Mondo Oggi

Luca Marcucci

Luca Marcucci

Venerdì, 18 Gennaio 2008 18:56

Per non perdere la bussola - SERVE PROFEZIA

Per non perdere la bussola
SERVE PROFEZIA

di Alex Zanotelli
Dossier Nigrizia / ottobre 2007

Nel suo libro, Il sogno europeo, l’economista statunitense Jeremy Rifkin scrive: «L’Europa è diventata la nuova «città sulla collina»: il mondo sta guardando a questo nuovo esperimento di governo transnazionale, sperando che offra quell’indicazione così necessaria riguardo alla direzione che l’umanità globalizzata deve prendere. Il sogno europeo, con l’accento che pone sull’inclusività, la diversità, la qualità della vita, la sostenibilità, i diritti umani universali, i diritti della natura e la pace, è sempre più affascinante per una generazione ansiosa di essere connessa globalmente e, nello stesso tempo, radicata localmente. È mia convinzione che l’Europa si trovi ottimamente posizionata tra i due estremi dell’individualismo americano e dell’eccessivo collettivismo asiatico, per fare da battistrada verso la nuova era». Ma è questa l’Europa?

L’”esperimento Europa” è iniziato in chiave economica ed è rimasto tale. L’Ue è l’Europa dei mercati, dove pesano le lobby, cioè i gruppi d’interesse. Si calcola che a Bruxelles ci siano 2.600 lobby, con 15miIa dipendenti, che fanno sistematica pressione sulle istituzioni Ue. Secondo l’Osservatorio europeo delle imprese, il 70% di questi lobbisti rappresenta la grande industria.

Realizzato il mercato unico, il Trattato di Maastricht ha fornito le modalità e i criteri per la politica monetaria e la moneta unica, in applicazione del neoliberismo di Reagan e della Thatcher: innalzare i profitti, contenendo i salari; rendere il mercato del lavoro più flessibile per stimolare la produzione. Dunque, Maastricht struttura l’Europa dei mercati.

Con la caduta del muro di Berlino (‘89), sono entrati in gioco, del tutto imprevisti, i paesi dell’Est europeo. Una grande opportunità per l’industria Ue: acquisizioni di aziende sottocosto, delocalizzazione della produzione più tradizionale in aree a basso costo di manodopera e un nuovo mercato di oltre cento milioni di persone. Di qui, le pressioni sull’Ue perché agganci questi paesi.

E non va dimenticato che Washington ha spinto i paesi dell’Est a entrare nell’Ue, perché così potevano essere ammessi alla Nato. Per quella via, gli Usa speravano di rilanciare la propria industria bellica, modernizzando gli obsoleti arsenali del Patto di Varsavia. Questa politica ha reso l’Ue prigioniera della Nato, che da organizzazione di difesa è diventata di offesa. Dal 1999 (vertice di Washington) la Nato interviene ovunque gli interessi vitali occidentali siano minacciati; dal 2002 (vertice di Praga) sposa la guerra preventiva.

Traiamo alcune conclusioni: a) l’Europa è stata costruita con un approccio orientato a una scelta economica di natura ideologica; b) si basa sulla crescita del Pil come motore di sviluppo; c) si presenta con disuguaglianze sempre crescenti; d) non è in grado di ripudiare la guerra.

Si potrebbe dire con Jean-Paul Fitoussi, direttore del Rapporto annuale sullo stato dell’Ue, che «oggi in Europa abbiamo un governo delle regole ispirato ai principi del mercato di cui sono custodi la Banca centrale europea, il Patto di stabilità e la Direzione per la concorrenza; non abbiamo, invece, un governo delle scelte su cui possono pronunciarsi i cittadini».

COMPETERE E INTEGRARE

Questa tendenza diventa ancora più evidente con la Strategia di Lisbona e il Processo di Barcellona. Con il vertice di Lisbona (2000), la crescita della competitività e del dinamismo economico è l’obiettivo dell’Ue. Ciò scaturisce dalla necessità di recuperare il divario degli anni ‘90 tra la forte crescita dell’economia americana, più flessibile e competitiva, e la quasi stagnante economia europea.

Ma un sistema economico-politico che fa della stabilità uno dei propri punti di forza ha interesse a ritrovare la stessa stabilità alle frontiere. Di qui, la necessità di favorire lo sviluppo e la stabilità delle regioni limitrofe, che agiscono da vere e proprie zone cuscinetto alle frontiere dell’Ue. E il Processo di Barcellona, inaugurato nel 1995, coinvolgendo Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto, Israele, Giordania, Autorità Palestinese, Libano, Siria, Turchia, Malta e Cipro. È la cosiddetta politica di prossimità. Gli obiettivi sono: la collaborazione in campo politico e in materia di sicurezza; un sostegno economico e finanziario dell’Ue che porti alla creazione progressiva di un’area di libero scambio; la cooperazione in campo culturale, sociale e umanitario.

Se esaminiamo le condizioni che i paesi mediterranei devono rispettare,per beneficiare degli aiuti comunitari, appare chiaro che viene chiesto loro di adottare integralmente il modello di funzionamento dell’Ue, con la rinuncia definitiva a una propria via allo sviluppo. Le conseguenze sono molto gravi: si sottovalutano le differenze culturali e si considerano quei popoli incapaci di esprimere una società altra da quella occidentale.

E ancora più dura sarà la nuova politica Ue verso l’Africa subsahariana, espressa fino a oggi da un rapporto di preferenza commerciale e di cooperazione (Convenzione di Cotonou, già di Lomé). Finora, sotto la copertura di “buonismo” internazionale, l’Ue ha fatto i suoi affari. Ma dal 2008 li farà ancora meglio con gli Accordi di partenariato economico regionale (Ape/Epa), che puntano al libero scambio commerciale. Gli stati africani non potranno più imporre dazi doganali sulle esportazioni europee in Africa: ciò determinerà una caduta delle entrate fiscali dal 10% al 60%, e le merci importate butteranno fuori mercato i prodotti locali.

Esempio. L’Africa non può competere con i prodotti agricoli europei sostenuti a suon di euro: 50 miliardi l’anno. Il settore agricolo costituisce il 70% dell’economia africana, è fonte privilegiata di entrate in valuta ma assisterà impotente all’invasione di prodotti agricoli sovvenzionati.

E LA DEMOCRAZIA?

Cosa pensare di questa Ue? Che prevale l’aspetto economico-finanziario su quello democratico. E il fallimento delle proposta di costituzione comune ne è la riprova. La Convenzione costituente, - un’assemblea di 105 membri, in rappresentanza dei parlamenti europeo e nazionali e della Commissione - ha terminato il suo lavoro nel 2004. Ha lavorato con il metodo, molto discutibile, del “consenso” e la società civile è stata tenuta del tutto fuori dal processo decisionale.

Intellettuali e osservatori politici hanno criticato questo modo di agire. Raniero la Valle: «Nell’Ue non vi è una comunità che si fa ordinamento, ma un regime economico che diventa ordinamento». L’Ue rischia di non rappresentare altro che l’opzione per un modello di sviluppo economico elevato a supernorma, che mette tra parentesi il principio di uguaglianza sostanziale e i diritti sociali sanciti nelle varie costituzioni degli stati europei.

Questo spiega in gran parte il rigetto, nel 2005, da parte di Francia, e Olanda della proposta di-Trattato costituzionale. È stato un “no” all’Europa dei mercati, che ; avrebbe smantellato lo stato sociale

Un altro aspetto grave — sancito dall’Accordo di Schengen del 1995 — è che le frontiere, abolite dentro l’Ue, sono state spostate al limitare della “fortezza Europa”. Dunque, un’Ue aperta al suo interno, ma impermeabile dall’esterno.

E l’Africa ne paga lo scotto. Al di là dei proclami, non c’è nessuna politica di prossimità o di buon vicinato. Anzi, buona parte dell’aiuto pubblico che prima andava all’Africa oggi va all’Est europeo. Intanto, le difficoltà economiche, i conflitti e i regimi oppressivi spingono numerosi africani a tentare l’approdo in Europa. Un flusso migratorio, spesso gestito dalle mafie, che lascia dietro di sé una scia di morte.

Oggi l’Ue è un gigante economico-finanziario, parte essenziale del grande sistema che regge il pianeta. Un sistema che permette a pochi (20% della popolazione mondiale) di controllare l’83% delle risorse a spese di molti diseredati: 854 milioni di affamati, 50 milioni di morti per fame ogni anno, 3 miliardi che vivono con meno di 2 dollari al giorno. Per difendere i nostri privilegi spendiamo oltre 1.000 miliardi di dollari l’anno in armi, con uno sperpero di energie e di risorse che pesa sull’eco- sistema a tal punto da far dire agli scienziati che siamo sull’orlo del collasso del pianeta.

MISSIONE AL BIVIO

Tutto questo chiama in causa i cristiani: viviamo dentro strutture di peccato e di morte. Le Chiese riformate, riunite ad Accra (Ghana) nel 2004, hanno fotografato la situazione: «La globalizzazione economica neo-liberista è basata sulla competitività sfrenata, il consumismo, la proprietà privata priva di qualsiasi obbligo sociale, la speculazione finanziaria, la liberalizzazione e la deregolamentazione del mercato, la privatizzazione dei servizi pubblici e delle risorse nazionali. Con la promessa che ciò produrrà ricchezza per tutti. Avanza la falsa promessa di essere in grado di salvare il mondo per mezzo della creazione di ricchezza e prosperità, pretendendo di avere la signoria sulla vita ed esigendo una devozione totale, che equivale a idolatria».

Sono parole forti ma profondamente bibliche e cristiane. Come missionari comboniani, siamo sfidati a fare nostro questo giudizio, partendo dal cuore della tradizione biblica: “Il grande sogno di Dio”. Dobbiamo essere consapevoli che poteri economici, culturali, politici e militari costituiscono un sistema di dominio — “l’impero” — messo in campo da nazioni potenti per difendere i loro interessi. L’Ue è una delle colonne portanti di questo sistema di peccato.

Il dramma è che l’Europa non è cosciente di vivere in stato di peccato. È compito nostro di missionari proclamare come Giona ai niniviti: «Ancora 40 giorni e Ninive sarà distrutta». Il Dio della vita, che si è rivelato in Cristo Gesù, non vuole vittime, non vuole crocefissi, non vuole morte. Per questo, l’attuale assetto del mondo — l’impero del denaro costruito su un’economia finanziarizzata e militarizzata — è per noi missionari un sistema di morte, un sistema di peccato. Ci tocca profondamente, perché è la negazione radicale del sogno di quel Dio/Abbà.

Questo Dio della vita, che noi missionari annunciamo, vuole che tutti i suoi figli vivano in pienezza. Al Sud (camminando con le vittime del sistema) come al Nord (con gli oppressori, i carnefici) abbiamo oggi un’unica missione globale: l’annuncio del Dio della vita, la denuncia di ogni sistema di morte e l’impegno concreto perché vinca la vita. Si tratta dello status confessionis, direbbe oggi Dietrich Bonhoeffer. Il quale ricordava alle chiese tedesche sotto il nazismo che non potevano proclamare la fede semplicemente recitando il Credo in chiesa, ma rivelando da che parte stavano: se dalla parte di Hitler o dalla parte delle vittime del nazismo.

Penso che oggi questo sia ancora più vero per noi. Noi cristiani dobbiamo proclamare il nostro status confessionis, dichiarando da che parte stiamo in questo sistema di morte. Se stiamo dalla parte del sistema, dobbiamo renderci conto che adoriamo l’idolo del denaro. Se invece vogliamo proclamare il Dio della vita, dobbiamo schierarci dalla parte delle vittime. È’ su questo che la missione oggi sopravvive o cade. È una missione globale che ci porta a contestare un sistema che uccide per fame, uccide per guerra; uccide il pianeta e ci uccide dentro. Per questo, la missione nel cuore del sistema, denunciandolo e contestandolo è missione tanto quanto l’annuncio della Buona Novella ai poveri del sud del mondo e a tutte le vittime del sistema. Su questo la missione oggi si gioca tutto. Io mi sento in missione. In Europa.

Rischio povertà

Secondo la Relazione congiunta sulla protezione sociale e l’inclusione sociale 2007, predisposta, all’inizio dell’anno, dalla Commissione europea, «il 16% degli europei è a rischio di povertà e il 10% vive in famiglie senza lavoro». In Europa c’è uno scarto di 3 anni tra la speranza di vita massima e quella minima per gli uomini, e le spese per l’assistenza sanitaria e le cure di lunga durata variano tra il 5 e l’11% del prodotto interno lordo.

Nell’Ue il 19% dei bambini è a rischio di povertà e la disoccupazione tra i giovani è un dato particolarmente inquietante: nel 2004 era del 18,7%, ossia il doppio del tasso medio di disoccupazione; inoltre, il 15% dei giovani di età compresa tra 18 e 24 anni risultava aver lasciato la scuola prematuramente, circostanza che accresce il rischio di esclusione sociale.

Secondo i dati diffusi da Eurostat, il tasso di disoccupazione dell’area euro è rimasto stabile al 6,9% a giugno 2007, rispetto al mese precedente; a giugno 2006 era del 7,9%. Anche per l’Ue dei 27 il tasso di disoccupazione è del 6,9%, contro il 7% di maggio. A giugno 2007 i tassi più bassi sono stati registrati in Olanda (3,3%), in Danimarca (3,5%), a Cipro (3,9%) e in Irlanda (4,0%); i più elevati, in Slovacchia (10,7%) e in Polonia (10,2%). A giugno, erano 16,1 milioni gli uomini e le donne disoccupati nell’Ue allargata a 27, di cui 10,4 milioni nella zona dell’euro. Secondo un recente Eurobarometro, la paura di perdere il posto i lavoro e di cadere in povertà sono le preoccupazioni più sentite dai cittadini europei, e l’aumento dei flussi migratori a causa dell’apertura dei confini è vista come una minaccia, anziché come un’opportunità. Esistono forti disparità anche nel campo dell’assistenza sanitaria: la speranza di vita varia per gli uomini da 65,4 anni in Lituania a 78,4 anni in Svezia; per le donne, da 75,4 anni in Romania a 83,9 anni in Spagna.

