Formazione Religiosa

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Una terapia d'amore
per una terra sofferente
di Marcelo Barros

L'ONU ha stabilito il 22 aprile come Giorno della Terra. E' il compleanno della Terra. La Terra "nacque" da una esplosione cosmica 4,45 milioni di anni fa. Allora, perché dedichiamo un giorno di venerazione in questi tempi? Perché il nostro pianeta soffre. Proprio l'ONU è garante di questa situazione: se la gente continua a vivere in questo modo da predatori, la vita sulla terra nei prossimi 25 anni sarà sotto rischio. Tutto indica che saranno solo alcuni animali molto resistenti a restare con vita.

E' questo il tempo di salvare la Terra? Come? Prima di tutto conviene curare l'essere più a rischio: l'uomo. In questi ultimi anni, Brasile che aveva 32 milioni di persone sotto il livello della povertà, adesso ha 52 milioni di affamati. Come possiamo preservare la vita se i poveri vedono la loro vita a repentaglio, sotto il peso della fame e della sofferenza provocate dalla miseria?

Certo che di fronte a quest'argomento un indigeno reagirebbe spaventato: "Per amare la Terra, curare le piante, gli animali, non è necessario fare un appello di dovere. La civilizzazione occidentale è arrivata ad un punto in cui per stabilire un rapporto di rispetto con la Terra, c'è bisogno di minacciare! Se uccidete la Terra morirete anche voi! L'umanità dovrebbe curare la natura solo per piacere e per amore. Forse è vero che in campagna un bocciolo non ci commuove ? Forse non ci motiva un bell'albero fiorito piuttosto che degli arbusti secchi! Quand'è stata l'ultima volta che ci siamo fermato davanti ad un fiore, ad un campagna fiorita, ad un cielo stellato, ad un tramonto?

Per la religione degli indigeni e degli afro-brasiliani, ogni essere dell'universo ha una sua particolare energia ed è segno di presenza di Dio. Perciò tutto è sacro, merita rispetto e deve essere trattato con venerazione e con amore. Gli indigeni dicono: tutto ha uno spirito. Gli afro-brasialiani: tutto ha anima.

Chi crede trova Dio in un rapporto amorevole che, come dice la Biblia, Lui fece e si mantiene nel potere della Sua Parola (Eb 1, 1-3). Il salmo 19 canta: "I cieli cantano la presenza di Dio. L'universo esplicita che è stato Dio il suo creatore". Quando si dice che Dio ha creato il mondo si riconosce che Lui è all'inizio di tutto è il principio, il fondamento primogenito, presente in ogni essere dell'universo, in ogni momento della storia. Nell'intimo di ogni essere c'è l'energia creativa come atto d'amore sempre in vigore. Il giudaismo ed il cristianesimo affermano che l'essere umano è stato creato per sorvegliare la Terra e per dare testimonianza di questa presenza amorosa di Dio: nella bellezza dei fiori ad esempio, nei ruscelli, nel suono del vento, ma soprattutto nel volto delle persone, fatto ad immagine e somiglianza divina.

Un documento cristiano del secondo secolo dice: cogli una pietra e lì sotto c'è Dio. Guarda gli altri come fratelli. Lì stai guardando Dio!

Il Signore disse a Caino: «Dov'è Abele, tuo fratello ?». Egli rispose: «Non lo so. Sono forse io il guardiano di mio fratello?». Riprese: «Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!» (Gn. 4, 9-10)

Domenica, 07 Agosto 2005 21:47

La luce e le tenebre (Giovanni Vannucci)

La luce
e le tenebre
di Giovanni Vannucci




Le parole: "Dio ha così amato il mondo da inviare il Figlio unigenito, non perché giudichi il mondo ma perché sia salvo" (Gv 3, 16-17); "La luce venne nel mondo e gli uomini amarono più le tenebre che la luce" (Gv 1, 5-11), rivelano l'immenso amore di Dio e la tragica presenza nella coscienza umana di una possibilità di rifiuto. Amore sconfinato da una parte, possibilità di non accoglierlo dall'altra: tra questi due poli si svolge la dolorosa vicenda dell'umanità; la via della liberazione è nell'accettare la luce riaccesa dal Figlio nel cuore dell'uomo.

C'è il mondo, c'è Dio; dopo Cristo, il mondo non è più abbandonato a se stesso, nel suo profondo opera l'energia salvifica del Figlio come presenza che plasma e guida la materia amorfa verso le sue origini divine. Quando una coscienza umana l'accoglie, comincia ad amare e a sognare; ad amare le realtà non sottoposte al disfacimento e alla corruzione, a sognare la casa del Padre dalla quale viene e verso la quale è in cammino, e così ritrova la sua vera natura di figlia regale.

Il primo incontro con la luce di Cristo rende consapevole l'anima che la sua avventura, nella carne e nel sangue, è decisiva e definitiva. O riuscirà a fissare in se stessa la luce divina, divenendo in tal modo il veicolo della presenza redentiva del Cristo eterno e immanente; o rifiuterà di lasciarsi fecondare dalla luce, e, allora, si spegnerà come scintilla caduta nel fango. Se accoglierà la luce, sarà nell'onda dello spirito vivente e la sua vicenda nel mondo, pur incontrando un termine nella morte fisica, non si concluderà per questo, ma di ciclo in ciclo continuerà la sua corsa nell'infinito, verso la meta unica e suprema che è Dio stesso. La sua vita nel mondo, nella vita terrena e fisica, assumerà per lei il significato di una necessaria esperienza, che non si conclude nel giro angusto di una vita terrena, in un corpo di carne. «Dio amò il mondo tanto da dargli il Figlio unigenito, perché chi l'accoglie non perisca, ma abbia l’infinita vita". La vita nel mondo è, per ogni anima, determinante, è la misura suprema, la suprema prova agonistica; essa decide la vita e la morte, poiché le permette la valutazione esatta di tutte le sue possibilità. Se essa, durante l'avventura terrena, si mantiene unita alla sua vera luce mentale, se non perde per sua colpa il contatto con Cristo, luce del mondo, vivrà perché Cristo è infinita vita. Chi invece, con la volontaria ignoranza, con la volontaria adesione alle tenebre del mondo, rifiuta la luce rimane nella morte, non essendo in lui comunicazione di vita e di grazia.

Esiste nell'uomo una presenza di luce che continuamente parla, ammonisce, guida, conforta, illumina, esorta: la cosiddetta voce della coscienza, che è in realtà l'interiore rapporto spirituale che, trasformato in azione psichica, si contrappone a quanto nella materia vorrebbero arrestarne il volo. L'uomo sa ciò che è bene e ciò che è male, nel suo interiore è più che convinto della necessità di non fermare la sua marcia ascensionale. Nel mondo delle forme, nel piano dell'esistenza, niente è così sicuro, così fermo, così stabile come egli sa e sente che sarebbe necessario per rispondere alla sua vera natura. L'uomo effimero, ma eterno, contrasta con la perennità delle cose labili e queste realtà labili e perenni cercano in mille modi di fermare, trattenere quel principio spirituale portato per sua natura a trascenderle.

La lotta tra le tenebre e la luce è tutta qui: o l'uomo ascolta la voce del suo spirito interno e trascende la materia, allora verrà assunto dalla luce del Figlio donato al mondo da Dio, e in lui sarà confermato illuminandosi, conservando, nella suprema illuminazione, qualcosa di peculiarmente suo: l'individualità; oppure cede alle lusinghe della forma, alle suggestioni e agli inganni della tenebra, allora morirà, disperso nei mille suoi principi costitutivi, distrutto nella sua individuale sostanza, e questa è la permanenza nella tenebra, opposta alla luminosa certezza del possesso interiore del regno di Dio. «Questo è il giudizio: chiunque fa cose vili odia la luce, chi opera nella verità va nella luce".

