Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input
di Alberto Bobbio
Quando gli americani hanno chiesto a tutte le organizzazioni non governative di registrarsi presso i propri uffici militari per poter lavorare in Iraq, la maschera è del tutto caduta. La scelta statunitense andava ben al di là di una semplice offerta di protezione. Rivelava che la campagna militare aveva avuto come scopo principale il controllo di un paese e dei suoi affari.
Anche gli affari umanitari servono allo scopo politico. La discussione che è seguita a livello planetario ha diviso gli "umanitari", ma non ha fatto recedere gli uomini del Pentagono, i quali in pratica hanno spiegato che si accettava, oppure l'unica cooperazione sarebbe stata quella militare. Ma l'attenzione dei media si è concentrata solo sulla cooperazione umanitaria veicolata all'intervento militare, quasi che ci fosse una strategia internazionale per escludere dagli schermi tv chi non accetta protezione e controllo degli eserciti. Anche la missione militare italiana, che costa circa 270 milioni di euro, ne prevede61 in aiuti umanitari.
di Drew Christiansen
* Drew Christiansen è gesuita. L'articolo è stato pubblicato sul settimanale statunitense "America" (rivista dei gesuiti) il 24/372003.
E’ stata una mossa audace. Mentre numerosi funzionari vaticani e lo stesso Giovanni Paolo II esprimevano una critica vigorosa a una possibile guerra all'Iraq, l'ambasciatore statunitense presso la Santa Sede ed ex presidente nazionale del partito repubblicano, Jim Nicholson, invitava a Roma Michael Novak dell'American Enterprise Institute di Washington per sostenere la fondatezza di una "guerra preventiva" contro l'Iraq. L'invito di Nicholson è stato una contromossa rispetto alla coraggiosa resistenza vaticana alla politica bellicista dell'Amministrazione Bush, in atto da mesi.
"Se il 10 di settembre avessimo saputo cosa sarebbe successo l'11", ha chiesto Nicholson, "non saremmo stati giustificati nel correre ai ripari contro quella minaccia?". La guerra giusta, ha sostenuto l'ambasciatore, deve essere compresa nel "contesto dell'epoca in cui stiamo operando, cioè velocità quasi istantanea con cui le armi, con il loro potere di distruzione di massa, vengono rese operative".
di Emmanuel C. Mac Carthy
Per gran parte della mia vita, certamente gli anni in cui indossavo l’uniforme di generale dell’esercito, pensavo in modo diametralmente opposto a quanto ora esporrò.
Il presupposto di queste riflessioni è che Cristo ha qualcosa d’importante da dirci sul modo di vivere la vita cristiana. Lo scopo è di ricercare la verità di Cristo, con la comunità dei cristiani e all’interno di essa. È un testo serio perché il problema è serio: si tratta della guerra e di ciò che Cristo attende nei suoi confronti da coloro che lo seguono. Non procede da uno spirito ostile verso qualcuno nella comunità cristiana. Ma vi sono fatti terribili e spiacevoli nella storia cristiana e nella vita cristiana di oggi, che dobbiamo esaminare. Abbiamo 1.600 anni di cristianità postcostantiniana che hanno giustificato la guerra e la violenza. Ogni secolo ha visto un crescendo di brutalità e di vittime della guerra. Una percentuale impressionante di queste distruzioni disumane può essere attribuita a coloro che si confessano cristiani, discepoli del Principe della pace.
di Enzo Bianchi
Da alcuni mesi da quando una nuova guerra nel Golfo ha cominciato a profilarsi all'orizzonte, non passa praticamente giorno in cui non si levi un’autorevole voce cristiana per invocare la pace, per condannare la guerra, per proclamare che la guerra non è inevitabile. Giovanni Paolo II continua ad affermare in modo ossessivo e senza ambiguità che "la guerra è sempre una sconfitta dell’umanità", "un’avventura senza ritorno", ha ridestato con forza il messaggio della Pacem in terris di Papa Giovanni, l'apice del magistero cattolico sulla pace, insiste nel chiedere a tutte le Chiese locali veglie di preghiere e giorni di digiuno per implorare la pace così fortemente minacciata. Parallelamente, il Papa ha voluto che la diplomazia vaticana in un’azione a tutto campo in favore della pace presso i governi e le istituzioni internazionali, spingendosi fino a ricevere personalmente il ministro irakeno Tarek Aziz e a inviare a Baghdad il cardinale Etchegaray, l’uomo a cui ricorre per le missioni in cui bisogna continuare a "sperare contro ogni speranza". Molte Chiese locali – a cominciare dall'episcopato degli Stati Uniti - e numerose se associazioni cattoliche hanno fatto proprio con convinzione questo anelito e si può dire che mai come in questi ultimi mesi l’area cattolica aveva conosciuto un impegno così concorde ed esteso per la pace, mai si era riscontrata una convergenza così universale.