Oltre a valutare i progressi realizzati dagli stati membri e a stabilire priorità per le azioni future, la Relazione congiunta individua esempi di buone pratiche e di approcci innovativi già adottati sul piano nazionale. Ad esempio, il Regno Unito — dove il problema della povertà infantile è relativamente preoccupante — applica tutta una serie di misure per cercare di porvi rimedio, mettendo l’accento sull’apprendimento precoce e l’assistenza all’infanzia. L’Austria ha adottato programmi per risolvere il problema dei senza casa, limitando gli sfratti, e la Polonia sostiene l’economia sociale come mezzo per promuovere l’inclusione attiva.

Tuareg / Rivolte in Mali e in Niger
LA NAZIONE CHE NON C’È, C’È!

Angelo Turco
Nigrizia/Novembre 2007

I venti della ribellione spazzano il deserto. Temust n imajeghan, il paese dei tuareg, è di nuovo in fiamme. Parecchie cancellerie sono in allerta. E si capisce. La regione è sensibile e ogni faccenda che riguarda i nomadi, per la loro grande mobilità transfrontaliera, si trasforma in un problema internazionale. Le armi crepitano. In Mali la dissidenza è guidata da Ibrahim Ag Bahanga, cui si è aggiunto di recente il colonnello Hasan Fagaga: la rivolta va avanti da più di un anno, sia pure in fasi che alternano tregua e violenza.

In Niger i combattimenti sono iniziati in febbraio, sotto le bandiere del Movimento nigerino per la giustizia (Mnj), guidato da Agaly Alambo. Il profilo securitario degli eventi non sfugge a nessuno. E però, da Algeri a Tripoli, da Ouagadougou a Nouakchott, da Niamey a Bamako, da Washington a Parigi, da New York a Bruxelles e ad Addis Abeba, andando in giro per le diverse capitali che pure dovrebbero essere interessate, per un motivo o per l’altro, a quel che capita nel cuore del Sahara, si ha l’impressione, ancora una volta, che una “questione tuareg” non esista e non sia mai esistita.

Eppure, a fine agosto viene annunciata la saldatura dei movimenti insurrezionali, con la creazione di un’Alleanza tuareg Niger-Mali (Atnm), mentre il 19 settembre è addirittura promulgato, via internet, l’atto di fondazione della Repubblica Toumoujgha, «con la città storica di Agadez come capitale politica».

Intossicazione mediatica? Forse. Certo è che la gestione politica di questa crisi sembra del tutto inadeguata, a cominciare dal volo piatto dell’Unione africana, pur presieduta da un rispettabile uomo di stato maliano come Alpha Oumar Konaré. Del resto, il grande pubblico continua a filtrare i problemi degli imajeghan – così i tuareg chiamano sé stessi in tamajeq, la loro lingua – con la trama delle retoriche sugli “uomini velati”, gli “uomini blu”, avvolti nel mistero delle loro remote origini, mischiate ai ricordi di vecchi film sulla legione straniera impegnata in epiche gesta per la pacificazione del Sahara.

Eppure, i tuareg combattono da 130 anni per veder riconosciuta la propria dignità di popolo. Dapprima contro i colonizzatori francesi, a partire dalla famosa missione Flatters, schiacciata nel 1881 a In-Uwahen. Quindi, contro gli stati indipendenti, che ereditano dalla Francia il sistema delle frontiere coloniali e, con esso, il principio dell’inesistenza di una nazione tuareg. Secondo la ricostruzione del geografo Edmond Bernus, grande specialista del mondo tuareg, Temust n imajeghan si estende su sette stati sahelo-sahariani (Niger, Mali, Burkina, Algeria, Libia, Mauritania, Nigeria), senza contare le diaspore (Ciad, Sudan). Tuttavia, gli imajeghan vivono per metà in Niger e per un altro terzo almeno in Mali.

Il sogno dell’unità politica tramonta nel 1919, con l’annientamento delle armate di Kaosen. Nel 1957 fallisce il tentativo di dar corpo all’Organizzazione comune delle regioni sahariane (Ocrs), del tutto strumentale agli interessi petroliferi della Francia. Di fatto, nell’ultimo mezzo secolo i tuareg hanno continuato a battersi per preservare la loro cultura e il loro patrimonio identitario. Da tempo, in Niger e in Mali soprattutto, gli antichi irredentisti chiedono solo il riconoscimento dei loro diritti di cittadinanza, alla pari con gli altri popoli che vivono in quegli stati.

Da tempo dismessi gli abiti della secessione, i tuareg si ostinano a domandare l’autonomia amministrativa per le loro terre ancestrali nell’ambito degli ordinamenti statali. In risposta, una sconcertante sequenza di spedizioni militari, repressioni, promesse non mantenute, intese sancite internazionalmente ma non rispettate. Ultimo, l’accordo di Algeri dello scorso anno, firmato dal governo maliano e dalla ribellione, ma poi quasi ignorato da Bamako.

Gheddafi in campo

Intanto, sulla trama della dissidenza tuareg sono andati aggrumandosi altri e preoccupanti motivi di tensione. Nella fascia sahelo-sahariana un attivo banditismo transfrontaliero alimenta traffici d’ogni tipo: armi, esseri umani, droga. La penetrazione jihadista, particolarmente del gruppo Al-Qaida per il Maghreb islamico, viene segnalata da più parti. E non è un caso, forse, se proprio in queste settimane si registra una ripresa degli attentati nel nord algerino. Val la pena tuttavia sottolineare che i rapporti della ribellione tuareg con le bande del terrore – qaidisti o salafisti – sono costellati di frizioni e scontri aperti. Insomma, per niente tranquilli.

Tutto ciò allarma l’Algeria, sollecita nell’aiuto logistico alle truppe regolari maliane impegnate nella repressione anti-tuareg. Ma allarma ancor più gli americani, che hanno individuato in questa zona uno dei fronti caldi della lotta al terrorismo. Gli Stati Uniti appoggiano apertamente il Mali nelle operazioni miranti a dare sicurezza al nord; la stessa ambasciata americana a Bamako ha ammesso che un aereo militare, fatto bersaglio dai tiri della ribellione, è tornato integro alla base.

Dopo il Corno d’Africa, questa è la regione dove militarmente gli Usa sono più impegnati nel continente. Le esercitazioni antiterroristiche si susseguono, nel quadro di programmi pluriennali che coinvolgono una decina di paesi. Questa, del resto, è una delle aree in cui il Pentagono medita di installare il comando militare unificato per l’Africa (Africom), ma deve fare i conti con l’opposizione sia dell’Algeria che della Libia.

Per quanto ambiguo come al solito, Gheddafi ha un ruolo importante nella partita che si sta giocando. Molti credono che sia lui a soffiare sul fuoco della dissidenza tamajeq, infiammando le passioni irredentiste, con il miraggio del “Grande Sahara”, uno spazio politico per i popoli del deserto. Gli osservatori notano che il braccio armato della dissidenza è passato attraverso i campi di addestramento libici, formandosi nei ranghi della “Legione verde”, il corpo d’élite costituito alla fine degli anni ’80 e impiegato di preferenza nelle operazioni all’estero.

Sollecitato dal presidente nigerino, Mamadou Tandja, a fare da mediatore nel conflitto, il colonnello avrebbe posto come precondizione il riconoscimento dell’Mnj. La “Guida” non ama che lo si menzioni a proposito della dissidenza tuareg. A questo riguardo, ha inaugurato una strategia destinata probabilmente a fare scuola. Denuncia, infatti, per calunnia i giornali che fanno cenno alla sua posizione e alle sue presunte responsabilità. Nell’impossibilità di esibire prove giuridicamente valide in tribunale, gli organi di stampa rischiano condanne pecuniarie elevate, al punto da metterne in forse la sopravvivenza.

Porte chiuse a Niamey

A complicare enormemente il quadro c’è l’uranio, in cima alle esportazioni del Niger, che è il terzo produttore mondiale e di gran lunga il primo dei paesi africani. La Francia si trova da sempre in posizione di monopolio nello sfruttamento del minerale nigerino, iniziato nel 1971 sul sito di Arlit, nell’estremo nord.

Da molti mesi, Tandja è impegnato nella rinegoziazione del prezzo dell’uranio con l’Areva, gigante francese dell’industria nucleare. Il 1° agosto, un risultato importante: l’aumento di quasi il 50% del prezzo, passato a 40.000 franchi cfa al kg, con effetto retroattivo al 1° gennaio 2007. Risorse aggiuntive preziose per uno dei paesi più poveri del mondo. Il fatto è che l’uranio è un minerale strategico per la Francia, e ogni negoziato si pone nel quadro degli accordi di cooperazione militare franco-nigerini. In più, a fine anno i permessi di sfruttamento decadono e sarà necessario un riassetto complessivo del dossier minerario.

È in questa prospettiva che entrano in scena altre multinazionali del settore: canadesi, australiane e soprattutto cinesi. Attraverso la China Nuclear Engineering and Construction Corporation (Cnec), il dragone asiatico avrebbe incamerato una decina di permessi di prospezione, qualcosa come la metà di quelli complessivamente in gioco. In questo quadro s’iscrive l’attacco dell’Mnj in aprile al sito di Imuraren, uno dei più ricchi dell’Areva. E se, da una parte, Nicolas Sarkozy moltiplica le dichiarazioni di simpatia e di amicizia nei confronti del Niger, dall’altra non sono pochi nella capitale Niamey coloro che pensano che l’Areva abbia qualcosa a che fare con la ribellione, al fine di dissuadere i concorrenti cinesi.

Il fardello sociale di questo ginepraio si fa sentire nei due principali paesi interessati. Un sentimento di malessere si diffonde in Mali, dove i combattenti tuareg sempre più vengono accostati ai terroristi, per i loro metodi di violenza indiscriminata a causa della disseminazione nella zona di mine antiuomo. Tanto più apprezzabile, quindi, è l’apertura del governo. Grazie agli sforzi del presidente Amadou Toumani Touré, l’Algeria ha offerto le risorse finanziarie per rimettere in moto il processo di attuazione degli accordi di Algeri.

L’atteggiamento nigerino, viceversa, è di chiusura. Amnesty International, con le associazioni umanitarie nigerine, denuncia l’emanazione dello “stato di attenzione”, che sospende i diritti fondamentali ed è all’origine degli arresti e torture della popolazione civile. L’intimidazione della stampa è all’ordine del giorno.

Moussa Kaka, direttore della radio privata Saraouniya e corrispondente di Rfi e di Rsf, viene arrestato a Niamey il 20 settembre, con l’accusa di «attentato all’autorità dello stato». È tuttora in prigione.

Per quanto tempo ancora il presidente Tandja potrà ignorare le aspirazioni degli imajeghan e considerare la dissidenza tuareg come un’orda di banditi?

Venerdì, 16 Novembre 2007 19:44

L’ODISSEA DI ABRAHAM

L’ODISSEA DI ABRAHAM

di Gabriele Del Grande
da Mondo e Missione / Ottobre 2007

«Avevo il numero di telefono di un poliziotto a Tripoli; è lui che mi ha messo in contatto con il commissariato di Zuwarah. Quando ho chiamato, mi hanno fatto parlare un paio di minuti con mia moglie, ma non siamo riusciti a dirci niente, non faceva altro che piangere. Almeno però sapevo che erano vivi. Poi il silenzio per quattro mesi. Ogni giorno controllavo la mail, ma non c’era nessuna novità. Avevo paura che li avessero deportati nel deserto o che li avessero ammazzati. La Libia è un inferno».

Si chiama Abraham, ha 27 anni; è fuggito dall’Eritrea, nel 2000. Lo incontro a Tor Vergata, periferia est di Roma. A due passi dal grande raccordo anulare, la vecchia sede dell’Università Roma 2 specchia sui vetri neri delle finestre la luce del sole di un pomeriggio d’estate. Il palazzo è occupato da un paio d’anni da circa 300 giovani, in maggioranza eritrei, etiopi, somali e sudanesi. Abraham mi aspetta al terzo piano. Tre settimane fa la moglie Anna è arrivata in Sicilia con il piccolo Daniel. Il viaggio è durato sei anni, eppure alle porte di Roma, senza documenti e lavoro, la terra promessa sembra ancora lontana.

Insieme con un’intera generazione, Abraham è fuggito dalla coscrizione militare obbligatoria imposta dal presidente Isaias Afwerki. Per l’indipendenza dall’Etiopia le truppe eritree hanno combattuto trent’anni, dal 1961 al 1991, e il conflitto è riesploso tra il 1998 e il 2000 per l’assegnazione dei confini. Tuttavia, ancora oggi, la pace è lontana. Compiuta la maggiore età, uomini e donne sono chiamati a impugnare le armi per sorvegliare la frontiera militarizzata con il gigante vicino, l’Etiopia. Quattro milioni di eritrei contro 75 milioni di etiopi, ovvero un popolo contro un esercito. A togliere l’uniforme prima dei 40 anni sono autorizzate solo le donne incinte, i malati e gli studenti universitari. Per tutti gli altri il mandato è a tempo indeterminato. Ad Asmara non rimangono che vecchi e bambini. Intanto al fronte un numero crescente di ventenni rifiuta di gettare via gli anni migliori abbracciati a un fucile. Sfidano l’accusa di alto tradimento e lasciano il Paese, sognando l’Europa. Nel 2006 in Sicilia ne sono arrivati 2.859, tra cui 308 donne e 116 bambini; nel 2005 erano stati 1.974. Abraham è uno di loro.

La sua prima tappa è stata Khartoum, in Sudan, dove uno zio era emigrato molti anni prima. Lì è sbocciato l’amore con Anna, anche lei eritrea ma nata e cresciuta in Sudan, e dopo un paio d’anni è arrivato Daniel. Un bambino prodigio, visto che a soli 15 giorni di vita ha attraversato i mille chilometri di deserto del Sahara, avvolto in un turbante nero per proteggerlo dal sole e dalla sabbia, stretto tra le braccia di mamma e papà. Sul fuoristrada pick-up erano in 32. La macchina girava di giorno, tra le dune e le buche, sotto l’arsura del sole. Ogni sera i motori si spegnevano, per un po’ di riposo, stretti gli uni sugli altri, per cercare un minimo di tepore nelle gelide notti del Sahara, ma soprattutto per non mostrare la luce dei fari ai posti militari della frontiera. Alla fine, dopo un numero imprecisato di giorni, l’alba ha mostrato lontana, bagnata da un miraggio, la città di Kufrah, il primo avamposto libico sul lungo cammino verso il Mediterraneo.