L'incontro con la luce del Figlio che Dio ha donato per la salvezza del mondo è un evento interiore che si effettua nella carne e che mediante il tempo si afferma nell'eternità. L'uomo da solo ben difficilmente potrebbe riuscirvi, per questo il Figlio è stato mandato, "perché non uno solo si perda di quanti a lui furono dati dal Padre". Gli ostacoli che le tenebre oppongono alla luce sono principalmente tre e tutti di natura mentali: orgoglio e presunzione di sé, in quanto io separato; chiusura egoistica a ogni altra espressione di vita; rifiuto di aderire alla verità conosciuta, in quanto implica una necessità di sacrificio. Su questi tre cardini della cattiva volontà, il potere delle tenebre cerca di agire continuamente per impedire alla luce di manifestarsi nella coscienza, cosicché venga rifiutata dalla sua dimora e l'anima rimanga in balia delle forze nemiche. Quando l'uomo, attraverso lo sforzo di ascesa, l'esercizio affinante della meditazione, perviene a eliminare questi tre ostacoli, la luce si spande liberamente in lui, gli si manifesta in pienezza di conoscimento; alla mente rapita si rivelano le cose occulte; i misteri si schiariscono; si placano, trovandosi risolti, tutti i dubbi.

Quando l'uomo capisce di avere in se stesso la luce divina, viene rivestito da essa, le sue opere diventano luminose, perché "in Dio sono compiute". Sia tale uomo colto o incolto, comunicativo o introverso, abbia in sé la forza che trascina o ne sia privo, quando parlerà tutti lo capiranno, quando tacerà il suo silenzio sarà più forte e più vero delle parole. Chi si abbandona alla luce che è in lui, con umiltà profonda, vive nell'amore col quale Dio ha amato il mondo, non perirà nelle tenebre e vivrà la vita eterna, l'infinita vita divina.

(da Adista, 7 maggio 2005)


Domenica, 07 Agosto 2005 21:34

I farisei. Scheda storica (Mauro Orsatti)

I farisei
Scheda storica
di Mauro Orsatti


 


I semi remoti del fariseismo furono posti al tempo dell'esilio, allorché gli ebrei, privati del tempio e del suo culto, trovarono luce e conforto nella Legge. Più difficile stabilire con precisione un inizio storico: certo è che a partire dal secondo secolo a.C. un gruppo di laici, che faceva dello studio e dell'osservanza della Legge un ideale, si affaccia alla ribalta della vita pubblica di Israele e finisce per condizionarla. Accanto alla classe sacerdotale e all'aristocrazia si collocano anche questi pii che prendono il nome di farisei. Si fa derivare tale nome dall'ebraico parash (aramaico perash) con il senso di «separato». Non si sa esattamente da chi o da cosa fossero separati: se dal gruppo sacerdotale che osteggiavano per la sua commistione con il mondo politico o se da uno stato di impurità, per ottemperare alla Legge, secondo quanto esprime un commento rabbinico (Sifre) a Lv 11 ,44 - 45, dove compare lo stesso nome da cui deriva «fariseo»: «Come io sono separato (parush), così anche voi dovete essere separati (perushim)». Accettando tale interpretazione, la separazione avrebbe un significato che si avvicina molto a quello di santità

Dottrina e prassi

La caratteristica più vistosa della religiosità farisaica era - a detta di Giuseppe Flavio - il rigorismo legalistico che si traduceva in una stretta interpretazione della legge e in una scrupolosa osservanza della medesima. Dall'attenzione interpretativa nasce quel sistema conosciuto e tramandato come «tradizione dei padri»: si tratta di una normativa orale che ha lo stesso valore di quella scritta (cf Mc 7, 1-13), creando però il contraccolpo di un complicato sistema di osservanze, quei «pesanti fardelli» (Mt 23,4) che Gesù cita come capo di accusa.

Nel loro credo religioso figurava una fede incrollabile nella divina provvidenza che guida la storia, una prospettiva escatologica che includeva la certezza della risurrezione, la credenza nell'esistenza degli angeli (cf At 23,8) e la viva attesa del Messia. La loro dottrina si presentava molto più sostanziosa e più profonda di quella dei sadducei (cf Mc 12, 18-27).

Il ritratto poco lusinghiero dei farisei che compare nel Vangelo deve essere integrato con quello degli altri scritti del NT: ne viene un'immagine più veritiera. Basti citare due figure illustri: Gamaliele (cf At 5,34) e lo stesso Paolo che si definisce «fariseo quanto alla legge»

(FiI 3,5). Se superiamo un poco il confine del NT, incontriamo la nobile figura di Rabbi Aqiba, morto martire verso il 125 d.C. per non tradire la sua fede.

I farisei e il giudaismo

l gruppo dei farisei (6.000 persone al tempo di Gesù, secondo il numero riferito da Giuseppe Flavio) ha un duplice merito: il primo sta nell'aver cambiato un orientamento poco lusinghiero assunto al tempo dei Maccabei, richiedendo un impegno di fedeltà a Dio che si manifestava primariamente nella scrupolosa osservanza della Legge; un secondo merito sta nell'aver permesso al giudaismo di sopravvivere dopo la catastrofe del 70 d.C. allorché Gerusalemme viene distrutta, il popolo disperso e il mondo sacerdotale scompare. Forti del loro unico tesoro, la Legge, continuano l'amoroso studio che produrrà il suo primo frutto visibile nella raccolta della Mishna verso il 200 d.C. Si fissa così un'ancora che permette ai farisei di aggrapparsi e di sopravvivere; con loro continua il giudaismo che, passando per molte traversie, è giunto fino ai nostri giorni.

(da Il Mondo della Bibbia)

Mercoledì, 27 Luglio 2005 02:23

Il suicidio (Maria Domenica Ferrari)

Il suicidio
di Maria Domenica Ferrari


Dio è il creatore, la vita è un suo dono e nessuno ha il diritto di interromperla. Il suicidio è proibito nell'islam”.

Nel Corano non ci sono passaggi che proibiscono formalmente il suicidio e i versetti che spesso sono citati a tale riguardo (IV 29; II 85) in realtà esprimono un senso di reciprocità (1).

La parola araba usata: intihâr significa uccidersi sgozzandosi; col tempo si è estesa a tutti i tipi di suicidio e con questo senso è usato in arabo moderno, turco e persiano.

Gli hadîth riportano la condanna di Muhammad: il suicida sarà escluso dal Paradiso e all'Inferno avrà come castigo la ripetizione del suo gesto (2). Muhammad inoltre avrebbe rifiutato di pronunciare le orazioni funebri per un suicida.

Per questo motivo dal punto di vista giuridico i dotti musulmani dovettero esprimersi in caso di suicidio sull'ammissibilità delle preghiere funebri, e l'opinione più caritatevole fu quella che prevalse.

Il suicidio è considerato un peccato grave, talvolta è sentito più dell'omicidio.

I problemi coniugali sono poco presenti come motivo di suicidio, non si sa se per mancaza di informazioni o per il clima sociale. Vero è che un suicidio nella vita di tutti i giorni era ed è camuffato per non farlo apparire tale.

Dall'analisi delle fonti storiche a disposizione pare che il numero sia stato scarso.

Nei paesi musulmani, tranne Giordania e Turchia, non vengono riportati nelle statistiche i dati relativi al numero dei suicidi.

La sensazione, però, è che nell'ultimo decennio il numero sia aumentato tra i musulmani che vivono in paesi non-musulmani come Gran Bretagna e Nord America.

La riprobazione che accompagna questo gesto, tuttavia, non fa del suicidio un argomento proibito, nelle fonti storiche e in letteratura è presente.

L'intenzione di suicidarsi può essere usata come arma psicologica come dal celebre sûfî Abû al-yasan al-Nûri per costrigere Dio a confermare la sua santità con un piccolo miracolo, il fatto provocò la forte riprovazione di al-Junayd (3).

In senso figurato è molto usato per indicare comportamenti volontari che espongono al pericolo come nel caso di una guerra o di digiuno. Sotto forma di metafora indica uno sforzo straordinario.

Talvolta sono citati i suicidi dell'epoca pre-islamica più celebri come re Saul, Giuda Iscariota, Cleopatra. Il costume indiano del sacrificio delle vedove è visto come una propensione di questo popolo.

