Formazione Religiosa

Martedì, 29 Agosto 2006 23:55

I poveri nella Bibbia (Jean-Paul Guetny)

Vota questo articolo
(2 Voti)

I poveri occupano un posto importante nella Bibbia, dal profeta Amos a Matteo: Dio ha per essi uno sguardo particolare. Egli ha con loro una relazione privilegiata. E, secondo san Paolo, bisogna scoprire in essi l’immagine di Cristo che si è fatto povero.

Quando si parla di cristianesimo, soprattutto nella sua versione cattolica, vengono in mente due immagini contrastanti tra loro: da una parte quella di una chiesa opulenta, «i tesori del Vaticano»; dall’altra una fila di uomini di fede, dall’eremita Antonio fino al padre Joseph Wresinski (1), passando dal poverello di Assisi, che hanno scelto la via della povertà. Che essi vivano nell’agiatezza o nella miseria, tutti i cristiani accettano come riferimento la Bibbia. Chi ne dà la migliore interpretazione?

Nel percorrere questa biblioteca, si resta colpiti nel costatare il posto importante che occupano i poveri. Durante “la belle époque” (2) che costituisce l’ottavo secolo precedente l’era corrente, il profeta Amos prende la loro difesa (Am 5,11-12). Un secolo più tardi, un altro profeta, Sofonia, fa dei “poveri del paese” i promotori di un cambiamento positivo: essi sono definiti il “resto d’Israele” (So 3, 11-13). Il Deuteronomio, libro legislativo, stipula: “Che non ci siano poveri presso di te (Dt 15,14)”. I membri del popolo sono invitati a considerarsi tutti fratelli. Sono prescritte un certo numero di pratiche di solidarietà: il riscatto degli schiavi ebrei al termine del settimo anno di servizio; un anno di riposo della terra, ogni sette anni, per la condivisione con i poveri, ecc.

Il ritorno dall’esilio a Babilonia rappresenta una svolta decisiva. I poveri non costituiscono più una categoria di persone del popolo che ritorna nella sua terra, ma il popolo intero (leggi Isaia, capitoli 40-55), rappresentato sotto i tratti del servo sofferente (capitoli 52 e 53). Israele è chiamata “la mendicante” (51-21). Al capitolo 61 dello stesso Isaia, si fa allusione ad un personaggio dall’identità misteriosa - si tratta del profeta? Del Messia? Di Gerusalemme? - che dichiara: “Lo Spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato: egli mi ha mandato a proclamare la buona novella ai poveri” (v1). La parola greca corrispondente è “evangelizzare”.

Questi poveri li si ritrova nei Salmi. Spesso sono essi che prendono la parola; e Dio non resta sordo al loro grido: “Un povero grida e Dio lo ascolta e lo salva da tutte le sue angosce (34,7, secondo la numerazione ebraica).”

Ai sapienti spetta il compito di superare la stretta visione di Israele e di allargare la riflessione a tutta l’umanità.

Se arrivano a denunciare la povertà come un frutto possibile della pigrizia (vedi il libro dei Proverbi 24, 30-34) la maggior parte del tempo essi ricalcano la posizione dei profeti e prendono le difese dei poveri. “Chi opprime il povero, dice uno di essi, offende il suo creatore (Pr 14,31)”.

E’ dunque chiaro che Dio prende le parti dei poveri. Questi costituiscono l’oggetto privilegiato della sua attenzione.

Ma cosa si intende esattamente per “poveri”? E come mai questa “scelta preferenziale” di Dio nei loro confronti?

Per noi il povero è colui che possiede poche cose. Ma “il Semita - nota l’esegeta Jacques Dupont - è più sensibile all’inferiorità sociale che rende le persone di modesta condizione le prede dei potenti e dei violenti… Il povero appare come uno sprovveduto, i Giudei lo guardano come un uomo indifeso.” (3) I due principali termini ebraici per designare i poveri – ‘ani e ‘anaw, usati prevalentemente al plurale ‘anawim - fanno riferimento ad una situazione di miseria sociale. Tuttavia in alcuni testi il secondo esprime ugualmente una sfumatura religiosa.

“Cercate l’anawah”, dice Dio per bocca del profeta Sofonia (So 2,3).

Il motto ebreo è generalmente tradotto col termine “umiltà”.

Paul Bony sottolinea che non si è lontani dall’attitudine della “sottomissione a Dio” raccomandata dall’Islam.

La preoccupazione biblica dei poveri si esprime in molti modi. L’esperienza fondante di Israele e “il filo conduttore” della sua storia, è - ci ricorda Alain Durand – “la liberazione dall’oppressione subita dal popolo in Egitto” (4). Tutte le prescrizioni del libro del Deuteronomio, di cui alcune riguardano il comportamento nei riguardi dei poveri, sono inquadrate da alcune narrazioni che fanno memoria dell’Esodo (Es 6,20-24 e 26, 1-11).