L’impresa non ha fatto entrare Daniel nel guinness dei primati, ma in Europa sì. Prima, però, ha dovuto sfidare due volte le acque del canale di Sicilia.

Luglio 2005, il primo viaggio. Sessantaquattro persone su un vecchio legno, che imbarca acqua dalle fessure tra le tavole dello scafo. I crampi alle gambe, la nausea e il rumore assordante del motore tengono svegli nel buio. Ognuno con delle bottiglie di plastica tagliate raccoglie l’acqua tra i piedi, sul fondo, per poi gettarla in mare. Sperare.

All’alba il motore va in panne. Silenzio tra le onde. Mentre qualcuno svita a casaccio con una maledetta pinza di ferro, arrivano i soccorsi degli operai di una piattaforma petrolifera nella zona. L’equipaggio prende a bordo solo donne e bambini, per poi lasciare alla deriva gli altri passeggeri, intercettati due giorni dopo da un elicottero italiano.

Abraham è salvo. Al centro di accoglienza di Lampedusa, il primo pensiero va alla moglie e al piccolino. Disperato, cerca di denunciarne la scomparsa. Inutile: non viene ascoltato. «Noi non possiamo fare niente».

Nelle stesse ore, dall’altro lato del Canale, Anna viene rimpatriata in Libia e arrestata. Il suo telefono rimane spento per quattro mesi.

«Mi ero trasferito a Milano, lavoravo alla fiera di Rho. In città era appena arrivata Suzi, una delle donne che era con noi sulla barca a luglio. Fu lei a raccontarmi cos’era accaduto a mia moglie».

Un camion parcheggia davanti al commissariato di Zuwarah. Una decina di donne con i rispettivi bambini, di pochi anni o neonati, sono fatte salire, insieme ad altre 60 persone, dentro un container di ferro caricato sull’autorimorchio. I motori sono già accesi. Le porte si chiudono sul carico umano. Fa buio. Si parte: direzione Kufrah, 1.500 chilometri più a sud, al confine col Sudan.

Presto sotto il sole di luglio il container diventa un forno, l’aria si fa pesante, non si vede a un palmo dal naso. I bambini piangono. Il viaggio dura due giorni. A bordo non c’è niente da bere né da mangiare. Presto l’odore diventa insopportabile: vomito, feci, urine, gasolio e sudore. La morsa del sole non si allenta, la gente boccheggia. La gola brucia dalla sete, chi ha una bottiglietta raccoglie le urine per berle. Finché, finalmente, stremati dal viaggio, i portelloni si aprono sulla notte di un paesaggio desertico, di fronte al carcere dell’ultima città libica prima della frontiera con il Sudan, Kufrah.

I deportati attraversano i cancelli, derisi dai militari. Molti conoscono già le grate di ferro di Kufrah. Ricordi di lividi, fame e ferite. Vengono perquisiti. Soldi, telefonini e braccialetti se li prendono gli agenti. Le celle si chiudono. Tre mesi dopo, alle luci dell’alba, senza nessun preavviso, un camion verde militare carica una sessantina di persone a bordo. Sono state condannate all’espulsione in Sudan. Tra loro ci sono anche Anna e il piccolo Daniel, sei mesi.

Il camion si avvia tra le buche di una pista di terra tra le dune del deserto. Li aspetta un viaggio lunghissimo, ma i motori si fermano circa un paio d’ore dopo. L’autista fa scendere tutti. Il sole del mattino già inizia a bruciare, e un orizzonte di sabbia e miraggi blocca sul nascere qualsiasi idea di fuga. Le opzioni sono due, spiegano in arabo i militari a un ragazzo che fa da interprete: «Duecento dollari a testa e vi riportiamo in città. Oppure proseguiamo».

La polizia sa di giocarsi un carico d’oro. Nel giro di un’ora di trattative si trova l’accordo. Molti sono riusciti a nascondere i soldi al momento dell’arresto, cuciti addosso nell’orlo dei pantaloni o dentro le scarpe. Chi ha più dollari paga la quota per le donne e i bambini rimasti senza un centesimo. Raggiunta la periferia di Kufrah, gli stessi militari li mettono in contatto con dei passeur amici. Chi ha altri soldi parte subito sui fuoristrada diretti a Benghasi, al nord. Anna e il piccolo sono salvi.

Appena Abraham ha notizie della moglie, le versa con un Western Union i due ultimi stipendi per pagare l’affitto a Tripoli e comprare un altro viaggio in barca. «Certo che avevo paura per il bambino. Ma era l’unica soluzione. In Libia, ogni giorno rischiava d’essere arrestata e mandata di nuovo a morire nel deserto. Tornare in aereo era impossibile: se si fosse presentata all’ambasciata eritrea, l’avrebbero arrestata immediatamente. Se dovevano morire, meglio che morissero in mare, piuttosto che in mezzo al deserto o in un carcere».

Tre mesi dopo, luglio 2006, la moglie e il bambino sbarcano a Lampedusa. Abraham li aspetta da un anno.

Niente di speciale. La loro è una storia come tante; basterebbe chiedere a uno dei 19.099 uomini, delle 1.037 donne o dei 1.264 bambini sbarcati in Sicilia nel 2006. Ognuno di loro ricorda un inferno. La traversata negli ultimi dieci anni è costata la vita ad almeno 2.216 persone. Ma tutto questo il piccolo Daniel non lo sa. Nella sua affollata cameretta con vista sull’autostrada romana gioca a far scontrare due macchinette colorate, mentre Anna mi offre un tè in un bicchiere di plastica. Qui non c’è il deserto, né le sbarre di una galera, divise che strillano e voci che piangono in camerate di gente ammucchiata, e non ci sono nemmeno le onde del mare la notte o il rumore assordante del motore per ore e ore. A due anni Daniel è già un piccolo ometto, e presto saprà abituarsi anche alla normalità.

Il 27 agosto 2004 un aereo venne dirottato dai deportati eritrei a Khartoum, in Sudan. Lì, 60 dei 75 passeggeri vennero riconosciuti rifugiati politici dall’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite. In patria avrebbero fatto la fine dei 223 deportati da Malta tra settembre e ottobre del 2002. Tornati in Eritrea, furono detenuti e torturati. Lo hanno testimoniato ad Amnesty International i pochi riusciti a evadere, che oggi sono rifugiati politici nel Nord America e nei Paesi scandinavi. Trattenuti prima nella prigione di Adi Abeito e poi, in seguito a un tentativo di fuga, nel carcere di massima sicurezza di Dahlak Kebir, molti di loro sono stati uccisi.

Anche questo spinge a buttarsi nel Mediterraneo, costi quel che costi. «Una volta in Libia non puoi più tornare indietro - dice Abraham, mentre rimette nel portafogli il permesso di soggiorno per motivi umanitari -. Restare a Tripoli è un inferno, ma la via del ritorno passa di nuovo da Kufrah e dal deserto. Se proprio devi morire, meglio continuare il viaggio».





Una generazione dispersa tra deserto e mare


Quella di Abraham è l’odissea comune a migliaia e migliaia di persone. Arrivano ogni estate, da anni, su vecchie barche e gommoni affidati alle correnti del mare. Occupano lo spazio di una breve notizia sulle pagine di cronaca dei quotidiani, e poi spariscono. Sono i clandestini, figli di una generazione tagliata fuori dal diritto alla mobilità oppure in fuga da guerre e persecuzioni, attraverso viaggi che sono vere e proprie odissee. Il mare è soltanto l’ultimo degli ostacoli. Prima c’è da attraversare il deserto. Le piste transahariane sono disseminate degli scheletri dei clandestini.

Il Sahara è un passaggio obbligato. E più pericoloso del mare. Il grande deserto separa l’Africa occidentale e il Corno d’Africa dai Paesi del Mediterraneo, da dove è facile imbarcarsi clandestinamente per l’Italia e la Spagna. Si attraversa su camion e fuoristrada che battono le piste tra Sudan, Chad, Niger e Mali da un lato, Libia e Algeria dall’altro.

Una ricerca firmata Fortress Europe (http://fortresseurope.blogspot.com), basata sulle notizie documentate dalla stampa internazionale, parla di almeno 1.069 morti sotto il sole del deserto del Sahara dal ’96 al 2006. E chi scampa alle settimane di viaggio tra le dune deve solo sperare di non essere arrestato a Tripoli dalla polizia del colonnello Muammar al-Qaddafi, ultimo gendarme del cortile europeo, alle soglie di un mare, il Mediterraneo, che ormai è diventato una fossa comune.

Nella più totale indifferenza internazionale, dal 1988 ad oggi, dice Fortress Europe, almeno 9.229 persone hanno perso la vita sulle rotte dell’immigrazione clandestina.

Soltanto il canale di Sicilia ha inghiottito almeno 2.216 persone.
Venerdì, 16 Novembre 2007 19:39

Guardare il creato con gli occhi di Dio

Guardare il creato con gli occhi di Dio

di Gerolamo Fazzini
da Mondo e Missione/Agosto-Settembre 2007

Il tema della vita è stato uno di quelli sottolineati con maggior forza nel corso della quinta Conferenza generale degli episcopati dell’America Latina e dei Caraibi ad Aparecida, nel maggio scorso. La vita minacciata, offesa, negata in mille modi: dalle guerre all’aborto, passando per lo sfruttamento sessuale e la violenza diffusa. Si è parlato di «ecologia umana», con un obiettivo privilegiato: l’Amazzonia.

La domanda è: come immaginare uno sviluppo umano nel segno di una fedeltà al Vangelo? La dottrina sociale della Chiesa suggerisce due aggettivi: «integrale» (ossia attento a tutte le dimensioni dell’umano, a cominciare dall’apertura alla trascendenza) e «sostenibile», cioè preoccupato delle ripercussioni sul futuro e sulle nuove generazioni.

La Giornata del creato, che da qualche anno si celebra il primo settembre, è un’occasione privilegiata per una riflessione - che sia preludio a un impegno di cambiamento - su questo tema così cruciale. «Giornata del creato» dice in partenza l’orizzonte che noi cristiani adottiamo nell’affrontare la questione ecologica. Da un lato, siamo chiamati a riconoscere che il mondo, la natura, sono stati fatti da un Altro e rappresentano un immenso dono. Dall’altro, sappiamo che il Creatore ha affidato alle donne e agli uomini la salvaguardia del creato, consegnando loro una signoria responsabile sulla natura. All’uomo è chiesto di esercitare un difficile equilibrio, dal momento che, come sa sfruttare al meglio scienza e tecnologia, è capace - purtroppo - di operare scelte disastrose. Per se stesso, per gli altri e per il pianeta.

Salvaguardia dell’ambiente in senso cristiano significa, allora, non già una tutela passiva della natura, bensì prendere sul serio la questione ecologica. Che non è una moda passeggera, ma rappresenta un’autentica emergenza e una sfida per tutti i credenti: non a caso anche l’imminente assemblea ecumenica europea di Sibiu - come già le precedenti di Basilea e Graz - se ne occuperà. Questi criteri dovrebbero guidarci anche nell’affrontare il dibattito, oggi infuocato, sui cambiamenti climatici. L’incontro di studio e confronto fra esperti di varie scuole - tenutosi in Vaticano qualche mese fa per iniziativa del Pontificio consiglio giustizia e pace - ha offerto moti spunti che possono essere interpretati come altrettante bussole per un discernimento serio.

Li ricapitoliamo in sintesi. Innanzitutto. il dibattito scientifico su origine e motivi dei cambiamenti climatici non è chiuso, dal momento che esistono posizioni differenziate. La Chiesa incoraggia la scienza ad andare avanti nella ricerca e nel confronto.

Inoltre, ciò che sta a cuore alla Chiesa è lo sviluppo dei Paesi poveri, ragion per cui le politiche sul clima devono tenere conto di questa priorità. Ciò significa che come cristiani non possiamo condividere politiche ambientali che siano pretesto per impedire uno sviluppo armonico dei Paesi poveri o, peggio ancora, per promuovere un controllo forzato delle nascite. Infine, i cambiamenti climatici non sono in sé causa di povertà, ma aggravano problemi là dove c’è maggiore vulnerabilità, a causa del sottosviluppo. Per questo sono importanti politiche che promuovano uno sviluppo a misura d’uomo e di ambiente, in un quadro più ampio di adattamento ai cambiamenti.

In sintesi: la natura è per l’uomo e l’uomo è per Dio. I problemi ambientali nascono dalla negazione del Creatore, che conduce a un doppio esito, in entrambi i casi pericoloso: lo sfruttamento selvaggio delle risorse («dominio dispotico e dissennato») o la divinizzazione della natura, che porta a considerare l’attività umana come male in sé. Per uscire da questa doppia trappola (l’egoismo consumista che aggredisce la natura o l’ambientalismo che la idolatra, a danno dell’uomo) una via c’è: tornare a guardare a quanto ci circonda con gli occhi di Dio.

Venerdì, 16 Novembre 2007 19:37

UN PROBLEMA, MA ANCHE UNA RISORSA

UN PROBLEMA, MA ANCHE UNA RISORSA

di Piersandro Vanzan
da Vita Pastorale n. 6/2007

Il nostro Paese sta cambiando: i volti delle persone che incontriamo per le strade sono diversi, le lingue che sentiamo parlare risuonano estranee, gli odori che provengono dalle case vicine ci sono sconosciuti, eppure siamo sempre nello stesso luogo, sempre in Italia, seppur trasformata, plurale, vale a dire multietnica, multiculturale e multireligiosa. Chi sono queste nuove persone? Da dove provengono? Vogliono restare o ripartire? E se rimanessero, saprebbero accettare e rispettare i valori della nostra Costituzione? Potremmo considerarli cittadini italiani soltanto dopo cinque anni?