I casi di non-musulmani che per rimanere fedeli alle proprie opinioni scelgono il suicidio sono riportati tra il disgusto e l'ammirazione.

Nelle opere di adab (4) è la “giusta” conclusione di una storia d'amore non corrisposta o illecita. Nel romanzo Vìs u-Râmîn (5) per l'eroina è naturale giungere al suicidio.

Il sostrato filosofico-popolare ellenico aiutò l'accettazione dell'idea che la morte è preferibile a una vita senza amore o insopportabile, opinione inconcepibile per i dotti musulmani.

Nella seconda parte dell'articolo verrà trattato il concetto di martirio nell'Islam e il rapporto tra martirio e suicidio.

Note

(1) Bausani, traduce “ non uccidersi” ma mette in nota che dal contesto sarebbe più esatto tradurre “non uccidetevi tra voi”. I commentatori musulmani accettano entrambe. La traduzione francese di D. Masson sceglie la seconda e non parla della prima possibilità.

(2) Bukhârî Sahih, hadîth 2245-2246

(3) Celebri sûfî al-Nûri (m. 907) Junayd (m.910) fu maestro di Hallâg; quasi tutte le confraternite lo includono nella loro catena di origine.

(4) Genere letterario adab è una parola che indica buone maniere, raffinatezza di pensiero, buon gusto. Testi tipici sono i manuali destinati all'educazione dei giovani di ceto elevato.

(5)
Primo poema cortese della letteratura persiana di circa 9000 versi scritto da Gurgâni (m. 1055 circa), godette di ampia popolarità influenzando l'epica cavalleresca giorgiana. Assomiglia al romanzo Tristano e Isotta.

L'undicesimo grado dell'umiltà è quello nel quale il monaco, quando parla, si esprime pacatamente e senza ridere, con umiltà e gravità, e pronuncia poche parole e assennate, senza alzare la voce…

Disarmare il terrorismo. Ma come?
di Giuseppe Scattolin


 



La questione "terrorismo" è complessa e nessuno ha in mano la soluzione pronta. Su questo non ci piove. Occorre, quindi, diffidare di tutti coloro che si presentano come "i risolutori del problema", di qualunque estrazione politica essi siano. Spero di non aver dato, nei miei interventi passati, l'impressione di avere la soluzione in tasca. Non è stata questa la mia intenzione.

Credo, però, che la violenza non faccia che esasperare le situazioni, e sono convinto che, se si vuole una soluzione a lungo termine, occorre operare in profondità per cambiare la mentalità delle persone e prevenire lo scatenarsi della violenza stessa.

Hitler, in ultima analisi, ha rappresentato un fenomeno molto limitato di esasperazione del nazionalismo tedesco... e che danni ha prodotto! Noi, oggi, abbiamo a che fare con un mondo islamico di più di un miliardo di persone e in grande espansione. Gli interventi vanno ben calcolati e non fatti all'avventura, come in Iraq, esasperando le situazioni.

Il problema di fondo è come fare perché il mondo islamico divenga parte positiva del mondo globalizzato, e non rimanga invece ostaggio delle correnti più chiuse ed estremiste. È a questo livello che va impostato un discorso culturale serio, soprattutto con i responsabili di quel mondo. Sono questi, infatti, che formano le coscienze della gente e possono, pertanto, contribuire a creare una visione nuova all'interno dell'universo musulmano, aprendolo positivamente alla collaborazione con il resto dell'umanità.

È proprio a livello di discorso culturale che noto una grande e grave mancanza da parte sia delle nostre società occidentali sia dei responsabili del mondo islamico, intellettuali in primo piano. Per evidenti interessi economici, la politica delle nostre società occidentali ha favorito i regimi e le correnti più fondamentaliste islamiche, lasciando il mondo musulmano in balia di una propaganda sempre più militante e ostile al resto del mondo. Pochi poi sono stati gli intellettuali musulmani che si sono impegnati seriamente a liberare le loro società dalla presa di tali correnti fondamentaliste (ben manovrate politicamente), disposti anche a pagare con la propria vita questo impegno per la libertà della persona umana, diventando così non "martiri di Dio" (i shuhada' di una certa tradizione islamica, in realtà martiri di un Dio assai tribale), ma "martiri per la libertà della persona umana" (salvando, in tal modo, l'immagine di Dio impressa in essa e rendendo il vero culto al Dio unico, che è il Dio di tutti).

Il dialogo interreligioso e interculturale va sviluppato a tutti i livelli: dall'impegno pratico per opere di cooperazione fra popoli e società (in questo campo esistono molte iniziative valide) fino a uno scambio culturale più profondo, in cui si è pronti a mutare la visione che si ha di se stessi e degli altri. Si deve essere pronti a fare un'autocritica della propria storia e a vedere il positivo che c'è negli altri, a comprenderli e rispettarli nella loro differenza. Solo così si potranno trovare campi di collaborazione e convivenza, basati su una nuova coscienza della persona umana, dei suoi diritti e dei suoi doveri - diritti e doveri che devono essere universali e eguali per tutti.

Dopo una storia di guerre e stragi immani, il mondo occidentale sembra essersi definitivamente avviato su una strada diversa (anche se non mancano problemi e riflussi). Oggi, esso dovrebbe (e potrebbe) aiutare gli altri popoli a porsi nella medesima direzione, per evitare gli errori da noi commessi e per dare vita, insieme, a un vero umanesimo universale.

Questa è la grande sfida del nostro secolo. Spetta a tutti raccoglierla. Soprattutto ai credenti in un Dio che è Amore e, quindi, un Dio di tutti.

(da Nigrizia, novembre 2004)

L’uomo nuovo nell'epistolario paolino
di Ettore Franco

In un'epoca di transizione molte sono le proposte di cambiamento, ma spesso la delusione succede all'illusione quando le speranze riposte in "novità" risolutrici e decisive rivelano poi la loro fallacia nella contingenza storica e mostrano il limite ineliminabile di ogni progetto umano, sempre inadeguato e mai definitivo. Per quanto velata di scetticismo, resta profondamente saggia, perché inverata dall'esperienza, l'antica affermazione: "Quel che è stato sarà / Quel che si è fatto si farà ancora / Niente è nuovo di quel che è sotto il sole / Di certe cose si dice - Guarda / Questa mai vista cosa - / E sono cose che già sono state / Nei tempi stati prima di noi" (Qo 1,9s).

Le affermazioni paoline sulla "novità" dell'essere dell'uomo, pur in scrivendosi nell'anelito profondo e perenne verso un cambiamento positivo, non si collocano su un piano emotivo o sociologico; non rispondono a un "prurito" per qualcosa di diverso (cf 2 Tm 4,3). Si fondano invece sulla consapevolezza di una trasformazione comunitaria e personale, già avvenuta e insieme tendente a una piena realizzazione, a partire da un evento decisivo, che ha segnato la vita dell'apostolo e di altri con lui, ovvero la "novità", il senso nuovo eppure antico e futuro della vita, della storia e del mondo. In questa prospettiva vogliamo leggere le poche espressioni paoline sull'"uomo nuovo", cercando di puntualizzare quale sia e come sia stata compresa l' esperienza che ha segnato la "novità" della vita di Paolo; come e in quali contesti la sua comprensione di fede sia diventata annuncio ed esortazione a camminare "in novità di vita"; come infine ciascuno di noi sia oggi chiamato a vivere e riproporre lo stesso "annuncio di novità".

1. Paolo "nuova creatura"

Nella Seconda lettera ai Corinzi Paolo scrive: "Se uno [è] in Cristo, [è] nuova creatura" (2 Cor 5,17). L'espressione dipende dall'affermazione principale, che, con formulazione concisa, presenta l'evento del Cristo per noi e la nostra nuova relazione vitale con lui: "Uno è morto per tutti: dunque tutti sono morti; ed egli per tutti è morto, affinché quelli che vivono, non più per se stessi vivano, ma per colui che per loro è morto ed è risorto" (5,14s). Il senso è poi ripreso ed esplicitato nell'affermazione finale: "Colui che non aveva conosciuto peccato, per noi peccato [Dio] lo rese, affinché noi diventassimo giustizia di Dio in lui" (5,21). In una sola parola l'evento Cristo è "riconciliazione" (5,19s), passaggio dalla schiavitù del peccato e della morte, cioè dalla non-relazione con Dio, alla libertà dei figli, cioè alla relazione con Dio. In Cristo morto e risorto si è manifestata la giustizia di Dio che, chiamando alla comunione col Figlio (cf 1 Cor 1,9), fa diventare ciascuno quello che deve essere in relazione a Dio e agli altri, già ora in questo mondo e per sempre alla fine.