John Brady Kiesling
Imbarazzo, disagio, indignazione: sono i sentimenti che si vanno diffondendo sempre più anche tra i diplomatici americani di fronte alla guerra all'Iraq. Ne è un chiaro esempio il consigliere politico dell'ambasciata americana ad Atene, John Brady Kiesling, che il 27 febbraio 2003, dopo oltre vent'anni di servizio, ha rassegnato le proprie dimissioni per protesta contro la politica di Bush. "Dobbiamo chiederci perché - ha scritto in una lettera indirizzata al segretario di Stato Colin Powell - abbiamo fallito nel tentativo di convincere la maggior parte del mondo che è indispensabile una guerra contro l'Iraq. Negli ultimi due anni abbiamo superato noi stessi nel mostrare ai nostri alleati che gli interessi miopi e commerciali del nostro Paese sono più importanti dei valori dei nostri partner". E certo "il modello dell'Afghanistan non può dare troppo conforto ai nostri alleati che si stanno interrogando su quali basi intendiamo ricostruire il Medio Oriente, a immagine di cosa e a beneficio di chi".
di James Petras (sociologo)
Questo articolo è apparso sul sito internet latinoamericano "Resumen" (http:///www.nodo50.org/resumen/home.htm).
Pubblicato in Adista 26, 2003 con il titolo "Pubblicità al massacro".
Il Pentagono ha annunciato che è stata testata la bomba non nucleare più grande della storia, con un peso di nove tonnellate e mezzo, in vista del suo possibile uso in Iraq. Due settimane prima il generale Richard Meyers, presidente del comando congiunto dello stato maggiore, ha affermato che la politica statunitense era quella di provocare uno shock all’Iraq per obbligarlo ad arrendersi, sganciando su Baghdad 3mila bombe e missili durante le prime 48 ore della campagna bellica. Funzionari militari statunitensi calcolano che 300mila soldati e civili iracheni moriranno. Le Nazioni Unite stimano che vi saranno almeno 10 milioni di iracheni morti, feriti, profughi e traumatizzati.
L’organismo fu fondato nel 1988 e il suo segretariato fu aperto a Bruxelles all’inizio del 1989.
AEFJN comprende una rete di base assai estesa di religiose e religiosi sia in Africa che in Europa.
La sensibilità e la conoscenza dei problemi africani propri alla rete garantiscono che le sue scelte, riguardanti temi da discutere e relativi interventi operativi, siano portate avanti in consultazione con le comunità africane, con i missionari che lavorano sul campo, con i responsabili della chiesa Cattolica e delle altre chiese.
di Don Mario Bandera
Passata la buriana della guerra del Golfo, sconfitto Saddam, conquistati i punti strategici di Bassora, Mossul e Baghdad, occupati i pozzi petroliferi dalla coalizione guidata dagli Stati Uniti, anche il circo massmediatico internazionale, accorso come le mosche sulle piaghe purulenti di una "sporca guerra preventiva", fa dietro front e tutto rientra nel grigio anonimato del tran tran dell'informazione soporifera dei giorni feriali.
Restano sul terreno le migliaia di morti innocenti e senza volto, falcidati da una potenza di fuoco tanto impressionante quanto imperturbabile di fronte ai lutti e tragedie causati dall'arroganza.
a cura di CEM Mondialità
Si tratta di un adattamento, curato da CEM Mondialità, della guida che Educators for Social Responsability ha messo a punto attraverso alcune domande chiave riguardo a come comunicare coi bambini sui temi difficili nel mondo ed in particolare sulla guerra e la violenza.