In occasione della Giornata mondiale del migrante, Benedetto XVI ha preso a esempio la Famiglia di Nazaret per mostrare come, attraverso il suo peregrinare, è possibile intravedere la dolorosa condizione di tanti migranti, specialmente dei rifugiati, de- gli esuli, degli sfollati, dei profughi, dei perseguitati che si trovano ad affrontare numerosi disagi, ristrettezze economiche, diffidenze e notevoli fragilità psicologiche, nella difficile ricerca di un nuovo luogo in cui vivere. Il Papa ha sottolineato che nel vasto campo delle migrazioni la persona umana dev’essere sempre al centro: «Soltanto il rispetto della dignità umana di tutti i migranti, da un lato, e il riconoscimento da parte dei migranti stessi dei valori della società che li ospita, dall’altro, rendono possibile la giusta integrazione delle famiglie nei sistemi sociali, economici e politici dei Paesi di accoglienza1». Solo così questo fenomeno non costituirà soltanto un problema, ma anche e soprattutto una risorsa per l’umanità.

Immigrazione: alla ricerca delle giuste regole

Eppure i migranti restano, sotto certi punti di vista, uno degli elementi negativi delle nostre società, la parte oscura e ignota, quella da cui ci si vuole salvaguardare, quella che si teme perché sconosciuta, diversa, a volte clandestina. Per questo è necessario in primo luogo tutelarli: sia attraverso opportuni presidi legislativi, giuridici e amministrativi specifici, sia mediante una rete di servizi, di punti di ascolto, di strutture di assistenza che ne permettano la conoscenza e l’inserimento nei diversi contesti sociali. Di fatto, nel trattare dell’immigrazione è fondamentale, come scrive Johan Ketelers, segretario generale dell’Icmc (International catholic migration commission), considerare anzitutto i diritti umani e «l’ulteriore sviluppo di un sistema legale internazionale, volto a proteggere gli immigrati, che sia accettato, ratificato e applicato da tutti i Paesi »2, senza tralasciare però i doveri e gli obblighi degli stessi immigrati, e le ragionevoli aspettative che i Paesi di arrivo nutrono a tale riguardo.

Per questo tutti i protagonisti della vita pubblica, inclusi gli immigrati e le loro organizzazioni, devono contribuire a formulare regole serie e trasparenti, che permettano lo sviluppo del processo d’integrazione e di un fondamentale cambio di mentalità, volto al rinnovamento della convivenza civile. Il presidente Napolitano, in uno dei tanti suoi interventi sul tema, dopo aver sostenuto l’importanza e la valenza positiva del fenomeno immigrazione nell’Italia di oggi - per sopperire alla carenza di mano d’opera in vari settori, per combattere il decremento delle nascite; per una modernizzazione sociale e culturale -, ha aggiunto: «La strada dell’integrazione è ancora lunga e va affrontata con coerenza e rigore. A tal fine è anzitutto necessario che gli ingressi avvengano per via legale. Gli immigrati non devono più avere la paura di vivere in condizione irregolare e di sopportare le conseguenze dell’emarginazione che all’irregolarità si associa. È soprattutto cruciale evitare i gravissimi rischi collegati agli ingressi clandestini. Dare certezze al percorso migratorio fin dai Paesi d’origine, con regole che tutti devono rispettare, significa far rientrare nella normalità un fenomeno che ormai contrassegna questo secolo»3.

Un’occasione per testare le nostre capacità di accoglienza e la chiara applicazione delle regole è arrivata il 1° gennaio, con l’estensione della cittadinanza europea a bulgari e rumeni. Secondo quanto stabilito dall’articolo 18 del Trattato istitutivo della Comunità europea, è riconosciuto loro il diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio di tutti gli Stati membri e, per quel che riguarda l’Italia, non saranno più sottoposti alla disciplina normativa prevista dalla Bossi-Fini(d.l. 1998,n. 286). Pertanto i cittadini rumeni e bulgari già esentati dall’obbligo del visto per soggiorni turistici, non dovranno munirsene nemmeno per altri motivi di ingresso - lavoro, famiglia, studio -, ma basterà il possesso di un normale documento di identità o di un passaporto4. Temendo ripercussioni in ambito lavorativo, il Governo italiano nel Consiglio dei ministri del 27 gennaio 2007; analogamente a quanto previsto in altri Paesi dell’Ue, ha deciso di avvalersi di un “regime transitorio” (durata un anno), prima della completa liberalizzazione dell’accesso al lavoro subordinato, lasciando invece senza alcuna restrizione il lavoro autonomo.

Se a marzo dello scorso anno si poteva parlare di 400.000 unità per i rumeni presenti in Italia e di 30.000 per i bulgari, queste cifre hanno ovviamente subito un incremento in seguito all’apertura delle frontiere che, per quanto non ancora quantificabile, ha vieppiù alimentato la già alta diffidenza verso i Rom5, minoranza etnica in Romania, dove costituiscono circa il 10% dei 23 milioni di quella popolazione. I Rom, proprio per il loro stile di vita nomade, sono fortemente discriminati in Romania, ottenendo presso quel Parlamento un solo rappresentante, nonostante le 40 comunità presenti nel Paese. Ebbene, questa situazione negativa in patria, unita al diritto alla libera circolazione acquisito il 1° gennaio, ha fatto temere un’invasione delle nostre città da parte dei Rom i quali, solitamente ghettizzati nelle periferie italiane, rischiano ancora una volta di diventare il “capro espiatorio” e di essere cacciati, quando invece - proprio per la loro mobilità -, sono i meno desiderosi di trattenersi in un Paese.

Va invece rilevato che, a. partire dal 1992, proprio i rumeni (non Rom) hanno decuplicato la loro presenza in Italia - sono oggi quasi tre milioni -, pur non avendo casa o residenza comunale, e rimanendo sprovvisti di iscrizione alle anagrafi comunali. Come, sottolinea la Caritas italiana, «l’andamento degli ultimi anni può far pensare a una pressione migratoria di 60.000 lavoratori». Anche la “questione nomadi” - rispetto alla quale la Caritas è molto impegnata a livello sia dell’accoglienza, sia del confronto istituzionale - evidenzia aspetti complessi, che richiedono di considerare attentamente le disposizioni europee, ricordando che l’applicazione delle leggi e la sicurezza sono valori condivisi anche dalla maggior parte degli immigrati, tanto più che in Italia, nel 2006, il 23,3% delle assunzioni, secondo i dati della Camera di commercio di Milano, è stato appannaggio di immigrati - particolarmente nel settore dei servizi, immobiliare, del noleggio, delle pulizie e della vigilanza, ma con presenze anche nella sanità, nell’istruzione, nella ristorazione e nel commercio -, evidenziando come il flusso extracomunitario, se gestito con razionalità, può diventare una preziosa, risorsa per lo sviluppo nazionale6.

Cittadinanza e integrazione. Quali i tempi?

Ma quanti sono gli immigrati in Italia? Secondo i dati Istat, forniti dal Ministero dell’Interno, al 1° gennaio 2006 i cittadini stranieri residenti in Italia erano 2.670.514, cifra alla quale vanno aggiunti sia i minori residenti, sia gli irregolari: il Rapporto Eurispes parla di 800 mila persone, arrivando così a più di 3 milioni7 . Naturalmente in crescita, visti i nuovi arrivi - nel mese di marzo 2006 sono state presentate 485.000 domande di assunzione - e le nascite dei figli di cittadini stranieri. Inoltre, il nostro Paese si conferma primo, tra i Paesi europei, per numero - assoluto e relativo - degli immigrati irregolari8, e presenta la più alta percentuale di extracomunitari sul totale degli immigrati, oltre che di immigrati disoccupati o sottoccupati. Se nell’arco di dodici anni, dal 1992 al 2004, si è passati da 650 mila permessi di soggiorno a più di due milioni, oggi siamo arrivati a parlare di cittadinanza agli stranieri dopo cinque anni di permanenza in Italia.

Nel progetto della nuova legge sulla cittadinanza, all’esame della Commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati, si legge che due sono gli aspetti su cui poggia il testo unificato: la concezione della cittadinanza come strumento volto a favorire l’integrazione; la concezione della cittadinanza come, atto di volontà individuale che, in presenza di determinate condizioni, impegna lo Stato. Inoltre gli elementi costitutivi della nuova disciplina consistono nello ius soli, nell’appartenenza fisica e sociale alla comunità, nell’adesione ai principi costituzionali e nella possibilità della doppia cittadinanza. Quindi: cittadinanza dopo cinque anni di residenza regolare e continua nel Paese per gli adulti; cittadinanza per i bambini che nascono in Italia, a patto che almeno uno dei due genitori risieda legalmente da almeno cinque anni senza interruzioni; cittadinanza per i ragazzi che non nascono qui ma che, da almeno cinque anni, studiano o lavorano e hanno almeno uno dei due genitori nella stessa condizione.

L’art. 5 della legge recita: «L’attribuzione della cittadinanza è condizionata dalla conoscenza della lingua italiana equivalente al livello del terzo anno della scuola primaria»9, ma è necessario chiedersi: se la cittadinanza è la forma giuridica di un contenuto alto, che dovrebbe certificare l’appartenenza a una comunità e la condivisione di una serie di valori fondanti, basteranno cinque anni di residenza e la minima conoscenza della nostra lingua per fare di uno straniero un cittadino nel senso pieno del termine? La riduzione drastica dei tempi favorirà il processo di integrazione, o aiuterà persone che vogliono soltanto sfruttare i vantaggi derivanti dall’acquisizione di certi diritti, senza la sottomissione ai relativi doveri? E infine, siamo certi che i valori della nostra democrazia, il conseguente rispetto della dignità umana, le libertà civili e religiose, il primato della legge, saranno considerati sacri e inviolabili dai nuovi cittadini, compresi quelli di religione islamica?

Non va dimenticato infatti che nel nostro Paese, al 31 dicembre 2006, gli immigrati musulmani con regolare permesso di soggiorno erano un milione e che l’Islam è la seconda religione in Italia, con il 33,2% di praticanti; senza tener conto degli irregolari, la cui presenza - elevata in alcune zone e in alcuni periodi dell’anno - non è ben quantificabile, a causa della grande mobilità e del continuo ricambio di persone. Com’è noto, esistono più forme di Islam riconducibili a tre differenti atteggiamenti: il primo rappresentato da una fede vissuta interiormente da musulmani moderati, pacifici coabitatori tra noi, che tendono a integrarsi, pur mantenendo salde le proprie radici; il secondo caratterizzato da un’indifferenza verso i legami con la tradizione di provenienza e incurante di ogni espressione di religiosità; il terzo, apparentemente il più forte e aggressivo, non solo pretende dallo Stato italiano di finanziare le istituzioni islamiche - scuole coraniche e moschee10 -, ma anche si oppone vivacemente a concedere alternative nelle scelte personali dei corregionali, come dimostrano le vicissitudini della Carta dei valori e dei principi, in cui l’Ucoii ha avuto e continua ad avere un ruolo determinante11.

Al di là della complessa “questione islamica”, ancora pressoché irrisolta, va sottolineato che un documento, sia passaporto o carta d’identità, non determina il sentirsi parte di uno Stato, né la cittadinanza può essere considerata un punto di partenza per una futura integrazione. Essa è semmai il punto di arrivo di un processo molto lungo, che inizia dalla conoscenza della lingua, della storia, delle tradizioni, dei principi giuridici fondamentali del nostro Paese, per passare poi dall’estraneità all’accettazione sincera, dall’ostilità al sentirsi a casa, dal multiculturalismo alla piena integrazione socioculturale e politica. Ciò non significa pretendere una coincidenza tra nazionalità e cittadinanza, ma semplicemente l’accettazione piena e consapevole da parte del migrante - pur nel rispetto delle sue diversità culturali e religiose -, dei fondamenti costituzionali e dell’ordinamento giuridico del nostro Stato: dopo averlo effettivamente conosciuto. Solo così sarà possibile una convivenza in cui, se da un lato la nostra tradizione saprà arricchirsi con nuovi contributi, diverse realtà, altre culture con essa compatibili - senza mostrare alcun timore di perdere la propria identità -, dall’altro i cittadini “acquisiti” potranno sentirsi parte di questa nazione.

Note

(1) Migranti-press, anno XXIX, n. 3, p. 1. Proprio in relazione a quanto detto, e per mantener vive le parole del suo predecessore Giovanni Paolo II – “L’uomo che soffre ci appartiene” -, Benedetto XVI ha personalmente visitato la mensa di Colle Oppio una delle tante gestite dalla Caritas romana, definendola “un luogo significativo della città di Roma, ricco di umanità. In questa mensa è possibile toccare con mano la presenza di Cristo nel fratello che ha fame e in colui che gli offre da mangiare. Qui si può sperimentare che, quando amiamo il prossimo, conosciamo meglio Dio”. Ricordiamo che i pasti serviti dalla mensa di Colle Oppio – a Roma e Ostia ce ne sono altre tre -, nel 2005 sono stati 122.000 e, su un totale di 4.573 ospiti, il 73% erano stranieri, provenienti da 98 Paesi diversi.

(2) Migranti-press, anno XXIX, n. 4, p. 2.

(3) Migranti-press, anno XXVIII, n. 51, p. 9.

(4) In caso di provenienza diretta dalla Romania o Bulgaria, i soggetti verranno sottoposti a controlli minimi alla frontiera, tipo: accertamento dell’identità della persona e verifica della validità e autenticità dei documenti di viaggio. Il diritto di ingresso può essere limitato solo per motivi di ordine pubblico o di sicurezza.

(5) Migranti-press, anno XXIX, n. 13, p. 3. A tal proposito è intervenuto monsignor Piero Gabella, responsabile della Fondazione Cei Migrantes, sostenendo che “gli allarmismi fanno nascere paure nella gente, che poi interpreta i fatti in modo poco cristiano. Occorre abbassare i toni e vedere cosa accade realmente, senza pregiudizi”. Innegabilmente, però, la “questione zingari” – nella sua formulazione più vaga – coinvolge negativamente presso l’opinione pubblica i Rom (e altri gruppi di nomadi), come visto nel paginone de La Stampa, 18 aprile 2007, “Ho visto gli zingari rubare i bambini”, dove si evoca il rapimento della piccola Denise.