Firmando la lettera ai Galati, Paolo, riprende concisamente l'argomento centrale del dibattito: "Quanto a me non sia mai che mi vanti se non nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, attraverso il quale per me il mondo è stato crocifisso e io per il mondo. Né la circoncisione infatti vale qualcosa, né l'incirconcisione, ma [l'essere] nuova creatura (o creazione)" (Gal 6,14s). In termini personali Paolo pone al centro della sua esistenza, come segno discriminante tempo e spazio, la croce di Cristo. Prima di questo evento il mondo è diviso tra circoncisi e incirconcisi, dopo non più. Coloro che pretendono fermarsi al "prima" e imporre il segno esteriore della circoncisione sono schiavi della legge, del peccato e della morte, e vanificano così la croce di Cristo, perché cercano di riportare sotto la schiavitù dalla quale Cristo ci ha liberati (cf GaI5,1). Questo "mondo di prima" non esiste più per Paolo e Paolo non esiste più per questo mondo. Nella croce di Cristo ogni cristiano è diventato "creatura nuova": "lo infatti attraverso la legge alla legge sono morto affinché per Dio viva. Con Cristo sono stato insieme crocifisso: vivo ma non più io, vive in me Cristo. La vita che ora continuo a vivere nella carne, la vivo nella fede, quella nel Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me" (Gal 2,19s).

Il tema della "nuova creazione" - già presente nell'AT ("il Signore crea una realtà nuova [bara' lhwh hadashâ]", Ger 31,22; cf ls 43,18s; 65,17) e ripreso negli scritti rabbinici per designare sia il proselita che entra a far parte della comunità d'Israele, sia l'israelita rinnovato dal perdono nella festa di capodanno - acquista per il fariseo Paolo una portata unica che illumina la comprensione della sua vita intera a partire dall'incontro con Cristo. Il passato con tutti i suoi titoli di vanto (FiI 3,5s; cf Gal 1,13s) è diventato senza valore, perdita e spazzatura (FiI 3, 7s); il presente è trasfigurato dall'intima relazione personale con il Cristo crocifisso e risorto (FiI 3, 7-11; cf Gal 1,15s), che attraverso il suo Spirito vivificante (cf 1 Cor 15,45) ha reso Paolo "figlio" col Figlio (cf Gal 4,4-6; Rm 8,15-17), "servo" libero col Servo liberatore (1 Cor 9,1.19; cf 2 Cor 4,5; Gal 1,10; Rm 1,1), "nuova creatura" (2 Cor 5,17; Gal 6,15) e "apostolo dei pagani" (Rm 11,13; cf 1,5; Gal 2,8); il futuro orienta e anima tutta la sua esistenza come corsa e lotta (cf Gal 2,2; FiI 2,16; 3,12), come quotidiano con-morire con Cristo (2 Cor 4,10s; cf FiI 3,10) per essere degno della definitiva conformazione a lui (Fil 3,21; cf Rm 8,29).

Avendo sperimentato la trasformazione radicale che l'incontro con Cristo e la conseguente intima relazione vitale con Lui hanno operato nella sua persona, Paolo può dire di se con piena consapevolezza: "Siate miei imitatori come io lo sono di Cristo" (1 Cor 11,1; cf 4,16; Fil 3,17). Si presenta dunque come un esempio vivente di quella "nuova creatura" che tutti sono chiamati ad essere e a vivere già ora, per diventarlo poi in pienezza alla fine.

2. Cristo e l'uomo nuovo

Ciò che è avvenuto in Paolo sulla via di Damasco (cf At 9,3-18) avviene in ogni credente attraverso l'adesione di fede e il battesimo.

In Rm 6,1-11 non c'è l'espressione "uomo nuovo", ma una equivalente ("camminare in novità di vita" en kainóteti zoês peripateîn, 6,4) e il suo opposto ("il nostro uomo vecchio" ho palaiòs hëmon ánthropos, 6,6). Accomunandosi ai destinatari, Paolo dice: "Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato" (6,6). Nell'affermazione traspare l'esperienza di un'esistenza inautentica, quella di Paolo e di ogni cristiano prima dell'incontro con Cristo.

L'uomo vecchio è il giudeo reso schiavo dalle pretese della legge (cf Rm 7,75), il pagano schiavo di questo mondo (cf Rm 1,225), l'uomo in genere soggetto alle insidie della "carne" (cf Rm 8,75), sottomesso alla potenza del "peccato" e alla conseguente inevitabilità della "morte" ( cf Rm 5,12). Questo "uomo vecchio" è stato "crocifisso con Cristo" quando, attraverso il rito del battesimo, è stato associato all'evento unico della morte e risurrezione del Cristo: "O ignorate che quanti fummo battezzati in relazione a Cristo Gesù fummo battezzati in relazione alla sua morte? Fummo dunque sepolti con lui attraverso il battesimo in relazione alla sua morte, in modo che, come risuscitò Cristo dai morti in forza della gloria del Padre, così anche noi camminassimo in novità di vita. Se infatti diventammo e rimaniamo dinamicamente uniti a lui in forza dell'espressione percettibile della sua morte, ma allora lo saremo anche della sua risurrezione" (Rm 6,3-5). Sulla croce, attraverso il battesimo, l'uomo vecchio, schiavo del peccato, è crocifisso, morto e sepolto con Cristo e, nella risurrezione di Cristo, grazie alla comunione interpersonale, ricevuta e accolta nell'adesione di fede, il cristiano è già partecipe della vita nuova, anche se lo sarà pienamente con la risurrezione corporea. Ecco l'uomo nuovo, che, partecipe della vita del Risorto, è "morto al peccato e vivente per Dio in Cristo Gesù" (Rm 6, 11).

Concludendo il paragone con la donna che alla morte del marito è libera di passare a un altro legame (Rm 7,2s), Paolo afferma che i cristiani, morti a ciò che li teneva legati, appartengono a un altro, cioè a colui che fu risuscitato dai morti (7,4), e con lui sono servi liberi " nella novità dello Spirito e non nel vecchiume della legge" (en kainótoti pneúmatos kaì ou palaióteti grámmatos, 7,6). Il passaggio è reale per quanto misterioso: la novità dello Spirito, comunicata una volta per sempre nel Crocifisso-Risorto e partecipata attraverso il battesimo e l'adesione di fede, trasforma i peccatori in giusti e santi, i nemici e lontani in familiari di Dio come figli e figlie nel Figlio, l'umanità egoista e dispersa nel corpo di Cristo e nella nuova creazione di Dio.

La trasformazione, avvenuta una volta per sempre sulla croce e applicata al cristiano in forza dell'adesione di fede e del battesimo, è così espressa in GaI 3,26s: "Tutti, infatti, siete figli di Dio per mezzo della fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in relazione a Cristo, vi siete rivestiti di Cristo". La fede, come adesione personale al Cristo morto e risorto, e il battesimo, come partecipazione sacramentale all'evento unico della morte e risurrezione del Cristo, comunicano il dono della figliolanza, cioè stabiliscono il credente nella nuova relazione filiale col Padre nel Figlio attraverso lo Spirito (cf GaI 4,4- 7; Rm 8,14-17). Non si tratta solo di un passaggio di proprietà/appartenenza dal potere della legge, del peccato e della morte alla potenza della fede, della giustizia e della grazia, ma di una trasformazione dell'essere. L'essere "nuova creatura" è espresso qui con "rivestirsi di Cristo". L'espressione è all'indicativo, non all'imperativo; non implica cioè l'esortazione a un rivestimento esterno e superficiale come imitare o riprodurre gli atteggiamenti o i sentimenti di Cristo, ma l'accoglienza dell'atto gratuito di Dio che comunica in Cristo il nuovo principio vitale di tutta l'esistenza, il punto di riferimento unico che trasforma tutta la vita.