“Mio padre era un Arameo errante - dice il secondo passo - egli è disceso in Egitto (…) ma gli Egiziani ci hanno maltrattati, essi ci hanno ridotto in povertà, ci hanno imposto una dura schiavitù…” E’ proprio per il fatto che Dio ha avuto pietà della miseria del popolo, che esso è chiamato a mostrare la sua solidarietà verso i miserabili. La liberazione dall’Egitto è da mettere in correlazione con l’elezione divina di cui beneficia Israele. Ora, per il profeta Amos, opprimere il povero significa andare contro questa elezione. Il popolo non è più tale quando opprime i poveri.

Ma il Dio d’Israele, afferma la Bibbia, è lo stesso Dio di tutti gli uomini. Creati “a sua immagine” (Genesi 1, 27), noi abbiamo la stessa dignità . “E’ per questo - sottolinea Alain Durand - l’esclusione del povero è un attentato all’immagine stessa di Dio”, allora che la pratica della solidarietà “renda testimonianza all’universalità dell’atto creatore”.

Sulla questione della povertà, il Nuovo Testamento assume l’insegnamento dell’Antico. Nel Magnificat (vangelo di Luca 1,46-56), Maria celebra un Dio che viene a sconvolgere le gerarchie sociali: “Abbatte i potenti dai loro troni e innalza i gli umili” (52) idea già espressa da alcuni salmi (107,40-41; 113,7-9). Gesù è presentato come il Messia dei poveri. Agli inviati di Giovanni Battista che lo interrogano sulla sua identità (Matteo 11,3 – Sei tu colui che deve venire?”- Gesù risponde citando la frase di Isaia al cap. 61: “I poveri ricevono la buona novella “.

Lo stesso testo di Isaia serve di supporto al discorso programmatico nella sinagoga di Nazaret (vedi Luca 4,16,22) ed egli aggiunge una citazione ad Isaia “per rimandare in libertà gli oppressi” (Esodo 58,6 ), “cosa che, nota Paul Bony, accentua la dimensione sociale della liberazione” realizzata da Lui.

Tutto il Vangelo è dello stesso genere. La prima delle beatitudini si presenta così: “Beati voi, poveri…” secondo la versione di Luca (6,20) di carattere sociale; “Beati voi, poveri di spirito …”, secondo la versione di Matteo (5,3) di carattere più religioso. Se i poveri sono definiti “beati”, non è in virtù di una qualsiasi superiorità ontologica, ma perché essi saranno liberati e in loro si manifesterà la potenza divina.

Nei vangeli Gesù è presentato come il povero per eccellenza. Nasce in una mangiatoia, trascorre una vita itinerante da povero, senza casa né luogo. In termini odierni lo si direbbe “senza domicilio fisso” (Lc 9,58). La sua ignobile morte è quella propria degli schiavi. Il suo ministero si indirizza dall’inizio agli esclusi del suo tempo: i poveri, i bambini, i peccatori. Egli è - scrive Alain Durand - il “destinatario insospettato” di ciò che viene fatto per i poveri. Tale è il senso dell’episodio del giudizio finale, riportato da Matteo al capitolo 25 (11-34). Il “gregge” della fine dei tempi sorpassa il solo Israele; esso si estende a tutte le nazioni.

I “prescelti” sembrano perplessi; essi non comprendono la fortuna di cui beneficiano.

Cristo ne dona la chiave: “In verità vi dico, ogni volta che avete fatto questo a uno solo dei miei fratelli più piccoli, voi l’avete fatto a me (v.40)”. A proposito di questo episodio, Paul Bony parla giustamente dell’”identità cristica dei poveri “.

La prima comunità cristiana si è ricordata di questo insegnamento. La messa in comune dei beni, costituisce, sottolinea Alain Durand, “una pratica economica nuova”: “non c’erano indigenti fra loro (Atti 4,3-4) “ E quando Paolo e Pietro si dividono la predicazione “noi verso i pagani, voi verso i circoncisi “, cioè i Giudei, c’è una cosa che non è divisa: il ricordo per i poveri” (Gal 2-10), che deve continuare ad animare ciascuno. Dio, scrive Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi, (1, 26-31) ha scelto i “senza”: senza saggezza, senza nascita, senza potenza.

con l’idea di onnipotenza… ora il Dio cristiano ha questo di paradossale, che la sua onnipotenza è percepita nel modo più giusto proprio a partire dall’idea di povertà piuttosto che da quella di forza.