(6) Cf ivi, p. 5. Secondo un’inchiesta di Repubblica, 11 aprile 2007, il settore edile è quello in cui maggiormente sono presenti gli immigrati, spesso con garanzie e tutele minime, il 45% su 1.200.000 operai. Di questi 600.000 sono in nero e, quindi a rischio di gravi infortuni, perché di solito costretti a lavorare senza alcuna attrezzatura di sicurezza.

(7) Secondo Caritas-Migrantes, Immigrazione, Dossier Statistico 2006. XVI Rapporto, Centro Studi e Ricerche Idos, Roma 2006, gli stranieri in Italia sarebbero 3.035.144. il Dossier è un progetto di ricerca e sensibilizzazione che fa capo alla Caritas italiana, alla Fondazione Migrantes e alla Caritas diocesana di Roma. Per un’approfondita analisi delle cifre ivi riportate cf Simone M., Il Dossier sull’immigrazione , in Civiltà Cattolica 2006 IV, pp. 490-499.

(8) Vanno ricordati i continui sbarchi di clandestini nell’isola di Lampedusa, con non pochi incidenti, oltre che nel resto delle coste italiane. Secondo il Corriere della Sera, 12 aprile 2007, è al vaglio del Consiglio dei Ministri la nuova legge sull’immigrazione Amato-Ferrero che, sostituendo la Bossi-Fini, intende rendere più flessibile l’incontro tra offerta e domanda di lavoro. Tra l’altro, l’ultima relazione di Palazzo Chigi sui servizi segreti conferma che la maggior parte dei clandestini (64%) sono stranieri col permesso di soggiorno scaduto, overstayers che magari lavorano in nero, mentre sono più ridotte le quote di chi varca “fraudolentemente” le frontiere terrestri (23%) e di chi sbarca sulle coste italiane (13%). Tra i 700.000 senza documenti, molti sono gli extracomunitari che hanno chiesto il permesso di soggiorno grazie ai decreti flussi 2006: e su questo fronte, assicura Amato, «il 68% delle 400.000 domande risulta ormai definito. A Milano, su 33.665 domande ne sono state definite 18.660 (di cui 8.980 respinte)». Davanti a questi numeri, il ministro Ferrero non esclude una regolarizzazione «tale e quale a quella fatta dalla Cdl», che sanò la posizione di 700.000 persone. Il Giornale, 12 aprile 2007, riferisce che la nuova legge sull’immigrazione vorrebbe ridurre l’irregolarità e potrebbe permettere a un milione e mezzo di immigrati di votare alle elezioni amministrative o di essere eletti nei Comuni – da sottolineare il fatto che il 20% degli iscritti alla Cgil è extracomunitario -, con l’unico requisito di avere la carta di soggiorno, che viene consegnata a chi risiede nel nostro Paese da almeno cinque anni e ne fa richiesta.

(9) Per una lettura di tutti gli articoli del nuovo testo unico riguardante le «Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza», e che riduce da 10 a 5 gli anni necessari per ottenere la cittadinanza italiana, cf Migranti -press, anno XXIX, n. 10, p. 8.

(10) Il Giornale, 12 aprile 2007. In 7 anni, le scuole coraniche e le moschee, presenti in Italia, sono aumentate del 50%, grazie ai finanziamenti dello Stato per le organizzazioni assistenziali e religiose.

(11) L’Ucoii (Unione delle Comunità e delle Organizzazioni islamiche in Italia), nata nel 1990 e ideologicamente legata ai Fratelli Musulmani - un movimento fondamentalista e radicale -,è salita ai vertici delle cronache nazionali per essere l’interlocutore principale con cui il ministero dell’Interno, fin dai tempi di Pisanu, ha dato vita a una Consulta islamica, organo composto di 16 membri, col compito di favorire l’integrazione degli islamici in Italia. L’8 febbraio 2007 Hamza Piccardo e Mohamed Nour Dachan, rispettivamente presidente e portavoce dell’Ucoii sono stati indagati - dopo mesi di indagini - dalla Procura di Roma per l’ipotesi di reato di istigazione all’odio razziale, in seguito ad alcune dichiarazioni nelle quali era scritto «ieri stragi naziste, oggi stragi israeliane: Marzabotto = Gaza, Fosse Ardeatine = Libano», con l’evidente intento di paragonare le stragi naziste a quelle in Libano. Per ulteriori approfondimenti cf Vanzan P. - Scatena M., “L Islam tra noi, da Regensburg alla Carta dei valori”, in Studium settembre/ottobre 2006, pp. 651-667, e Vanzan P., Nota politica, in VP 6/2007.

Potenza nucleare nel Medio Oriente - LA BOMBA DI PULCINELLA

Angela Lano, giornalista e scrittrice, è direttore del sito www.infopal.it 
da MC Maggio 2007

Il segreto di Pulcinella è stato infin svelato:lsraele è una potenza nucleare. Come tutti sapevano già dalle rivelazioni del tecnico nucleare Mordechai Vanunu,vent’anni fa (leggi: Missioni Consolata, luglio-agosto 2004, ndr). A togliere gli ultimi dubbi, semmai ce ne fossero ancora in giro, è stato lo stesso premier israeliano Ehud Olmert che, l’11 dicembre scorso,durante un’intervista alla tv tedesca Sat1, ha dichiarato: «L’Iran, apertamente, esplicitamente e pubblicamente minaccia di spazzare via Israele dalla mappa. Potete affermare che ciò rappresenti lo stesso livello, quando essi aspirano ad avere armi nucleari come America, Francia, Israele,Russia? ».Già,armi nucleari «come Israele».

Mordechai, l’Iran e i media mondiali

Mordechai Vanunu,che ha passato 18 anni in prigione dopo che nel 1986 aveva reso pubblico il programma nucleare israeliano, ha dichiarato all’agenzia France Press (www.afp.com): «Le affermazioni di Olmert non sono nulla di nuovo, ma è una buona cosa che Israele abbia deciso di renderle pubbliche. Il mondo, ora, non dovrebbe solo parlare dell’Iran, ma anche di Israele come minaccia nucleare con cui avere a che fare, in modo da creare un Medio Oriente libero dal nucleare e portare la pace». Tuttavia, l’attenzione internazionale è concentrata sull’Iran. Non passa giorno senza che i nostri e gli altri media ci avvertano del «pericolo atomico iraniano», nella lenta, inesorabile,devastante preparazione del «consenso» alla nuova guerra di Bush &compagnia.

Israele è l’unica potenza atomica del Vicino e Medio Oriente,e ha invaso il Libano, l’estate scorsa, e massacra da decenni il popolo palestinese.

All’inizio di gennaio, la rivista militare Genus riferiva quanto riportato da esperti militari:è probabile che Israele possieda circa 150-200 testate nucleari,chiamate «Yeriho» (Gerico), e missili in grado di portare testate a lunga gittata. La testimonianza arriverebbe da “foto satellitari”, secondo le quali, le stazioni di lancio dei missili si troverebbero nell’area di Zechariya, vicino a Beit Shemesh, a ovest di Gerusalemme.

Il 13 novembre scorso,durante la visita a Washington, Olmert aveva per la prima volta fatto cenno a un’azione militare contro l’Iran per «bloccarne il programma militare»:«l’Iran accetterà una soluzione di compromesso sulla questione nucleare solo se avrà motivo dì aver paura»

Quelle bombe nucleari in attesa...

Il 17 gennaio, il quotidiano inglese Sunday Times pubblicava un articolo dal titolo «Rivelazione: Israele pianifica un attacco nucleare contro l’Iran»: «Due squadriglie aeree israeliane si stanno addestrando per far saltare un’installazione iraniana usando bombe a testata nucleare. (...) L’attacco sarebbe il primo con armi nucleari dal 1945,quando gli Stati Uniti hanno lanciato bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Le bombe israeliane avrebbero ognuna una forza equivalente a 1/15 della bomba di Hiroshima. Bombe convenzionali con laser apriranno dei tunnel dentro gli obiettivi. “Mini bombe nucleari” verrebbero immediatamente sparate dentro un impianto a Natanz, esplodendo in profondità per ridurre il rischio della ricaduta radioattiva. “Non appena verrà data luce verde, ci sarà una missione, un colpo e il progetto nucleare sarà distrutto ha dichiarato una delle fonti. (.. .) Il governo israeliano ha più volte minacciato che non lascerà mai che armi nucleari vengano costruite in Iran,il cui presidente Mahmoud Ahmadinejad, ha dichiarato che “Israele deve essere spazzato via dalla mappa geografica”(...).Scienziati hanno calcolato che, sebbene la contaminazione dal bunker potrebbe essere limitata , tonnellate di sostanze a base di uranio radioattivo verrebbero rilasciate».

Arsenali Usa in Israele

Il 12 dicembre dello scorso anno, l’agenzia israeliana Ynetnews (www.y netnews.com) appartenente al gruppo Yedioth, ha reso noto che «il senato e la camera dei rappresentanti Usa hanno approvato il raddoppio degli arsenali statunitensi in Israele». In questi depositi, ha scritto il giornalista Manlio Dinucci, il Pentagono conserva armi e altri equipaggiamenti militari, del valore di 100 milioni di dollari, da usare in Medio Oriente «in caso di emergenza». Ma,«in caso di emergenza, anche Israele è autorizzato a usare questi arsenali».Ora essi saranno raddoppiati come capacità e, grazie a un finanziamento di 200 milioni di dollari, «riempiti di nuovo».Perché riempiti di nuovo? Perché “gran parte delle armi e degli equipaggiamentistatunitensi depositati in Israele l’anno scorso è stata usata questa estate per combattere la guerra in Libano”.

Questo raddoppio tira in ballo anche il nostro Paese: “Come documenta l’organizzazione statunitense Global Security (www.globalsecurity.org) – scrive ancora Dinucci -, il 31° squadrone munizioni che opera a Camp Darby”, la base logistica dell’esercito Usa tra Pisa e Livorno, è responsabile del maggior e più disseminato arsenale di munizioni convenzionali delle forze aeree Usa in Europa, consistente in 21mila tonnellate collocate in Italia, e di due depositi classificati, situati in Israele. Questi e altri arsenali statunitensi in lsraele, gran parte dei quali è stata usata per la guerra contro il Libano, sono dunque una sorta di succursale di Camp Darby.(..) E, poiché ora il raddoppio e il riempimento degli arsenali Usa in Israele saranno effettuati dal 31° squadrone munizioni, sarà sempre questa base Usa in Italia a svolgere un ruolo chiave.

Un po’ di … preistoria atomica israeliana

La farsa del lapsus-fuga di notizie sull’arsenale nucleare israeliano, di cui il premier Olmert si è reso (consapevole?) strumento, copre una verità indiscussa e ben precedente anche alle ormai datate rivelazioni di Vanunu.

Il piano nucleare israeliano ha non solo una storia, ma anche una preistoria, registrata su documenti, libri, ecc. Nel numero del 24 dicembre scorso la rivista Jeune Afrique ripercorre la «preistoria» nucleare di Israele attraverso il libro del giornalista israeliano Michael Karpin,«The bomb in the Basement»:«L’autore fa risalire la “preistoria dell’armamento nucleare israeliano”al 1930, precisamente alla rivolta araba del 1935-1939 in Palestina contro la potenza mandataria britannica e contro la colonizzazione sionista. È da allora, dunque, prima della shoah, che David Ben Gurion, presidente dell’Agenzia ebraica e che diventerà il primo capo di governo israeliano, si convince che i suoi correligionari sarebbero stati sterminati dagli Arabi, se non fossero stati protetti da un esercito più potente dell’insieme delle forze della regione. Questa “dottrina Ben Gurion” comprenderà, a partire dal 1945, la volontà di acquisire un arsenale atomico e impedire ai vicini di israele di entrare in competizione su questo terreno.

Dalla fine della Guerra mondiale, il movimento sionista ricerca e ottiene l’appoggio degli Stati Uniti e, singolarmente,di un gruppo di 17 ricchi ebrei americani,che finanziano l’acquisto e il trasporto delle armi, delle munizioni e delle macchine belliche, Questo comitato, Sonneborn, dal nome di uno dei 17 membri,apporterà ancora un importante contributo, nel 1956-1957,al progetto nucleare franco-israeliano.

Questo orientamento al nucleare, voluto da Ben Gurion, è evidenziato dopo la creazione dello Stato, nel 1948, da un dipartimento di ricerca nucleare”.

Israele, partner militare dell’Italia

Il governo israeliano è nostro partner militare: il 17 maggio 2005, il governo Berlusconi vara la Legge n. 94, dove viene istituzionalizzata un’intesa per la cooperazione militare con Israele siglata nel 2003 (www.italgiure.giustizi.it). «Essa prevede - prosegue Dinucci - una serie di attività congiunte, tra cui “importazione, esportazione e transito di materiali militari ”organizzazione delle forze armate ”scambio di dati tecnici, informazioni e hardware”militari. In tal modo l’Italia contribuisce, con ricerche e alte tecnologie, anche al potenziamento dell’arsenale nucleare israeliano, l’unico in Medio Oriente». Proprio una bella equivicinanza!

Un accordo firmato a ottobre del 2006 prevede la partecipazione della flotta navale israeliana alla campagna militare Nato “Activ eEndeavour” (www.afsputh.nato.int) finalizzata a combattere il “terrorismo nel Mediterraneo”. La squadra navale Nato è comandata da un ufficiale italiano agli ordini statunitensi.

«In questi ultimi mesi - scrive Seymour Hersh su The New Yorker (riportiamo la traduzione pubblicata su Internazionale del 9 marzo2007, ndr) - con il progressivo deteriorarsi della situazione in Iraq, l’amministrazione Bush ha dato una svolta decisa alla sua strategia in Medio Oriente, sia nella diplomazia ufficiale sia nelle operazioni clandestine. Questa “sterzata”- così la definiscono alcuni alla Casa Bianca - ha avvicinato gli Stati Uniti a uno scontro aperto con l’Iran e li ha portati a intromettersi nel sempre più acceso conflitto tra musulmani sciiti e sunniti in atto nella regione.

Per contrastare l’Iran, paese a prevalenza sciita, la Casa Bianca ha quindi deciso di rivedere da cima a fondo le sue priorità. L’amministrazione Bush - in collaborazione con l’Arabia Saudita, paese a maggioranza sunnita - conduce da tempo operazioni clandestine in Libano per indebolire l-Iezbollah, l’organizzazione sciita appoggiata dall’Iran».