Rivestirsi di Cristo è essere ri-creati in Cristo, essere figli nel Figlio unico, essere già ora incorporati al Risorto. Ed è proprio la relazione vitale col Risorto che fonda l'unità dei credenti e qualifica l'umanità nuova, nella quale le differenze - sul piano religioso tra Giudei e Greci, sul piano civile tra schiavi e liberi e sul piano sessuale tra maschio e femmina - vengono semplicemente negate: "Non c'è Giudeo ne Greco, non c'è schiavo né libero, non c'e maschio e femmina: tutti voi infatti siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3,38). Tutti i battezzati, incorporati a Cristo in forza dell'adesione di fede in Lui, formano quindi un solo "uomo nuovo" in Cristo (cf Ef 2,15), l'umanità nuova inseparabile dal Risorto.

La lettera agli Efesini così ricapitola e sviluppa in una mirabile sintesi teologica l'evento che rivela la "creazione dell'uomo nuovo" (Ef 2,14-18):

" Proprio lui infatti è la nostra pace;

egli che ha fatto dei due uno, abbattendo il muro di separazione, l'inimicizia, nella sua carne, abolendo la legge dei precetti [espressi] in prescrizioni, per creare entrambi in se stesso in relazione a un solo uomo nuovo, facendo pace, e per riconciliare con Dio ambedue in un solo corpo attraverso la croce, uccidendo in se stesso l'inimicizia.

Egli venendo annunciò pace a voi i lontani e pace ai vicini, poiché attraverso di lui e gli uni e gli altri possiamo avere accesso in un solo Spirito presso il Padre".

Il contesto richiama la divisione religiosa esistente prima di Cristo tra giudei e pagani (Ef 2,11s); "ora, in Cristo" (nynì dè en Christôi, 2,13) ogni divisione è superata in una "comunione nuova" che non mortifica nessuno, ma valorizza tutti. Non si tratta di giudaizzare i pagani odi paganizzare i giudei, ma di "creare" un nuovo modo di essere, una umanità nuova, al di là di ogni diversità. Questa è l'opera di Cristo, qualificata non solo negativamente ("abbattere", "abolire", "uccidere"), ma molto più positivamente ("fare uno", "creare", "riconciliare", "fare/annunciare pace", "diventare via d'accesso", "essere pace") .Questo è il "mistero" di Dio che si attua in Cristo e mediante Cristo. li, C'è chi riferisce " uomo nuovo " a Cristo, nuovo Adamo, capo dell'umanità nuova; ma ritengo che non si debba ridurre la pregnanza dell'espressione. Sottolineando il senso dinamico della preposizione eis "in relazione a", sembra emergere un significato più profondo. Certo, Cristo è l'uomo nuovo, perché egli ri-crea "in se stesso" coloro che rende partecipi della sua vita di Risorto; ma i riconciliati nel suo corpo dato sulla croce, pur diventando il suo corpo ecclesiale, non si confondono con lui e tra di loro, anzi, proprio per la nuova relazione ricevuta, ciascuno diventa sempre più se stesso a partire dall'unità già donata e ancora da realizzare. L'intima profonda e vitale comunione, partecipata dal Crocifisso-Risorto a chiunque aderisce a lui nella fede, è il segno distintivo della "umanità nuova" già presente storicamente nella comunità del Risorto, ma è destinata ad abbracciare e rinnovare il mondo intero in Cristo. L'uomo nuovo non è solo Cristo e non sono solo i suoi, ma Cristo con i suoi, anzi Cristo tutto in tutti (cf Col 3, 11), attraverso lo Spirito, in relazione con l'unico Padre.

3. La nuova esistenza nel Signore

Tra l'essere già "nuova creatura" e il diventarlo completamente e definitivamente, c'è tutta la responsabilità personale e comunitaria dell'esistenza in questo mondo. Il dono di Dio, comunicato una volta per sempre nell'evento della croce e partecipato a ciascuno attraverso l'adesione di fede e il battesimo, esige l'impegno a vivere nella libertà dei figli e nella fedeltà al dono ricevuto. L'indicativo dell'agire salvifico di Dio per noi fonda l'imperativo della nostra risposta coinvolgente, della nostra partecipazione all'unica opera del Cristo, alla realizzazione dell'umanità nuova. Perciò l'Apostolo esorta: "Non conformatevi alla mentalità di questo mondo, ma trasformatevi nella novità (têi anakainosei) della mente, per poter discernere qual è la volontà di Dio" (Rm 12,2).

La "novità della mente" implica la "nuova mentalità" del cristiano in forza della sua relazione interpersonale con Cristo: "Noi abbiamo la mente di Cristo" (1 Cor 2,16). La conformazione alla "mentalità" di Cristo continua a operare il rinnovamento dell'esistenza cristiana in questo mondo, sotto la guida dello Spirito. Nella lettera ai Galati così si conclude l'esortazione a "camminare secondo lo Spirito" (Gal 5,16): "Coloro che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Se viviamo secondo lo Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito" (GaI 5,24s).

Il cammino nello Spirito segna la nuova esistenza in Cristo. Pur rimanendo esposto all'ambiguità di questo mondo e alla precarietà di un'esistenza sempre minacciata dalla debolezza individuale e sociale delle persone e delle strutture, il cristiano, già "nuova creatura" e già "ri-creato in Cristo", deve lasciarsi conformare sempre più dallo Spirito a immagine di Colui che è e deve essere "primogenito tra molti fratelli" (Rm 8,29; cf 12,2; 2 Cor 3,18; GaI 4,19; FiI 3,10.21), vivendo le relazioni autentiche proprie dell'"uomo nuovo".

È quanto emerge in tutte le esortazioni, ma particolarmente in quelle della lettera ai Colossesi, dove troviamo l'espressione "svestirsi dell'uomo vecchio per rivestirsi del nuovo" (CoI 3,9s).

Per la nuova relazione vitale con Cristo, il crocifisso Risorto, lo sguardo del credente è rivolto alla nuova dimensione, al senso nuovo che la realtà acquista dall'alto, cioè dal modo con cui Dio vede e provvede a partire dalla risurrezione. La vita dei cristiani partecipa già di questa realtà nuova (3,1.2), ma è ancora "nascosta con Cristo in Dio" (3,3). Sarà manifestata visibilmente alla fine, "quando si manifesterà Cristo, la vita nostra" (3,4). Nel frattempo spetta ai cristiani far vedere nella contingenza storica la novità di vita di cui sono già partecipi. Perciò le esortazioni negative "fate morire... deponete... non mentitevi" (3,5.8.9), con due cataloghi di vizi della condotta di una volta (3,5.8), e la serie di quelle positive introdotte da "rivestitevi" (3,12-17), con il catalogo delle virtù, orientate e animate dal vertice dell'"amore, che è il vincolo della perfezione/compimento" (3,14).

Il passaggio dalle relazioni negative a quelle positive è fondato sulla trasformazione già avvenuta e tendente al suo pieno compimento: "vi siete svestiti dell'uomo vecchio con le sue azioni evi siete rivestiti del nuovo, quello che si rinnova in rapporto alla conoscenza secondo l'immagine di colui che lo ha creato" (3,9s). La trasformazione già donata implica l'impegno di un passaggio quotidiano dal vecchio al nuovo e una crescita continua nella conoscenza che conforma all'immagine del Cristo e attraverso Cristo all'immagine di Dio.

Come ha scritto R. Schnackenburg, l'uomo nuovo è l'uomo intimamente chiamato alla comunità, l'uomo che esercita e irradia l'amore comunicativo di Dio, che si pone a disposizione anche della "edificazione della società umana" non soltanto in un significato esteriore, ma edificando e consolidando dall'interno i gruppi umani e le strutture sociali. Egli non può abbandonarsi, a causa di una responsabilità morale, a nessun egoismo, a nessuna particolaristica tendenza al potere, a nessun desiderio di un proprio arricchimento a danno degli altri; in breve, egli è I'uomo sociale che, tuttavia, non perde mai di vista la sua dignità personale".