Distorsioni cristiane

Alain Durand punta un certo numero di errori che si sono potuti riscontrare nella storia cristiana a proposito della povertà:

  • Il primo consiste nel ridurla ad un tema: il discorso – generoso - tient lieu de rèalitè - una solidarietà effettiva con i poveri
  • Il secondo torna a confondere l’utilizzo moderato dei beni – lo stile di vita modesto - con questa stessa solidarietà
  • Il terzo interpreta la povertà evangelica come una virtù per privilegiati, riservata a qualcuno che ne ha fatto il voto, mentre la massa dei cristiani ne sarebbe dispensata.
  • Il quarto - e su questo punto, il nostro autore cita Albert Nolan, il teologo sudafricano - risiede in una concezione “romanzesca” del povero, trasformato in una sorta di eroe. Vi è stato un tempo, scrive Nolan, una tendenza a “romanzare la vita monastica, poi quella del missionario, poi del sacerdote. Ed ora – aggiunge - entriamo in un periodo in cui si hanno idee romantiche sui poveri.”

I diritti dell’affamato

Nella sua omelia 6 Contro la ricchezza, Basilio di Cesarea (329-379), un Padre della Chiesa della regione della Cappadocia, ha alcune affermazioni nette: “Quali sono i beni che ti appartengono? Da dove tu, ricco, li hai presi? Tu assomigli a un uomo che, prendendo posto in un teatro, vorresti impedire agli altri di entrare e vorresti gioire da solo dello spettacolo al quale tutti hanno diritto… All’affamato appartiene il pane che tu hai”. Questa dottrina sarà quella della chiesa … dalla metà del IX sec. e l’inizio del XIII. Al seguito di Gilles Couvreur, che ha dedicato una tesi alla questione, Alain Durand riassume gli argomenti proposti.

  • “Ciò che la legge non permette, lo permette la necessità”. Altrimenti dice, il diritto di proprietà non è assoluto.
  • E’ un dovere del ricco assistere il povero con le sue ricchezze. “L’affamato può servirsi da solo presumendo che il proprietario (del cibo derubato) glielo permetterebbe”.
  • In questo caso non si deve parlare di furto, “perché il bene preso dall’affamato è reso comune dalla necessità”. Nella Summa teologica (II-II, quest. 66, art.7), Tomaso d’Aquino afferma: “I beni che alcuni possiedono in sovrabbondanza sono dovuti, per diritto naturale, all’alimentazione dei poveri.”

A ciò, Alain Durand aggiunge, secondo una tradizione in vigore nella Chiesa, “il fine ultimo del diritto di proprietà è quello di mettere a disposizione di tutti gli uomini i beni della terra e non solo, come sembra evidente oggi, di limitarne l’uso ai soli proprietari”.

Quando i poveri erano eretici

Il Medioevo, nota Bernard Félix, è stato “percorso da un gran numero di movimenti di rivolta contro l’indegnità del clero e contro il suo attaccamento alle ricchezze” (1). Questi movimenti di protesta hanno dato luogo particolarmente alle “eresie dei poveri”. Tutte sono state sconfitte. Solo una è riuscita ad attraversare i secoli, malgrado le persecuzioni: il movimento valdese.

Esso deve il suo nome ad un commerciante di Lione, Pietro Valdo, nato tra il 1135-1140 e morto quasi sicuramente tra il 1206-1207. Un giorno, questo uomo lascia la sua famiglia e distribuisce ai poveri i suoi beni, prendendo come “precetto imperativo” - sono le sue parole - i consigli di Gesù al giovane ricco (Matteo 19,21). Con i suoi compagni, ai quali si aggregano alcune donne, egli va per le strade – chiamati i “sandalizzati”, vivendo di elemosine, praticando il digiuno, con l’unico desiderio di seguire Gesù. L’arcidiacono Gautier Map, incaricato da Roma di informare il caso, descrive “i poveri di Lione” così soprannominati allora, come i “seguaci nudi di un Cristo nudo”.

Questi poveri laici non esitano a predicare, a partire dal Vangelo di cui hanno fatto fare anche una versione in lingua vernacolare . E’ inaccettabile per la Chiesa dell’epoca. Inoltre, queste persone vivono in comunità, fuori da ogni collegamento gerarchico. Il concilio di Verona (1184) e quello di Latran (1215) condannano i valdesi. Francesco d’Assisi conosce una sorte migliore una trentina d’anni dopo Valdo, anche se la “regola ideale” che egli propose è stata temperata dal suo ordine e dalla gerarchia ecclesiastica. Precursori dallo sguardo lungo, i valdesi aderiscono alla Riforma protestante del 1532, con il sinodo di Chanforan, in Piemonte. Oggi le due comunità più importanti si trovano in Italia e in Uruguay.

Jean-Paul Guetny

(1) Bernard Félix, L’eresia dei poveri. Vita e pensiero di Pietro Valdo (Labor et Fides, 2002). Un’opera istruttiva di un protestante ricco di simpatia per Pietro Valdo e per la chiesa da lui scaturita, facente parte del Consiglio Ecumenico delle Chiese dall’inizio.

 

Letto 8380 volte Ultima modifica il Venerdì, 11 Aprile 2014 10:42
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Search