Di tale pericoloso scenario di «guerra infinita» parla ormai quasi quotidianamente un illustre personaggio ebreo canadese, il prof. Michel Chossudovsky nel suo interessante e documentato sito di ricerca (www.globalresearch.ca): «Il mondo è al crocevia della più grave crisi della storia moderna - scrive in L’impensabile. La guerra nucleare statunitense-israeliana contro l’Iran .Gli Stati Uniti si sono imbarcati in un’avventura militare,una “lunga guerra” che minaccia il futuro dell’umanità. In nessun momento, da quando la prima bomba atomica è stata sganciata su Hiroshima, il 6 agosto 1945, l’umanità è stata più vicina all’impensabile, a un olocausto nucleare che potrebbe potenzialmente diffondersi, in termini di contaminazione radioattiva,su una larga parte del Medio Oriente. Ci sono prove crescenti che l’amministrazione Bush,in accordo con Israele e la Nato, sta pianificando una guerra nucleare contro l’Iran, ironicamente, in rappresaglia per il suo programma atomico inesistente. L’operazione militare statunitense-israeliana è annunciata come “in un avanzato stato di preparazione”. Se tale piano stesse per essere lanciato, la guerra mondiale si intensificherebbe e probabilmente coinvolgerebbe l’intera area mediorientale e centrasiatica. La guerra potrebbe estendersi oltre la regione e, come alcuni analisti hanno suggerito, alla fine condurrebbe alla Terza guerra mondiale».

I media: amplificatori di menzogne

«L’Iran possiede un avanzato sistema aereo e la capacità di colpire le postazioni Usa e alleate in Iraq e negli Stati del Golfo, come ha dimostrato nei recenti esercizi militari» afferma Chossudovsky, sottolineando che, per rovesciare la minaccia della guerra,c’è bisogno di una campagna di informazione internazionale capillare sui «danni della guerra propagandata dagli Usa che prevede l’uso delle armi nucleari. Il messaggio deve essere forte e chiaro: non è solo l’Iran che costituisce una minaccia alla sicurezza globale, ma anche Stati Uniti d’America e Israele». Non possiamo che sperare, insieme al prof. Chossudovsky, ad analisti, studiosi, uomini e donne di pace che questa nuova guerra per cui la propaganda mediatica statunitense, israeliana ed europea sta lavorando da un paio di anni, non diventi realtà. Possiamo augurarci che i media, italiani compresi, smettano di fare i banditori di menzogne, gli amplificatori di balle planetarie e contro la vita sul pianeta, e rivelino, come alcuni stanno già facendo, i retroscena dell’ennesima impostura dei «signori delle guerre». Il mondo, gli esseri umani, non potrebbero permettersi una guerra nucleare.

«Bisogna rompere la cospirazione del silenzio - sottolinea Chossudovsky - mettere in luce le menzogne dei mezzi di informazione e le loro distorsioni, affrontare la natura criminale dell’amministrazione Usa e di quei governi che la sostengono, la sua agenda di guerra e la cosiddetta «Agenda della sicurezza nazionale», che ha già definito i contorni di uno stato di polizia. È fondamentale portare il progetto di guerra di Usa e Israele di fronte al dibattito politico, soprattutto nel Nordamerica, nell’Europa occidentale e in Israele. Politici e cittadini devono assumere una posizione contro la guerra». Quella imminente contro l’Iran. E contro tutte le altre attualmente in corso.

Due tesi che fanno discutere

Due libri diversi stanno facendo discutere e riempire le pagine culturali e politiche di riviste e quotidiani italiani: l’uno, Israele siamo noi (Edizione Rizzoli), scritto dalla pasdaran del conflitto israelo-palestinese, Fiamma Nierenstein; l’altro, Obiettivo Iran (Fazi), dell’ex capo delle ispezioni Onu per gli armamenti nucleari.

Il libro della Nierenstein critica duramente il pacifismo ebraico e sostiene l’inesistenza dell’apartheid israeliano attuato contro la popolazione palestinese. Check-point, barriere elettroniche sofisticatissime, muro di separazione, omicidi mirati di militanti e leader delle brigate della resistenza palestinese, occupazione, botte, torture, prigioni stracolme di palestinesi, proposta dei partiti religiosi di destra israeliani di «espellere gli arabi israeliani» dal paese, pulizia etnica, ecc, sono tutte invenzioni della propaganda antisemita. Fandonie, insomma, propinate da gente in malafede; propaganda che arriva anche dagli stessi Israeliani pacifisti e da movimenti ebraici occidentali; una congiura contro Israele, l’unica «democrazia-laboratorio del Medio Oriente».

La tesi della Nierenstein è questa: «Israele è un modello positivo di convivenza civile, proprio perché è fondato su un’ideologia - il sionismo - che propone un modo di vita insieme laico e carico di valori, attento ai bisogni della collettività e alla libertà degli individui, fondato sulla pace e sul progresso, alieno per sua natura dalla violenza». Israele e tutti i suoi abitanti, sia ebrei sia arabi, sarebbero dunque «direttamente minacciati di estinzione da parte del terrorismo suicida» e, in particolare, dall’Iran di Ahmadinejad, Hizbollah libanesi e Hamas palestinese.

In sintesi, quindi, Israele siamo noi, perché «la minaccia che lo sovrasta incombe su tutta la nostra civiltà occidentale, attaccata dall’estremismo islamico». Si tratta, in fondo, della tesi ormai imperante dello scontro tra civiltà, tra Oriente e Occidente.

Obiettivo Iran, di Scott Ritter, spiega perché Washington mira a far crollare il regime di Mahmoud Alimadinejad, anche a costo di «forzare la mano» all’Europa. L’autore «prospetta un’ipotesi in contro- tendenza rispetto al rnainstream dell’informazione: basandosi su un’attenta ricostruzione delle indagini condotte dalla Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica) in Iran, dimostra che lo spettro del nucleare paventato dagli americani è stato ingigantito ad arte per giustificare un nuovo intervento in Medioriente. E che il programma di arricchimento dell’uranio è stato potenziato soprattutto a scopo energetico, non bellico.

Ma alla luce di questi elementi, la posizione dell’America appare sempre più strumentale: un altro tassello si aggiunge così al complesso quadro della strategia mistificatoria del governo Bush, già utilizzata per convincere l’opinione pubblica della necessità della guerra in Iraq. La Casa Bianca non è l’unica ad avere degli interessi in un nuovo disastroso conflitto: dopo le provocazioni di Ahmadinejad, Israele considera l’Iran il suo nemico pubblico n. 1 e teme un attacco missilistico. Ma in gioco ci sono pure gli accordi commerciali fra Iran e Cina per le risorse energetiche e gli investimenti della Russia».

LA STRADA È LUNGA
Costa D’Avorio / Il dopo Accordi di Ouagadougou

di Andrea Anselmi
da Nigrizia/Giugno 2007

Il “dialogo diretto” tra il governo di Abidjan e gli ex ribelli sembra offrire dei risultati insperati. Gli accordi di Ouagadougou del 4 marzo hanno messo in moto dinamiche inaspettate, soprattutto alla luce delle difficoltà incontrate, da quasi cinque anni, per trovare una soluzione alla crisi.

Come previsto dalle disposizioni dell’accordo, il 29 marzo Guillaume Soro, già capo delle forze ribelli, è stato nominato primo ministro e ha formato un governo con l’obbiettivo principale di riportare la calma nel paese e organizzare al meglio la tenuta di nuove elezioni.

La formazione governativa comprende, al momento, undici ministri del partito del presidente Laurent Gbagbo, il Fronte Popolare Ivoriano (Fpi), sette delle Forze Nuove, e cinque a testa per i maggiori partiti di opposizione: il Raggruppamento dei Repubblicani (Rdr), di Alassane Ouattara, e il Partito democratico della Costa d’Avorio, di Henri Konan Bédié.

Da metà aprile, inoltre, Gbagbo ha annunciato l’inizio dello smantellamento della “zona di fiducia” (zone de confiance), che divide il nord e il sud del paese dal settembre 2002. Le forze internazionali di interposizione saranno gradualmente sostituite (una riduzione di metà ogni due mesi, fino al completo ritiro) da brigate miste di soldati dell’esercito ivoriano e di forze ribelli, sotto la tutela del Centro di comando integrato (Cci), struttura paritaria composta dagli stati maggiore delle due ex formazioni avversarie.

La fine della zona cuscinetto” dovrebbe permettere la ripresa di scambi regolari tra le due metà della Costa d’Avorio e potrebbe segnare un passo decisivo verso la riunificazione del paese. Inoltre, visti i progressi delle ultime settimane, diverse istituzioni sembrano aver ripreso fiducia nel possibile consolidamento del processo di pace ivoriano. Per esempio, a fine aprile il ministro ivoriano dell’economia e delle finanze, Charles Koffi Diby, è riuscito a trovare un accordo con la Banca mondiale per la ripresa dei prestiti.

Tali progressi erano impensabili fino a qualche mese fa. Dall’autunno scorso, il dialogo e le possibilità di un miglioramento concreto della situazione ivoriana sembravano, infatti, essersi arenati per l’ennesima volta. Le elezioni di ottobre erano state nuovamente posticipate per problemi legati al disarmo dei contendenti, all’identificazione e alla registrazione degli elettori.

A novembre, la risoluzione 1721 delle Nazioni Unite pareva aver definitivamente messo alle corde Gbagbo, al quale era concesso ancora un anno di tempo prima che la legittimità del suo mandato presidenziale venisse revocata.

I mesi seguenti sono stati costellati da una serie di manifestazioni anti-Gbagbo, spesso duramente represse dall’intervento delle forze dell’ordine. Questo clima di tensione sembra, tuttavia, aver cominciato a dissiparsi con l’inizio delle contrattazioni tra il presidente ivoriano e il capo dei ribelli, Soro. Le negoziazioni iniziate nel febbraio scorso - al cospetto del capo di stato burkinabé, Blaise Compaoré - hanno portato alla firma degli accordi di Ouagadougou. Oltre allo smantellamento della zone de confiance, sostituita da una “linea verde” temporanea, questi patti prevedono una semplificazione del processo di identificazione e rilascio dei documenti necessari al voto, un quadro permanente di concertazione tra i quattro leader principali del paese (Gbagbo, Soro, Bédié e Ouattara) e la previsione di giungere a elezioni entro dieci mesi.

L’accordo trovato tra le due parti esclude, di fatto, qualsiasi mediazione internazionale (da parte dell’Onu o della Francia) e appare particolarmente favorevole al capo dello stato. Il presidente ivoriano sembra aver completamente svuotato d’importanza la risoluzione 1721 delle Nazioni Unite. Si è sottratto agli obblighi del Gruppo di lavoro internazionale (che aveva il compito di seguire gli avanzamenti del processo di pace) e non si è ancora precluso nessun margine d’azione rispetto a Soro. La mancanza di compromessi specifici nella ripartizione di ruoli tra presidente e primo ministro si associa, inoltre, alla flessibilità delle scadenze fissate per la messa in pratica delle riforme previste.

Nonostante i concreti avanzamenti e la speranza nel raggiungimento degli obiettivi previsti, numerosi dubbi e preoccupazioni circondano la realtà ivoriana.

Fa discutere, per esempio, l’approvazione, alla quasi unanimità, di una legge di amnistia che copre tutti i delitti «contro la sicurezza dello stato» dal settembre 2000 (elezioni di Gbagbo) a oggi. Inoltre, se da un lato si temono possibili ricadute di violenza con la progressiva partenza dei contingenti internazionali, dall’altra ci si chiede quali possano essere le possibilità concrete di portare a pieno compimento tutti i propositi sviluppati negli accordi di pace.

Per quanto riguarda il primo punto, la scomparsa di una zona tampone di controllo potrebbe aumentare il rischio di eventuali azioni militari da parte di uno dei due schieramenti, eliminazioni mirate e abusi (omicidi, rapimenti, furti, violenze sessuali) nella “zona cuscinetto”, a opera di individui o milizie armate. A questo proposito, Francia e Nazioni Unite hanno confermato la loro intenzione di mantenere una presenza militare in Costa d’Avorio (che ora conta 11mila uomini, di cui circa 3.500 francesi).

Il nodo della questione sarà capire quali sono le vere intenzioni di Gbagbo e di Soro. Se si tratta, in definitiva, di un’ennesima spartizione a tempo indefinito della torta ivoriana o se l’obiettivo è quello di porre definitivamente fine alla crisi del paese. Allontanati, almeno per il momento, gli attori internazionali, la risoluzione della crisi è profondamente dipendente dalla buona volontà di cooperazione delle parti. L’impressione è che, nelle loro attività congiunte, Gbagbo e Soro mescolino rispetto e sfiducia reciproca. Oltre a questi scogli di ordine psicologico, tuttavia, gli impedimenti tecnici rimangono seri: disarmo, censimento della popolazione, registrazione degli elettori e revisione delle liste elettorali restano al centro della questione ivoriana.

Lunedì, 12 Novembre 2007 19:01

IL TRATTO IDENTITARIO DI UN ISLAM ITALIANO

 IL TRATTO IDENTITARIO DI UN ISLAM ITALIANO

di Piersandro Vanzan
da Vita Pastorale n. 6/2007

Già in VF 12/2006, pp. 52-53, abbiamo presentato l’impegno del ministro dell’interno, Giuliano Amato, per realizzare l’integrazione dei musulmani nel tessuto sociale e politico italiano, coinvolgendo le varie organizzazioni islamiche presenti tra noi in una Carta dei valori condivisibile anche da loro1. Tra le 16 organizzazioni che rappresentano l’arcipelago islamico presente tra noi, spicca l’Ucoii (Unione delle comunità e delle organizzazioni islamiche in Italia), nata nel 1990 e ideologicamente legata ai Fratelli musulmani, movimento fondamentalista radicale. Questa organizzazione è salita ai vertici delle cronache nazionali nell’agosto 2006, quando - in seguito alla guerra nel Libano - fece pubblicare affermazioni, tipo: «Ieri stragi naziste, oggi stragi israeliane: Marzabotto = Gaza, Fosse Ardeatine = Libano». Deciso a contrastare tali farneticazioni, Amato aveva immediatamente convocato la Consulta senza però riuscire – nonostante l’appoggio della maggioranza - a ottenere le scuse di Mohamed Nour Dachan, presidente dell’Ucoii.