Volendo formulare in annuncio per l'uomo d'oggi il messaggio di Paolo, possiamo dire con le parole di un altro grande teologo: "Come a nessuno è permesso di sfuggire all'umanità, per rivendicare un destino speciale, così anche tutta I 'umanità deve morire in ogni suo membro per vivere - trasformata - in Dio. Questo è l'inizio e la fine dell'annuncio cristiano. Questa è la legge che è stata data all'umanità in ciascun singolo uomo, poiché ciascuno è responsabile per tutti e porta, secondo la sua parte, il destino di tutti".

(da Parole di Vita)

Chiesa e Islam in Italia
di Giovanni Paolo Tasini


 


La presenza mussulmana in Italia è destinata a crescere in modo rilevante. Essa, motivata essenzialmente da ragioni economiche e dalla ricerca di un lavoro, è fonte di un dibattito non solo a livello politico (con le conseguenti scelte legislative) ma anche all’interno delle comunità ecclesiali. La preoccupazione è quella del mantenimento dell’identità cristiana dei popoli europei e del carattere cristiano dei valori dell’Europa e della sua cultura.

Il dibattito sulla presenza mussulmana in Italia, sul significato e le caratteristiche di questa presenza, sui problemi che essa apre e sempre più aprirà per la società italiana, è ormai uscito dal gruppo ristretto di pochi interessati e sta diventando un dibattito pubblico destinato a coinvolgere e a dividere i diversi ambienti, civili e religiosi, del nostro paese.

Nel panorama plurale della comunità mussulmana in Italia emerge la minoranza "islamista", molto attiva e sostenuta da alcuni paesi mussulmani, che dà vita ad associazioni, moschee, sale di preghiera, istituti culturali, ecc.

Gli "islamisti" rifiutano una concezione privatizzata della religione, si propongono come rappresentanti della comunità mussulmana presso lo Stato italiano, e il loro obiettivo principale, nei paesi mussulmani come in Europa, è quello di "reislamizzare" i mussulmani, riportarli cioè alla "fede autentica", all’Islam originario, in cui la sharìa, la legge di ispirazione religiosa, domina tutta la vita, privata e pubblica, religiosa e politica, della comunità mussulmana.

La situazione in Italia e la posizione ecclesiale

A motivo della massiccia e inevitabile immigrazione mussulmana (la demografia, il mercato del lavoro e la posizione geopolitica dell’Italia rendono non evitabile l’immigrazione dei paesi mussulmani che si affacciano sulla sponda meridionale del Mediterraneo) la presenza mussulmana in Italia è destinata a crescere in modo rilevante, a organizzarsi sempre più, e a porre in modo sempre più visibile le questioni relative alla propria identità.

Di fronte a questa prospettiva, e nel quadro dell’attuale contesto internazionale, anche i rappresentanti della Chiesa italiana hanno iniziato ad esprimersi. (Per una panoramica dell’Islam in Italia e una discussione delle principali posizioni nella società e nella Chiesa italiana si veda: R. GUOLO, Xenofobi e xenofili, Laterza 2003).

Se è vero che dalla metà degli anni Ottanta alla metà degli anni Novanta, il rapporto della Chiesa con l’immigrazione è stato guidato da organizzazioni come Caritas e Migrantes, e che da queste gli immigranti mussulmani sono stati guardati – alla stregua degli altri immigrati – come "fratelli" e bisognosi, tuttavia una parte significativa del corpo ecclesiale non condivideva questa linea di apertura e di dialogo verso i mussulmani.

Il dissenso verso la linea del dialogo, proveniente dall’ala del clero più tradizionalista e dai vescovi più legati all’idea di cristianità come tradizione europea, ha trovato negli ultimi anni espressione in alcune voci autorevoli dell’episcopato italiano.

Pur nella diversità dei giudizi e delle posizioni, si può forse dire che buona parte delle argomentazioni gira attorno all’idea dell’identità cristiana della società europea e del carattere cristiano dei valori e della cultura dell’Europa.

Questa insistenza sullo stretto legame fra l’identità cristiana e l’identità dell’Europa o dell’Occidente avviene nel momento storico nel quale da un lato il "modello di cristianità", in crisi da almeno due secoli, è in piena dissoluzione; dall’altro, l’"Occidente cristiano" affronta con la forza delle armi la protesta del mondo povero e in particolare la sfida del mondo mussulmano.

L’insistenza sull’identità cristiana rischia perciò di essere sempre più una insistenza sull’Occidente e i suoi valori e la sua cultura: la cui difesa, quindi, diverrebbe al contempo anche la difesa della Chiesa e della fede cristiana.

Quanto il discorso sull’identità cristiana possa essere problematico lo si vede se si allarga lo sguardo al di là dell’Europa e dell’Occidente, e si considera la crisi delle missioni della Chiesa nel mondo, particolarmente nelle aree mussulmane del mondo e nella grande Asia.

Cristianesimo o cristianità? Un dibattito antico e sempre nuovo...

Si tratta di una crisi che non è spiegabile soltanto come l’effetto di un "calo o mancanza di fede" all’interno della Chiesa – come da alcune parti si va ripetendo.

Essa fa parte di quella crisi epocale nella storia della Chiesa che si ha ormai la consuetudine di chiamare fine della "cristianità" o del "modello di cristianità".

Proprio le missioni sono la verifica più importante di questa crisi; proprio là diventa evidente la problematicità dell’identificazione o dell’insistenza sullo stretto legame fra identità cristiana e cultura europea o occidentale.

I cristiani pakistani uccisi dalla Messa domenicale nell’imminenza dell’intervento anglo-americano in Afganistan, sono stati uccisi indubbiamente perché cristiani: ma chi li ha uccisi, li ha uccisi perché cristiani, o li ha uccisi perché – essendo cristiani – potevano rappresentare per lui l’"Occidente cristiano"?

Uno sguardo più universale sulla Chiesa mostrerebbe alle Chiese di Europa che esse hanno bisogno di ripensare a fondo il modo di concepire la propria presenza nella società della futura Europa multi-etnica e multi-religiosa: invece di insistere sul legame fra identità cristiana e cultura europea, invece di vagheggiare un’ "Europa cristiana" che non ci sarà, le comunità ecclesiali europee hanno bisogno di educarsi a distinguere la propria appartenenza alla cultura europea dall’appartenenza al Corpo del Cristo, appartenenza per sua natura universale, e che non può coincidere con alcun popolo e alcuna cultura.

La fine della "Cristianità" non è la fine della Chiesa: e la prevedibile futura condizione di "minorità", un’effettiva "marginalità storica", potrà aiutare la Chiesa a comprendere e ad esprimere in modo rinnovato la sua natura più profonda, che è una natura essenziale anti-identitaria o sovra-identitaria:
"dove non c’è greco e giudeo, circoncisione e incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma tutto e in tutti Cristo" (Col 3,11).

A partire da una simile prospettiva, a un tempo liberante e capace di guardare al futuro con realismo e speranza evangelica, si comprende quanto siano equivoche le varie "guerre dei crocifissi" che già si manifestano nel nostro paese; o quanto sia improprio, dal punto di vista cristiano da parte della Chiesa, invocare un principio di reciprocità rispetto ai paesi mussulmani: cadendo oltre tutto in un doppio paradosso: quello di presupporre una larga coincidenza fra Chiesa e società europea, che oggi più non esiste e sempre meno esisterà; e quello di pensare che uno Stato, laico per definizione, dovrebbe o potrebbe svolgere un tipo di funzione corrispettiva a quella che nei paesi mussulmani svolge lo Stato, che per definizione è uno Stato mussulmano.

Infine, l’acquisizione da parte delle comunità ecclesiali di un senso profondo, purificato e sovra-identitario della natura della Chiesa è condizione indispensabile sia per il dialogo che per la testimonianza nei confronti della comunità mussulmana.