No, se li ascolti e rispondi a ciò che senti in un modo sensibile e premuroso. Per quanto spaventosi possano essere alcuni sentimenti, fa molto più paura pensare che nessuno sia disposto a parlarne. Se col nostro silenzio comunichiamo che questo - o qualsiasi altro argomento - è troppo spaventoso e sconvolgente per poterne parlare, allora i bambini che dipendono da noi, potrebbero sperimentare una paura in più, che cioè noi non siamo capaci di prenderci cura di loro. I bambini hanno specialmente bisogno di sentirsi sicuri nella convinzione che gli adulti nella loro vita sappiano affrontare argomenti difficili e sentimenti profondi, e che sono pronti ad aiutarli a fare lo stesso.
Alcuni potrebbero non parlarne perché onestamente non interessa loro; altri potrebbero non parlarne mai anche se è nella loro mente; alcuni hanno paura di disturbare i genitori e gli insegnanti parlandone; mentre altri sono troppo presi dai loro sentimenti per poter incominciare una discussione. Come adulti possiamo almeno cercare di valutare cosa stanno provando in modo da poter decidere se è appropriato discuterne. Potrebbe aiutarli il fatto che, con tatto, iniziamo noi stessi la conversazione. Potresti fare domande iniziali come, "Come ti senti rispetto a ciò che sta capitando nel mondo?" In seguito potresti domandare, "Che cosa tu e i tuoi amici pensate e di che cosa parlate rispetto alla situazione mondiale?" Qualunque sia la loro risposta, dobbiamo ascoltare - con attenzione e premura - ciò che i nostri bambini hanno da dire.
Ci sono molti trabocchetti nel condividere apertamente con bambini sentimenti circa avvenimenti violenti. Un pericolo serio è che potremmo caricare loro con le nostre preoccupazioni di adulti; provocando in loro nuove domande e nuove paure, un sentimento di impotenza, piuttosto che aiutarli ad affrontare i quesiti e le paure che già hanno. Qualche volta i ragazzi sentono che devono prendersi cura di noi e dei nostri sentimenti. Un altro pericolo è che potremmo bloccare l'espressione di ciò che è nella loro mente e nel loro cuore, mentre ci affanniamo ad esprimere i nostri pensieri e i nostri sentimenti, e così perdiamo l'opportunità di ascoltare quello che i bambini vogliono dirci.
Mentre ascoltiamo i bambini è importante essere interessati e attenti. Cerchiamo di capire ciò che dicono dal loro punto di vista. Non esprimiamo giudizi su ciò che dicono, nonostante di primo acchito qualcosa possa sembrare stupido e illogico Se c'è qualcosa che non capiamo domandiamo loro di spiegare. Mostrare rispetto per loro e per le loro idee è indispensabile.
Come insegnanti e genitori sanno, i bambini non sono sempre capaci di esprimere ciò che intendono e ciò che provano, e quello che dicono non sempre significa la stessa cosa per loro e per gli adulti. Qualche volta bisogna usare un po' di gentile indagine per scoprire ciò che sta dietro le prime parole che pronunciano. Commenti come, "Questo è interessante. Potresti dirmi di più a riguardo?" o, "Cosa intendi con…?" oppure, "Da quanto tempo hai questi sentimenti?" sono esempi di come far venir fuori più informazioni dai bambini senza giudicare buono o cattivo ciò che stanno dicendo.
Se sembra che stiano facendo fatica a chiarire qualcosa, può essere particolarmente utile e rassicurante aiutarli a riassumere e focalizzare le loro preoccupazioni. Per esempio, potremmo dire, "Stai dicendo che hai paura che il governo iracheno ci possa attaccare?" Oppure, "Così, sei preoccupato per i bambini che vivono nelle città che sono bombardate?". È importante essere attenti ai loro messaggi non verbali - espressioni facciali, gesti, portamento, tono della voce, e altro - che indichino la presenza di forti emozioni. È rassicurante per i bambini che gli adulti riconoscano che i loro sentimenti sono condivisibili.
Se fai delle buone domande di apertura e il bambino è chiaro che non è interessato a parlare su certi argomenti, allora non spingere oltre. Di nuovo, la cosa importante per noi è comunicare loro il nostro rispetto per i loro sentimenti. Questo si applica al rispetto del loro diritto di non parlare su qualcosa su cui non si sentono pronti. Ci sono alcuni bambini che semplicemente non sono interessati a queste cose e non c'è nessuna ragione per portarli con forza a questa consapevolezza. Per altri, il condividere ciò che provano può essere più facilmente espresso con altri mezzi oltre la parola, per esempio attraverso il gioco e il disegno.