Glissiamo sulle alterne vicende dei mesi successivi, con le varie redazioni di quella Carta, e veniamo ai contenuti della nuova Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione, che il ministro Amato ha presentato il 23 aprile2. Nel presentare questa nuova redazione alla Consulta islamica e ai rappresentanti italiani di tutte le altre confessioni, il responsabile del Viminale ha detto: «Ora si vedrà chi intende aderire e concorrere quindi alla sua diffusione e all’approfondimento dei temi trattati», ma non ha voluto pronunciarsi sulle conseguenze di un eventuale rifiuto da parte di alcuni organismi islamici, mentre Cardia ha ammesso che «nelle audizioni ci sono stati elementi più sfumati. Può darsi che queste riserve si sciolgano oppure che portino queste organizzazioni a fare un passo indietro dalla Consulta islamica».

La Carta, purtroppo, ha un valore puramente simbolico, visto che «non può essere adottata come atto pubblico e quindi imposta ai cittadini». Tuttavia costituisce «una fonte di ispirazione per l’azione dello stesso ministero e accompagna il processo d’integrazione degli immigrati e il percorso verso la cittadinanza italiana». In particolare ha detto Amato, «può concorrere a consolidare il tratto identitario di un islam italiano e a creare la premessa per un’intesa con lo Stato». Tre i principi fondamentali che la ispirano: «La centralità della persona umana e la sua dignità; l’uguaglianza dei diritti fra uomo e donna; il diritto alla libertà religiosa che sta alla base della laicità dello Stato e della scuola. Su questi valori e sull’ancoraggio totale alla Costituzione non ci sono zone franche, coni d’ombra o riconoscimento di poteri alternativi». Suddivisa in sette paragrafi, la Carta riguarda in particolare: le radici culturali, la dignità della persona, i diritti sociali, l’istruzione, la famiglia, la laicità e la libertà religiosa, l’impegno internazionale dell’Italia4.

Nell’incipit, dopo aver dichiarato che «l’Italia riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», viene condannata sia la poligamia, «contraria ai diritti della donna», sia ogni forma di coercizione e di violenza, dentro e fuori le mura domestiche, sia i matrimoni forzati o tra bambini, sia ogni forma di razzismo: dall’antisemitismo all’islamofobia. Souad Sbai, rappresentante delle donne marocchine in Italia, ha dichiarato: «Il documento ha chiarito alcuni punti che a noi donne stavano particolarmente a cuore, come il riconoscimento dell’uguaglianza tra l’uomo e la donna, e dunque il godimento di pari diritti tra coniugi, il “no” alla poligamia, la necessità della conoscenza della lingua italiana per l’ottenimento della cittadinanza italiana. E ancora, la condanna di ogni discriminazione razziale, sessuale e religiosa, il riconoscimento all’interno della coppia di pari potestà educativa, ferma restando la libertà di pensiero dei figli e la libera scelta religiosa per qualsiasi individuo. Tuttavia consideriamo questo risultato non come un punto di arrivo, ma come la partenza per ottenere ulteriori traguardi»5.

La Carta inoltre puntualizza che «l’Italia è uno dei Paesi più antichi d’Europa che affonda le radici nella cultura classica della Grecia e di Roma. Essa si è evoluta nell’orizzonte del cristianesimo che ha permeato la sua storia e, insieme con l’ebraismo, ha preparato l’apertura verso la modernità e i principi di libertà e di giustizia. I valori su cui si fonda la società italiana sono frutto dell’impegno di generazioni di uomini e di donne di diversi orientamenti, laici e religiosi, e sono scritti nella Costituzione del 1947. Essa rappresenta lo spartiacque nei confronti del totalitarismo e dell’antisemitismo, che ha avvelenato l’Europa del secolo XX e perseguitato il popolo ebraico e la sua cultura. La Costituzione è fondata sul rispetto della dignità umana ed è ispirata ai principi di libertà e uguaglianza, validi per chiunque si trovi a vivere sul territorio italiano».

Inoltre: «L’Italia è impegnata perché ogni persona sin dal primo momento in cui si trova sul territorio italiano possa fruire dei diritti fondamentali senza distinzione di sesso, etnia, religione, condizioni sociali. Al tempo stesso, ogni persona che vive in Italia deve rispettare i valori su cui poggia la società, i diritti degli altri, i doveri di solidarietà richiesti dalle leggi. Alle condizioni previste dalla legge, l’Italia offre asilo e protezione a quanti, nei propri Paesi, sono perseguitati o impediti nell’esercizio delle libertà fondamentali. Nel prevedere parità di diritti e di doveri per tutti, la legge offre il suo sostegno a chi subisce discriminazioni, o vive in stato di bisogno, in particolare alle donne e ai minori, rimuovendo gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona. I diritti di libertà, e i diritti sociali, che il nostro ordinamento ha maturato nel tempo devono estendersi a tutti gli immigrati»6.

Questi, a grandi linee, i contenuti della Carta, e benché siano previsti nuovi contrasti prima di giungere alla sua piena ratifica, è chiara la nostra apertura verso l’islam. Ma inevitabile fa capolino la domanda: i musulmani residenti tra noi accetteranno i principi contenuti nella nostra Costituzione, anche se contrari alla loro fede? La risposta è ardua, come s’è visto nel travagliato iter della Carta, perché, se noi sappiamo distinguere la sfera religiosa da quella civile e politica, per l’islam fideista esse fanno tutt’uno, regolato dalla religione rivelata da Allah nel Corano a Maometto, «cosicché non c’è distinzione né tanto meno separazione tra vita religiosa e sociale, tra sfera civile e sfera religiosa, tra legge civile e legge religiosa, ma questa codificata nella sharìa, è l’unica legge civile. In tal modo l’ordine politico e giuridico ha la sua fonte nella rivelazione coranica e non può quindi costituirsi in maniera autonoma, indipendentemente da questa, ma deve seguire i precetti, che, essendo “divini”, sono immutabili, a differenza delle leggi “umane” le quali, essendo fatte dagli uomini, possono essere modificate o abolite da essi»7

Eppure, secondo Adnane Mokrani, dell’Università gregoriana, un tema chiave per l’integrazione dei musulmani tra noi è il concetto di “laicità”, perché se nella storia del pensiero islamico la laicità è stata spesso presentata in modo sbagliato - come separazione tra religione e Stato, tra etica e religione, identificandosi con l’incoraggiamento alla corruzione -, sembra giunto il momento di farla conoscere «in modo positivo, come garanzia di uguaglianza e di giustizia, che sono due principi fondamentali nella teologia islamica». Dello stesso parere è Carlo Cardia: «Di fronte alla questione islamica, e del multiculturalismo, l’Occidente avrebbe una grande occasione storica. Quella di mostrare il volto migliore della laicità, che sa distinguere, accogliere e tutelare il patrimonio di spiritualità e di umanesimo presente nell’islam (come in altre religioni), e sa respingere pratiche e fenomeni di arretratezza civile e culturale che anche nelle terre cristiane sono esistiti in passato».

«La laicità potrebbe svolgere verso l’islam quella stessa funzione di stimolo anche critico che ha svolto verso altre confessioni, e favorire un’evoluzione, che ne esalti la religiosità e ne emargini le scorie del passato, soprattutto per ciò che riguarda la libertà religiosa e i principi di eguaglianza tra uomo e donna»8. Soltanto uno Stato fedele alla propria identità laica e accogliente, ma anche severo verso gli estremismi, non deluderà le aspettative di quegli immigrati che, una volta giunti nel nostro Paese, sperano di poter fruire dei diritti umani - uguaglianza, libertà, dignità - che vengono loro negati altrove, né degli italiani, che esigono chiarezza e regole per una convivenza civile e pacifica.

Note

  1. L’iniziativa era partita già dal ministro Pisanu, che aveva dato vita a una Consulta islamica, con 16 membri, rappresentanti di altrettante organizzazioni di musulmani presenti in Italia.

  2. www.osservatoriosullalegalità.org. Il Comitato scientifico, cui si deve quest’ultima redazione, era presieduto dal prof. Carlo Cardia (Università Roma Tre), e comprendeva i proff. Roberta Aluffi Beck Peccoz (Università di Torino), Khaled Fouad Allam (Università di Trieste), Adnane Mokrani (Università gregoriana di Roma), Francesco Zannini (Pontificio istituto di studi arabi e islamistica di Roma). Inoltre, hanno partecipato ai lavori del Comitato il prefetto Franco Testa e il vice prefetto Maria Patrizia Paba.

  3. Avvenire, 24 aprile 2007.

  4. Acide le critiche de Il Manifesto, 24 aprile 2007: «Nel tentativo di tutelare i valori acquisiti nel nostro Paese e minacciati invece da posizioni tradizionaliste, spesso maggioritarie in alcune popolazioni immigrate, la Carta rischia di essere arretrata rispetto alle nuove istanze poste oggi dalla società italiana, come avviene nel capitolo sulla famiglia, istituzione mummificata nella sua declinazione eterosessuale e monogamica. Nessun riferimento alle nuove famiglie allargate, su cui da mesi si discute, né tanto meno alle unioni omosessuali, cosa che ci si sarebbe aspettati almeno da un documento che non ha alcun valore giuridico, ma ha invece il fine di costruire una cultura del rispetto reciproco».

  5. Avvenire, 24 aprile 2007. Ha poi aggiunto: «Le opposizioni in merito all’approvazione del testo – all’interno della Consulta - ci sono e continueranno a esserci ma il fatto che, una volta per tutte, questi e altri temi fondamentali siano stati messi nero su bianco, e precisati in un testo ufficiale, è di estrema importanza, soprattutto per quelle donne, marocchine e no, che quotidianamente vivono l’inferno dei matrimoni poligamici imposti e della totale assenza di diritti. La Carta dei valori dà nuovamente coraggio alle donne che lo avevano perso, a tutte coloro che si ritrovano in balia di un illegale potere patriarcale e che avevano bisogno di una decisa presa di posizione da parte delle Istituzioni italiane».

  6. www.osservatoriosullalegalità.org.

  7. De Rosa G., Islam e Occidente, LDC-La Civiltà Cattolica 2004, Torino-Roma, pp. 233s.

  8. Cf rispettivamente Jesus, gennaio 2007, p. 49 e Cardia C., Le sfide della laicità. Etica, multiculturalismo, islam, San Paolo 2007, Cinisello Balsamo (Mi) 2007, p. 27.

L’ITALIA DEI NUOVI SCHIAVI . I MILLE VOLTI DELLA TRATTA

Tratta di esseri umani: un concetto associato, in questi anni, alle vittime dello sfruttamento sessuale a fini di prostituzione. In realtà il tema della tratta sempre più si collega, nei fatti, anche ai fenomeni dell’immigrazione irregolare, al lavoro nero (in casa, in azienda, nei campi, negli alberghi, nell’edilizia, nella pesca), alle vicende dei minori sfruttati per accattonaggio, al commercio illegale di organi e di minori per adozioni. Il volto della tratta e delle cosiddette “nuove schiavitù”, nell’Italia e nel mondo contemporanei, si va ampliando e diventa multiforme.

È possibile, in ogni caso, mettere a fuoco alcuni punti fermi. Lo consentono alcune ricerche promosse da Caritas Italiana, ma anche l’ormai decennale lavoro svolto dal Coordinamento nazionale contro la tratta, avviato e promosso da Caritas Italiana. Fatta salva la distinzione tra “traffico” e “tratta” (in base ad alcune norme nazionali ed europee, il primo concetto si riferisce a flussi illegali e a forme di sfruttamento, il secondo presuppone anche una coercizione della libertà e l’uso della violenza nei confronti della persona trafficata), è dunque possibile affermare che negli ultimi quattro anni in Italia sono state trafficate 170 mila persone; di esse, 55 mila sono state oggetto di tratta, 50 mila a scopo sessuale, le restanti 5 mila a scopo lavorativo (dato che riguarda soprattutto persone cinesi che vivono nella regioni del centro Italia, in particolare la Toscana).

A partire da questi dati e incrociandoli con altre ricerche, sì può ritenere inoltre che le vittime di sfruttamento sessuale in Italia siano in media 25-30 mila all’anno, di cui almeno 1.500 minori. Difficile, invece, fare una stima delle vittime di sfruttamento sul lavoro, anche perché tra i fenomeni dell’immigrazione irregolare per lavoro, del lavoro nero e dello sfruttamento lavorativo vi sono confini piuttosto incerti. In sintesi, comunque, in Italia le persone “trattate” presentano tre volti prevalenti: quello di chi è prostituito a scopo sessuale, quello del lavoratore sfruttato, quello del minore sfruttato.

Ogni tragitto, una violenza

Per quanto grave e multiforme, il fenomeno della tratta può essere aggredito. A patto di cambiare alcuni atteggiamenti, da parte sia della politica che dei soggetti sociali. Tra le operazioni che bisogna attuare o intensificare, occorre anzitutto vigilare sui tragitti battuti dagli organizzatori della tratta. Dal loro studio si ricavano elementi di conoscenza, interessanti. il tragitto Ucraina-Chioggia, per esempio, è molto pesante, per chi lo compie, sul piano economico e dello sfruttamento: dietro c’è un debito contratto nel paese di origine, anche dal nucleo familiare. La tratta Marocco-Crotone si caratterizza soprattutto per i danni che possono derivare alle famiglie delle persone trafficate: se gli emigranti non riescono a pagare, i trafficanti confiscano le case o addirittura uccidono i famigliari. La tratta Marocco- Varese è fondata sull’indebitamento delle famiglie nei confronti degli strozzini, la tratta Pakistan-Crotone è legata ancora una volta al debito delle famiglie, la tratta Ecuador- Ventimiglia è legata fortemente allo strozzinaggio, la tratta Cina-Trieste è sovente un viaggio pagato verso l’occidente da un imprenditore che ha lasciato il suo paese da tempo e ha fatto fortuna. E’ necessario, in proposito, che la politica apra gli occhi, dedicando un’attenzione particolare al tema della mobilità delle persone, oltre che a quello della difesa della libertà e dei diritti.