Se è vero che coloro che criticano l’apertura e il dialogo con il mondo mussulmano possono cogliere effettive ingenuità e impreparazione in chi conduce il dialogo, è ancor più vero che è necessaria una radicale purificazione e riformulazione del senso dell’identità cristiana, da essi tanto insistentemente sottolineata.



Francesco e le vie della pace
di p. Hermann Schalück OFM


La riflessione che vogliamo fare si situa in un contesto storico particolare, segnato da forti tensioni da intensi bagliori di guerra. (…) La situazione irrisolta nell'Afghanistan e la minaccia della nuova guerra contro l'Iraq interrogano, in maniera inquietante, sulla volontà che muove gli uni e gli altri a non proporre nessun altra possibilità che lo scontro tra le culture e l'uso delle armi. (…) La nostra fede nel Dio della bontà e della pace, creatore di tutti, ci scuote dal torpore della violenza inevitabile (o meglio, presentata tale) e ci pone di fronte alla necessità di camminare insieme. (…) L'altro, chiunque egli sia, è figlio del Padre celeste, è uno per il quale Gesù Cristo ha dato se stesso; quindi è un fratello. (…)

In un eremitaggio situato sopra Borgo San Sepolcro, venivano di tanto in tanto certi ladroni a domandare del pane. Costoro stavano appiattati nelle folte selve di quella contrada e talora ne uscivano, e si appostavano lungo le strade per derubare i passanti.

Per questo motivo, alcuni frati dell'eremo dicevano: «Non è bene dare l'elemosina a costoro, che sono dei ladroni e fanno tanto male alla gente». Altri, considerando che i briganti venivano a elemosinare umilmente, sospinti da grave necessità, davano loro qualche volta del pane, sempre esortandoli a cambiar vita e fare penitenza.

La situazione descritta è emblematica, comunque traducibile nel mondo globalizzato. Uomini rintanati nel bosco si procurano da mangiare facendo del male ad altri. Le reazioni suscitate sono diverse: c'è chi si oppone loro, forte del principio (rubare è male), c'è chi talvolta condiscende, considerando che sono persone nel bisogno (hanno fame e domandano umilmente). Oggi forse si potrebbe pensare a una terza reazione: cercare di eliminare i ladri, cosicché non facciano più del male. (…)

Ed ecco giungere in quel romitorio Francesco. I frati gli esposero il loro dilemma: dovevano oppure no donare il pane a quei malviventi? Rispose il santo: «Se farete quello che vi suggerisco, ho fiducia nel Signore che riuscirete a conquistare quelle anime». E seguitò: «Andate, acquistate del buon pane e del buon vino, portate le provviste ai briganti nella selva dove stanno rintanati, e gridate: “Fratelli ladroni, venite da noi! Siamo i frati, e vi portiamo del buon pane e del buon vino” Quelli accorreranno all'istante. Voi allora stendete una tovaglia per terra, disponete sopra i pani e il vino, e serviteli con rispetto e buon umore. Finito che abbiano di mangiare, proporrete loro le parole del Signore.

Chiuderete l'esortazione chiedendo loro per amore di Dio, un primo piacere, e cioè che vi promettano di non percuotere o comunque maltrattare le persone. Giacche, se esigete da loro tutto in una volta, non vi starebbero a sentire. Ma così, toccati dal rispetto e affetto che dimostrate, ve lo prometteranno senz'altro.

E il giorno successivo tornate da loro e, in premio della buona promessa fattavi, aggiungete al pane e al vino delle uova e del cacio: portate ogni cosa ai briganti e serviteli. Dopo il pasto direte: “Perché starvene qui tutto il giorno, a morire di fame e a patire stenti, a ordire tanti danni nell'intenzione e nel fatto, a causa dei quali rischiate la perdizione dell'anima, se non vi ravvedete? Meglio è servire il Signore, e lui in questa vita vi provvederà del necessario e alla fine salverà le vostre anime”. E il Signore, nella sua misericordia, ispirerà i ladroni a mutar vita, commossi dal vostro rispetto ed affetto».

Francesco suggerisce ai frati di entrare in dialogo con i "ladroni" con passi successivi: andare incontro a loro là dove si trovano, portare loro ciò di cui hanno bisogno, rivolgere loro la parola. In altre parole, occorre escludere ogni pregiudizio, ogni precomprensione negativa, così da proporsi in modo amabile, rispettoso, "cortese", non aggressivo. (…)

Il nostro mondo globalizzato conosce contrapposizioni pianificate, con un'estensione e una virulenza pari a quella dell'accresciuto avanzamento della tecnologia. Lo stabilizzarsi di logiche di conflitto e l'aprirsi di sempre nuovi scenari di guerra ci dicono come sia faticoso, e possa apparire arduo se non talvolta utopistico, lo sviluppo di una globalizzazione della solidarietà e della fraternità. (…) Si tratta di avere uno sguardo pieno di amore e contemplativo sulla realtà, sulle speranze e paure e minacce che segnano il cuore dei nostri contemporanei; di camminare verso e con loro, verso e con i poveri e i deboli; di avere il coraggio di riflettere radicalmente sui modelli di pensiero esistenti, istituzioni, opere e strutture nella Chiesa e nella nostra famiglia religiosa, poiché non è sempre così chiaro se siano coerenti con le esigenze radicali del vangelo delle beatitudini. (…) Siamo - e quindi dobbiamo essere - i portatori di una nuova cultura della solidarietà. Una tale cultura nasce dalla convinzione che lo Spirito di Dio opera in ogni essere umano; dalla convinzione che ogni fratello è un dono. (…) Francesco ci invita a liberare i nostri gesti e le nostre parole dalla paura, e quindi a non difenderci, a non minacciare l'altro, a non esprimerci in termini di (presunta) superiorità. (…) Siamo persone di dialogo se sviluppiamo la disponibilità ad ascoltare le ragioni dell'altro e a non darne un'interpretazione previa, nella convinzione che non esiste chi abbia il monopolio della verità, a meno che non ci si voglia ergere a detentori e arbitri del potere e delle ricchezze. Ma in tal caso, la pace è esclusa a priori.

L'alterità è elemento di cruciale importanza, che ci porta a riconoscere l'altro al di là della nostra identità, senza ridurlo a noi stessi, ai nostri interessi, ai nostri sogni, alla nostra cultura. (…) Rinunciamo a essere padroni assoluti della verità. Rinunciamo a inquadrare tutto e tutti in ciò che è solamente relativo nel mio o nel nostro mondo culturale. Ritengo che siamo tenuti a formarci non solo al dialogo, ma ad una esistenza che sia essa stessa dialogica. (…) Gli altri hanno il diritto di voler vedere in noi una parabola di dialogicità, e quindi di riconciliazione, di accoglienza reciproca.

