosso che non può essere ridotto a una semplice pluralità di tradizioni diverse: siamo chiamati alla ricerca dell’unità che già esiste dall’inizio e che ogni giorno è proclamata nel nostro Credo. Non si può alleggerire questo paradosso, bisogna viverlo nella speranza, nella devozione, ma anche con dolore. Unità significa la piena comunione, l’Eucarestia comune, che secondo il concetto ortodosso, non può essere il mezzo della ricerca, ma il suo scopo. Mi rendo conto che questa posizione possa sembrare offensiva e poco ecumenica: un ospite, un fratello arriva alla soglia della nostra casa e trova la porta chiusa. Capisco l’amarezza di colui che rimane sempre fuori. Ma anche colui che resta dentro prova talvolta lo stesso disagio. L’ospitalità eucaristica senza il nostro impegno di vivere l’Eucarestia nello stesso modo porterebbe, infatti, all’inflazione di ciò che per gli ortodossi è più sacro e che si trova nel centro più profondo, più intimo della loro fede. Il prezzo della stessa unità in tal caso dovrebbe calare drasticamente. Se il Corpo e il Sangue di Cristo sono già condivisi da tutti, non importa se crediamo alla loro presenza reale o no, non importa con quale spirito li consumiamo, cosa facciamo con il pane e il vino consacrati dopo la comunione, ecc., che senso avrebbe il nostro cammino all’unità se l’unità è già raggiunta, scontata, e tutti noi ci sentissimo contenti nelle nostre case separate, ma senza porte?
Nella pedagogia dell'unità, che si costruisce nascostamente, deve arrivare, forse, anche il momento della sofferenza. La gioia deve andare insieme col dolore, che io chiamerei il farmaco ecumenico, con l'amarezza dell'ospitalità impossibile, perché prima che i figli possano unirsi, anche i padri devono essere riconciliati. Prima di arrivare alla tavola comune dobbiamo anche scoprire il Cristo comune, riconosciuto pienamente nella fede di un altro, ma anche vissuto con la stessa pienezza spirituale nell'Eucarestia di un altro. Per fare questo cammino più cristiano, più umano proviamo ad offrire il nostro dolore della separazione a Dio e il nostro cuore al prossimo “separato”.
In un certo senso il nostro dialogo deve ricominciare da capo. Ogni Chiesa proclama implicitamente o apertamente: siamo noi la Chiesa una, santa, cattolica, apostolica, fondata e voluta da Cristo. Per mille anni non c’era bisogna di provare questa fede: la fede provava se stessa con il fatto della sua semplice confessione. Ma quando cominciamo a confessare la propria fede con tutto il suo bagaglio dogmatico, istituzionale, sacramentale, spirituale non solo all’interno della nostra realtà ecclesiale, ma anche davanti agli altri, che credono e pensano in modo diverso, questi ultimi ci chiederanno delle prove. Non avremmo paura della polemica onesta e leale; nello spirito dell’amore fraterno anche la polemica che stima il credo degli altri non può ferire alcuno. Le prove che saremmo costretti a manifestare, ad affrontare con le nostre controparti, e che non possono essere sempre vecchie, ma vanno rinnovate, riapprofondite, ripensate, riformulate, anche se tratte dalla stessa Tradizione apostolica, porteranno alla riscoperta della nostra propria fede. E nella sorgente nella nostra fede in Cristo, nella Chiesa nostra, con la grazia dello Spirito Santo scopriremmo anche la fede d’un altro fratello e il suo essere la Chiesa con la quale siamo uniti.