In secondo luogo, è opportuno rafforzare la protezione sociale. Nel caso della tratta per scopi sessuali, negli ultimi cinque anni almeno 40 mila persone hanno chiesto aiuto al numero verde e alle reti che lavorano per la protezione sociale delle donne vittime di tratta I progetti, anche finanziati attraverso il Dipartimento delle pari opportunità della presidenza del consiglio, sono stati in grado di accoglierne circa 11.500. Di queste, solo 700 hanno abbandonato il progetto. Bisogna dunque operare per rafforzare i progetti e la rete che li attua, attraverso un riconoscimento pubblico e la dotazione di risorse, anche da parte dei piani sociali locali.

In tempi di riforma della legge sull’immigrazione, la battaglia politica più importante è quella per la protezione sociale delle vittime. Bisogna modificare il meccanismo previsto dall’articolo 18, che in sei anni ha consentito la concessione di 5.500 permessi di soggiorno (su 11.500 persone accolte) alle vittime di tratta, di cui il 70% premiali (per chi collabora denunciando sfruttatori e “protettori”) e solo il 30% sociali (per le vittime più esposte, anche in caso di ritorno in patria): occorre che l’articolo 18 diventi sempre più una misura sociale e uno strumento per recuperare dignità e libertà, oltre che per colpire le reti criminali.

Lavorare dentro e fuori

Oggi la mobilità degli essere umani attraverso le frontiere molto spesso è regolata dai meccanismi del “traffico”. Sulla base di questa constatazione, in Italia appare necessario rivedere la legge sull’immigrazione, la cosiddetta Bossi-Fini, per ritornare alla figura dello sponsor e alla concessione di permessi di soggiorno per ricerca di lavoro, e per istituzionalizzare la “prova lavoro”: legalità e visibilità degli ingressi sono i primi presupposti per la tutela di ogni persona. Quanto alla politica sociale, occorre che non si proceda secondo tre livelli di dignità: della persona, del cittadino, del residente. In caso contrario, si finirebbe per negare diritti fondamentali, magari solo perché una persona non è cittadino né residente. E’ molto importante, al contrario, proseguire lungo la strada intrapresa da alcuni comuni per dare la cittadinanza sociale ai soggetti che hanno bisogno di essere difesi rispetto ad alcuni diritti fondamentali. Questo aspetto è rilevante sul piano legislativo: oggi i comuni sono i soggetti fondamentali e centrali nel campo della difesa dei diritti della persona, dunque devono essere messi in grado di operare in questa direzione.

Da ultimo, sul fronte internazionale c’è bisogno di maggiore programmazione. La cooperazione è fondamentale nella lotta alla tratta: è molto importante creare un continuum tra i progetti avviati nel territorio italiano e i progetti che si conducono in Europa e nel mondo. Sulla stessa persona, il cittadino rumeno o il cittadino nigeriano che a un certo punto della loro parabola vengono trafficati in Italia, deve interagire uno stesso progetto da due punti di vista: l’attenzione alla tutela della persona e della sua famiglia, per risultare efficace e non dispersiva, deve essere unitaria.

di Giancarlo Perego
Italia Caritas / Marzo 2007




Undicimila persone assistite, migliaia indagati per vari traffici

L’osservatorio nazionale sulla tratta degli esseri umani ha esposto a fine gennaio, in un convegno tenutosi a San Benedetto del Tronto, i dati salienti sul fenomeno, ottenuti confrontando informazioni provenienti da diverse fonti ufficiali: ministeri della giustizia e dell’interno, Direzione nazionale antimafia e Dipartimento per i diritti e le pari opportunità. Si tratta dei primi risultati di un progetto Equal di cui è titolare e promotrice l’associazione “On the road”. Spesso le cifre, in questo ambito, risultano impossibili da sovrapporre, perché raccolte in base alle competenze di ciascun ente, con sistemi differenti di rilevazione. I dati riguardano comunque il fenomeno emerso, cioè tutti i casi venuti a conoscenza degli operatori sociali o della giustizia.

Tra marzo 2000 e giugno 2006, 11226 persone vittime di violenza e grave sfruttamento sono state inserite nel Programma di assistenza e inclusione sociale (previsto dall’articolo 18 della legge sull’immigrazione); 619 erano minori, mentre 5.495 sono stati i permessi di soggiorno rilasciati per motivi umanitari. Dai dati della Direzione nazionale antimafia risulta invece che 993 persone, tra il 2003 e il 2005, hanno subito reati di tratta e riduzioni in schiavitù: 86 nel 2003, 428 nel 2004, 479 nel 2005. Inoltre da settembre 2003 al 2005 sono stati 2.136 gli indagati per reati di tratta e riduzioni in schiavitù: 828 nel 2005, 1.044 nel 2004. Secondo il ministero dell’interno, sono stati invece 3.201 nel 2004 e 3.215 nel 2005 gli indagati per tratta, riduzione in schiavitù, sfruttamento della prostituzione e della prostituzione minorile, sfruttamento dei minori nell’accattonaggio, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

(fonte: Redattore sociale)

Protezione sociale: l’articolo 18 va applicato in modo omogeneo

Il Coordinamento nazionale contro la tratta degli esseri umani promosso da Caritas Italiana, di cui fanno parte anche Migrantes e il Gruppo Abele, ha sollecitato più volte negli ultimi anni il ripristino del Tavolo interministeriale di coordinamento per l’applicazione dell’articolo 18 del testo unico sull’immigrazione, raccomandando la presenza di rappresentanti di enti e associazioni che lavorano sul campo. L’articolo 18 permette il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale anche alle vittime di tratta che non sporgono denuncia né hanno alcun tipo di collaborazione con la polizia o l’autorità giudiziaria. Purtroppo, l’applicazione non è risultata omogenea sul territorio nazionale. Un valido aiuto sulle modalità di applicazione della normativa può essere dato, in termini di consulenza a enti e associazioni, dallo sportello giuridico InTi, istituito dal Gruppo Abele, dall’Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) e sostenuto da sempre dalla regione Piemonte.

Percorsi di dignità oltre la schiavitù «Ma dovremmo lavorare sui clienti»

Sono molte le Caritas diocesane che assistono donne uscite dai giri della prostituzione. Però il recupero andrebbe esteso anche a chi compra i loro servizi...

Piccoli orizzonti di dignità. Ricostruiti, giorno dopo giorno, sulle macerie di esistenze sfregiate dalla violenza, persino dalla schiavitù. Molte Caritas diocesane, in Italia, si battono a favore delle vittime della tratta di esseri umani. La Caritas di Roma lo fa sin dal 1994. «Nella nostra esperienza quotidiana, grazie anche al lavoro dei centri d’ascolto, incontriamo donne giovani che cerchiamo di proteggere nelle case di accoglienza, gli istituti delle suore di Nostra Signora degli Apostoli e delle suore Adoratrici del Santissimo sacramento e della carità. Noi li chiamiamo “punti di appoggio”,». Suor Erma Marinelli è referente del progetto Roxanne per la Caritas diocesana della capitale, e conosce bene l’odissea, anche interiore, cui va incontro una vittima di tratta, dopo essersi (o essere stata) sottratta a certi “giri”. «Mentre aspettano i documenti per tornare in patria volontariamente, le ragazze vivono al sicuro un periodo di discernimento sulla loro vita, provano a capire cosa realmente desiderano per ricominciare a vivere. Nel caso vogliano rimanere in Italia, c’è l’opportunità di imparare meglio la nostra lingua ed essere aiutate nella ricerca di un alloggio e un lavoro. La collaborazione con enti locali e privati sta dando risultati; è importante lavorare in rete per rispondere a più bisogni. Per favorire l’integrazione nei quartieri della città, svolgiamo attività di sensibilizzazione nelle parrocchie. Ci sarebbe da lavorare molto anche sui “clienti”. In più di dieci anni ho ascoltato e parlato con uomini molto giovani o con i capelli bianchi, dovremmo prevedere sostegni psicologici e percorsi di recupero anche per loro...».

Il comune di Roma ha realizzato una rete per l’accoglienza delle donne vittime della tratta e della prostituzione. Dal 2000 è stato appunto avviato il progetto Roxanne, che prevede attività di prevenzione, aiuto e invio ai servizi di persone vittime della tratta sessuale. Sono stati attivati ambulatori per la prevenzione e la cura della salute, unità di strada con sportelli diurni per informazioni, ascolto e consulenza, strutture di accoglienza protetta, corsi di apprendistato e formazione lavorativa.

Utenti” molto giovani

In altri contesti, il lavoro dei soggetti sociali sorge dall’attenta lettura del territorio. «Negli ultimi anni, da noi, il fenomeno della prostituzione è aumentato in modo proporzionale all’aumento della presenza di persone immigrate. Dal 2000 in poi, sulle nostre strade abbiamo visto crescere il numero delle ragazze di colore, spesso provenienti dalla Nigeria. E siamo a conoscenza del fatto che da tempo donne rumene si prostituiscono in casa». Don Mimmo Francavilla, direttore della Caritas diocesana di Andria, ricorda gli inizi di un intervento coraggioso. «Nel 2005, dopo aver ricevuto un invito dalla prefettura di Bari, alcuni operatori hanno partecipato a un corso sugli aspetti legali, sanitari e sociali della tratta di esseri umani. Ciò ha motivato ulteriormente il nostro desiderio di elaborare risposte. Eravamo e siamo consapevoli di come questo triste fenomeno ponga seri rischi sul versante educativo, sanitario, della stabilità delle famiglie e del contrasto della criminalità. Abbiamo deciso di venire allo scoperto, cominciando a impostare il nostro progetto su due cardini: offrire l’opportunità di un’accoglienza protetta, promuovere attività di sensibilizzazione negli ambiti ecclesiali e civili. Lavoriamo in rete con la Comunità San Francesco Oasi 2 di Trani, dove le ragazze vittime di tratta vengono ospitate per avere la possibilità di tornare a integrarsi nella società. Oltre all’impegno nelle parrocchie, abbiamo un occhio di riguardo per le scuole medie e superiori, dove proponiamo e svolgiamo corsi di educazione all’affettività. Anche perché, grazie a una ricerca basata su 524 questionari, abbiamo rilevato che non di rado l’età dei clienti delle prostitute, nel nostro territorio, è molto bassa...».




di Pietro Cava



Italia Caritas- Marzo 2007

UNA STORIA PER LEUROPA, LA VERITÀ DAI RICORDI. PURIFICATI

di Domenico RosatiItalia Caritas/Aprile 2007

La costruzione dell’Europa ristagna, la Costituzione ha avuto l’infarto e non si sa come rianimarla, l’Euro solleva problemi più che risolverli, i Trattati di Roma compiono cinquant’anni e li dimostrano tutti: per commemorarli non s’è trovato di meglio che dar fondo alle risorse dell’ottimismo, ponendo il quesito “Serve ancora l’Europa?”. I motivi per rispondere positivamente sono tanti. Ma ce n’è uno apparentemente minore, finora neppure registrato dagli osservatori politici, a conferma della famosa sentenza di Aldo Moro per cui “il bene non fa notizia, ma esiste”.

Ecco: il “bene europeo” da segnalare sta in un libro di storia per i licei. Ma non un manuale qualsiasi. Titolo in due lingue (Histoire/Geschichte), su di esso studiano, già nel presente anno scolastico, i ragazzi di Francia e Germania. Il manuale è stato pensato e redatto da un gruppo di storici dei due paesi, secondo un progetto varato nel 2003 dal presidente Chirac e dal cancelliere Schröder. li primo volume, già in uso, riguarda “L’Europa e il mondo dopo il 1945” (gli altri due copriranno i periodi dall’antichità al Romanticismo e dal 1800 al 1945): copertina rossa, è pubblicato dall’editore Klett in Germania e da Nathan in Francia. Molte illustrazioni, grafici, tabelle, letture e documenti: assai geometrico e bilanciato. Sulla sua validità didattica si esprimeranno gli esperti, gli storici sul suo valore scientifico. Ma l’apparizione di quest’opera merita il riguardo riservato alla “cosa che accade per la prima volta”. Mai, infatti, di qua e di là del Reno si era sviluppata una riflessione comune sul passato di due popoli che non sono stati, nel tempo, un modello di buon vicinato. E il fatto non sarebbe inimmaginabile, se non all’interno di un processo di convergenza, per quanto debole e intermittente, come quello della costruzione europea.

Una realtà, due approcci

Anche la rappresentazione degli eventi è interessante. Emerge, infatti, non il tentativo di costruire una “storia comune”, ma l’intenzione di tematizzare le differenze rispetto a un’unica realtà. D’altra parte sarebbe stato impossibile... piallare contraddizioni sedimentate da secoli di conflitti. Non dunque una lettura franco-tedesca della storia, ma un uso dei contrasti storici per superare molti tabù politici.

Così, della seconda guerra mondiale si scrive non con il riflesso del “culto della vittoria”, ma con l’ispirazione del “dovere della memoria”. E se pare scontato il richiamo all’orrore della shoah, è da segnalare che Parigi riconosce che il fenomeno di Vichy (la collaborazione con gli occupanti tedeschi) era stato occultato per non inficiare il mito di una Francia “unanimemente resistente”.

Non sembrano operazioni di aggiramento diplomatico, ma di autentica “purificazione” del ricordo, in nome di una ricerca della verità che, quando è sincera, amplia gli orizonti

e consente “estensioni tematiche” altrimenti impossibili. Così i ragazzi tedeschi scoprono la decolonizzazione, mentre i loro colleghi francesi si confrontano con le “questioni religiose” fino a oggi bandite dal programmi della “repubblica laica”. E si comprende che ciò é possibile perché ci si colloca nella prospettiva di un’Europa che cerca se stessa in un mondo globalizzato.

Domanda spontanea: perché la “cosa buona” dovrebbe essere riservata solo ai ragazzi francesi e tedeschi? Il recente attrito tra Italia e Croazia suggerirebbe un’attenzione verso i Balcani. Ma tutti i popoli della vecchia Europa hanno un passato da condividere con altri, invece di coltivarlo in solitudine. Una “storia degli europei”? È dimostrato: non è impossibile.

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