Gli adolescenti potrebbero essere più restii a parlare se percepiscono che i loro genitori e/o insegnanti hanno opinioni diverse. Potrebbero pensare che gli adulti nella loro vita tenteranno di imporre su di loro le loro credenze. Questi giovani dovrebbero sapere che le porte della comunicazione sono aperte quando loro sono pronti. Un modo per tra smettere loro questo potrebbe essere il dire qualcosa come, ''Tu e i tuoi amici state parlando su ciò che sta accadendo in Iraq? Sarei veramente interessato di sentire ciò che pensate. Fatemi sapere se volete parlarne." È importante prestare attenzione ai segnali che i bambini mandano nel gioco, nel disegno e nello scritto, nella conversazione spontanea, e negli altri modi con cui potrebbero comunicare le loro preoccupazioni. Se osservi che stanno disegnando una scena violenta dopo l'altra, senti delle conversazione dove sembrano proporzionatamente preoccupati di violenza e di situazioni disperate, o se i tuoi bambini sembrano in qualche modo preoccupati con immagini di distruzione, allora è opportuno per te far loro sapere che hai notato questo e che ti domandi se sono disposti a dirti qualcosa di più a riguardo. Una volta che hai veramente ascoltato cosa c'è nella mente e nel cuore dei bambini, sarai in una posizione felice per poter rispondere.
È naturale e sano che ci sia una vasta gamma di emozioni circa qualsiasi particolare conflitto. Alcuni bambini saranno tristi, pieni di ansia, e anche pieni di paura per la sicurezza della loro famiglia, altri saranno confusi su come fare senso degli avvenimenti; altri ancora avranno poca reazione. Alcuni risponderanno con eccitazione e senso di attesa, mentre altri avranno un miscuglio di emozioni - paura, tristezza e preoccupazione. Alcuni risponderanno con rabbia contro le azioni dei governi iracheno e/o USA che hanno portato alla guerra. Emozioni profonde non sono insolite per bambini davanti alla morte e alla sofferenza e alle ragioni che portano la gente alla violenza. È nostro compito di adulti aiutarli ad esplorare i loro sentimenti. Questi saranno generalmente connessi con problemi di sviluppo più pressanti per loro. Per i bambini dei primi anni delle elementari di solito saranno problemi di separazione e di sicurezza. Per i più grandi delle elementari e delle medie saranno problemi di equità e di solidarietà con gli altri. Per adolescenti si tratterà spesso di questioni etiche poste dalla situazione. Ascoltando da vicino e individuando alcuni problemi sottostanti aiuterà a far sì che le tue risposte siano più feconde. In certi ambiti, così come le preoccupazioni per la sicurezza personale, possiamo trasmettere rassicurazione facendo piani specifici coi bambini su ciò che dovremmo fare in caso di una emergenza. In altri casi, come già sottolineato, il nostro compito principale è quello di essere buoni ascoltatori.
Questi "suggerimenti didattici", in edizione integrale, sono riportati nel sito www.saveriani.bs.it/cem, a cui rimandiamo.
di Alberto Bobbio
È bene tenere ancora appese alla finestra le bandiere della pace. Perché la guerra non è finita con la marcia trionfale dei carri americani sui boulevard di Baghdad. È bene tenerle ancora in vista, anche perché esse testimoniano che i colori della nostra bandiera non sfumano nei colori della bandiera dei vincitori presunti. La pace non ha vinto, almeno finora. E la guerra resta un dramma, anche. se "questa guerra" rischia di essere archiviata solo come un accapigliamento da salotto.
Diciamo subito che i pacifisti non sono stati vinti insieme a Saddam, come qualcuno suggerisce non troppo sottovoce. C'è chi si è schierato con la guerra e chi ancora si schiera con la pace. Non c'è un momento in cui si può dire che la pace c'è, e dunque non c'è più bisogno di invocarla e di farne bandiera. Almeno finora, purtroppo, è stato così. C'è la pace in Iraq? E nel resto del mondo?