(…) Il cammino verso la pace consiste nel realizzarla dentro se stessi, attingendovi la forza per prendere l'iniziativa e perseverare nell'andare incontro all'altro per primi; poiché nelle situazioni di stallo, il cammino verso il dialogo consiste nell'offrirlo senza porre condizioni. Troppi conflitti oggi stanno incancrenendosi perché si pretende solo dagli altri il primo gesto di pace, o meglio di non offesa, e non ci si preoccupa dì creare le condizioni affinché ciò sia possibile. Oppure si segue la logica dell'attacco preventivo quale deterrente di un possibile attacco offensivo.  (…)

I fatti dell'11 settembre 2001 e ciò che ne è seguito ha creato un clima in cui le sensazioni prevalgono sulla conoscenza, e ne derivano giudizi superficiali e semplicistici riguardo alla cultura e alla religione altrui, in particolare nei confronti dell'Islam. (…) Ogni persona, ogni religione partecipa in qualche modo, all'unica missione dell'unico Dio nella storia. L'incontro e il dialogo aiutano ciascuno a vedere e riconoscere nell'altro le vestigia Dei, ad ascoltare i semina Verbi nelle parole che esprimono la fede dell'altro: siamo, tutti, immagine del creatore. A noi, che crediamo nel Dio della vita che ha mandato il suo Figlio per noi morto e risorto, tocca il compito - ed è urgente - di promuovere luoghi comuni di vita, di preghiera, di solidarietà, dove si instaurino e si apprenda a instaurare relazioni basate sulla reciprocità, sul dialogo, sul rispetto, sull'ascolto. (…)

Non prevalgano stili di vita e di pensiero che avvalorano i concetti di guerra santa e di guerra giusta, poiché l'unica giustizia e santità è quella della pace. Occorre essere attenti e forse anche aiutare gli altri a smascherare intenti di soppressione dell'altro nascosti sotto proclami dal sapore biblico e in generate religioso, che strumentalizzano il nome di Dio asservendolo ad una religione laica che cerca solo l'affermazione di chi la professa su tutti gli altri. È quanto sta accadendo in occidente (vedi le dichiarazioni di Bush nel promuovere la guerra al terrorismo), che così ricopia ideologicamente gli atteggiamenti del fanatismo islamico. Il dialogo al contrario, e quello interreligioso in particolare, facilita l'emergere delle forze positive che ciascuno ha al suo interno. (…) Francesco suggerisce ai frati di portare del cibo ai ladroni. La loro concreta necessità era quella di sfamarsi, e i frati sono invitati a provvedervi con dignità, non dando gli avanzi: buon pane, buon vino, uova, formaggio, serviti su una tovaglia. I frati devono mettere sulla mensa dei "ladroni" più di quanto non ci fosse sulla loro stessa mensa!

(…) Essere uomini di pace non è diverso da essere uomini che hanno a cuore l'integrità e la qualità della vita, e quindi che si impegnano affinché sia eliminato lo spettro degli attentati alla vita. Oggi questo si diffonde attraverso l'esclusione dei più poveri, la dominazione sui più deboli e si radicalizza nella pratica del terrorismo, dei fondamentalismi radicali e in molteplici forme di violenza, sia personali che strutturali. Ed è la violenza il contrario della pace. Siamo chiamati a contrapporci ad ogni forma di ingiustizia. prendendo coscienza dei sistemi di esclusione e dell'attuale ordine internazionale, che sacrifica vie umane secondo una logica propria.

Occorre che siamo disposti ad aprire gli occhi, a conoscere la realtà così com'è nella sua complessità, a non accontentarci di informazioni superficiali e, tutto sommato, innocue per la nostra tranquilla routine, anche religiosa. (…) Disinformazione e informazione parziale o falsata è violenza che si subisce in misura crescente, se non si opera un discernimento, una lettura attenta e critica. Il mondo globalizzato ha nello scambio rapido di informazioni un punto essenziale di forza e i mezzi di informazione sono un centro di potere il cui controllo diviene determinante per la tutela o la limitazione della libertà e della democrazia.

(…) Albert Einstein aveva detto: «Il mondo sarebbe differente se finalmente si facessero tanti investimenti in favore della pedagogia e della ricerca della pace e della non-violenza, quanti finora ne sono stati fatti per preparare e per condurre le guerre».  (…)

Senza sminuire il valore della presenza pacifica e pacificatrice delle nostre fraternità maschili e femminili, contemplative e apostoliche, vive e operanti nelle diverse culture, mi pare che il nostro tempo ci provochi e ci stimoli ad acquisire competenze adeguate così che il carisma e la spiritualità di cui viviamo possano dare un impulso positivo ai desideri e alle grida di pace che si levano dai Balcani, dal Congo, dal Rwanda, dall'Afghanistan, dal Medio Oriente, (…) dalle nostre città impaurite.

Il mio sogno, o meglio la mia proposta, è che tutti i membri della famiglia francescano-clariana si compromettano in maniera visibile, pubblica - con una sorta di promessa solenne, o forme analoghe - in favore della non-violenza attiva come è stata vissuta da Gesù e anche da Francesco. Dobbiamo comprometterci divenendo strumenti effettivi di giustizia, dì pace. di dialogo: e questo prima e più con lo stile di vita che con le parole: poiché l'opzione fondamentale per la giustizia e la pace, unita alla tutela del creato e alla promozione della vita in ogni sua manifestazione, non è un elemento accessorio, bensì costitutivo della nostra risposta di fede all'amore donatoci dal Padre in Cristo. Non possiamo mettere tra parentesi ciò che è parte della nostra promessa essenziale: osservare il santo vangelo del Signore Gesù.

Non si può dimenticare che la pace è frutto della giustizia e che «per costruire la pace si richiede anzitutto che vengano sradicate le cause di discordia tra gli uomini e in modo speciale le ingiustizie» (Gaudium et Spes, 3). L’economia globalizzata ha già offerto chiari segnali di ingiustizie globalizzate... Le risorse ci sono, ma sono mal distribuite, e il meccanismo del cosiddetto neo-liberismo è tale per cui i ricchi si arricchiscono e i poveri sono sempre più poveri e in numero crescente. (…) Le discussioni sulla riduzione del debito internazionale o la sua cancellazione per i paesi più poveri non hanno ancora offerto soluzioni e azioni determinanti. Spesso le oligarchie al potere nei paesi del sud tutelano gli interessi dei paesi ricchi, dai quali sono sostenute. Come percorrere una strada comune se non si parte dalla consapevolezza che i beni della creazione sono a disposizione di tutti e non appannaggio di alcuni?  (…)

Come figli di Francesco abbiamo qualcosa da dire e da proporre. Francesco ci ricorda che ogni bene viene dal Signore Iddio e che a lui va restituito con rendimento di grazie. Il rapporto con i beni è un rapporto di gratuità e di gratitudine, aperto perciò alla condivisione. (…)

Non ci può essere nei confronti del consumismo, da parte nostra, altro atteggiamento che il contro-segno, una vera specie di controcultura evangelica frutto dell'ascolto della Parola e della sequela del Signore Gesù, il quale per noi si fece povero per farci ricchi per mezzo della sua povertà. (…) Il voto di povertà è anche o forse soprattutto un processo doloroso di continua formazione alla solidarietà e alla compassione verso coloro che sono i veri poveri: sono loro i nostri maestri, e non viceversa, Di fatto, possiamo chiederci: siamo disposti a mettere le nostre risorse a disposizione delle grandi sfide del mondo di oggi: i diritti delle minoranze etniche- culturali-religiose (e non solo di quelle cristiane), la distribuzione più equa dei beni della creazione e la tutela del creato, l'impostazione di un ordine mondiale più umano, in cui il processo di globalizzazione sia realmente a servizio dell'uomo, e in particolare di coloro che non contano?

In sintesi, credo che il nostro servizio alla pace, alla giustizia, alla salvaguardia del creato rappresenti un aspetto vitale del nostro essere una fraternità chiamata a vivere ed annunciare il Vangelo nella nostra epoca. (…)

La prima delle priorità francescane consiste, biblicamente parlando, nel cercare il regno di Dio. E secondo le parole di Francesco, la cosa più importante che noi dobbiamo fare è quella di possedere «lo Spirito del Signore e le sue opere». Ciò include l'esperienza di Dio, così come ci si manifesta nella Scrittura, nella preghiera, nei sacramenti e nella storia. E include anche, e fin dall'inizio, la guarigione dei malati, la liberazione della pienezza di vita per tutti, così come il Signore stesso l'ha promessa. Sono indicazioni chiare per una spiritualità globale e per un servizio globale. Come Francesco, dobbiamo incominciare a servire il Signore andando incontro a Gesù povero e oppresso nella nostra storia, ai "ladroni" del nostro mondo. Allora il nostro servizio alla pace sarà realmente espressione della relazione vitale con Dio, che ci educa quotidianamente a una spiritualità incarnata, in cui l'aspetto interiore e quello socio-politico sono i due volti dell'amore. (…)

(da una conferenza tenuta presso l'Istituto Teologico Sant'Antonio di Padova il 23 novembre 2002.  Una versione più ampia - non integrale - in: Testimoni, Bologna, EDB, n. 1, 2003).


Search