Mondo Oggi

Luca Marcucci

Luca Marcucci

 GIAPPONE, UNA LEGGE CONTRO LA PIAGA DEL SUICIDIO

di Andrea Fontana

Popoli/Agosto-Settembre 2006

 
Il Giappone è deciso a perdere il primato del numero di suicidi tra i Paesi più industrializzati, con 24 casi ogni 100mila abitanti. A metà giugno il parlamento di Tokyo ha approvato all’unanimità una proposta di legge che intende attuare una più efficace politica di prevenzione. Obiettivo: ridurre nel giro di un decennio a meno di 25mila il numero dei suicidi all’anno (nel 2005 ha superato quota 30mila per l’ottava volta consecutiva). Secondo le statistiche della polizia, lo scorso anno è stato il peggiore dopo il 1978, con 32.552 suicidi e una significativa crescita di morti tra i trentenni e i ventenni. Su dieci giapponesi che si tolgono la vita, sette sono uomini e più della metà ha tra i 50 e i 60 anni, anche se in queste fasce di età si è registrata una flessione. Più morti tra i giovani e meno tra le persone in età matura dunque: una diagnosi che, oltre ai disagi legati alla vita scolastica e universitaria o alla difficoltà di trovare lavoro, si spiega anche con l’impressionante aumento dei cosiddetti «patti della morte», i suicidi di gruppo decisi dai ragazzi che si conoscono attraverso internet. Nel 2005 questi casi sono quasi triplicati, passando da 36 a 91. Ma le cause più diffuse che spingono le persone a togliersi la vita rimangono i problemi di salute, i debiti e i guai finanziari (anche se la migliore situazione economica ha fatto diminuire l’incidenza di questi fattori) e le difficoltà a livello familiare. Inoltre, secondo i sociologi, l’assenza di una repulsione verso il suicidio basata su motivazioni religiose è uno dei fattori decisivi per la diffusione del fenomeno in Giappone.

La legge approvata dal parlamento chiede al governo Koizumi di intensificare l’attività di prevenzione del suicidio, di aumentare il numero di centri per l’assistenza medica e psicologica e di promuovere forme di sostegno alle famiglie colpite da questi lutti. L’esecutivo dovrà riferire ogni anno al parlamento sulla situazione dei suicidi e sulle politiche attuate. Secondo le statistiche diffuse dall’organizzazione mondiale della sanità, li Giappone, per numero di casi in rapporto alla popolazione, è secondo nel mondo solo all’Ungheria e ai Paesi dell’ex Unione Sovietica.

Giovedì, 23 Novembre 2006 19:27

SPERANZE “leggere”

SPERANZE “leggere”di Gianni Ballarini
da Nigrizia/Settembre 2006

La sorpresa sta nel vedere il suo nome nell’elenco di chi vuole inserire il capitolo armi leggere nella 185 del 1990, la legge che disciplina il controllo sull’esportazione e importazione dei materiali di armamento. Proprio così: il generale Luigi Ramponi - ex presidente della commissione difesa del Senato e uomo di punta in Parlamento dell’ala militarista di Alleanza nazionale - ha dichiarato pubblicamente il suo appoggio alla proposta d’integrare l’attuale normativa con una regolamentazione delle operazioni legate alle armi leggere. E’ successo il 6 luglio scorso, in commissione difesa del Senato, dove, per la prima volta dopo 15 anni, si è discussa la 185. Relatrice, la diessina Silvana Pisa.

Ad ascoltare in aula la confessione di Ramponi, il sottosegretario alla difesa Lorenzo Forcieri, uomo di collegamento della Quercia con il mondo militare e già presidente dei parlamentari italiani nel gruppo Nato. In commissione, il sottosegretario ha confermato come l’esecutivo di centrosinistra «non abbia alcuna intenzione di stravolgere lo spirito della 185, che può tuttavia essere migliorata, attesi i profondi mutamenti che dal 1990 sono intervenuti in materia di commercio di armamenti». Frase buttata lì, che avrebbe potuto alimentare paure e interrogativi autunnali in chi teme ulteriori svuotamenti della normativa. L’esponente diessino fornisce a Nigrizia l’esegesi delle sue parole: «Non sono all’ordine del giorno di questo governo stravolgimenti peggiorativi della 185, in fatto di trasparenza. Si potrebbe intervenire solo per semplificare alcune norme. E penso che questa legge, se non viene vista ideologicamente come un totem intoccabile, possa essere migliorata, in particolare sul tema delle armi leggere, capitolo da introdurre nella normativa. Sarebbe un intervento assai utile e per nulla impossibile. Aziende del nostro paese esportano armi leggere, dopo aver vinto legittime gare internazionali. Perché non rendere questi passaggi assolutamente trasparenti? Se invece, come la storia recente ci ha insegnato, queste armi imboccano percorsi più oscuri e ce le ritroviamo “riciclate” in qualche paese in conflitto, è giusto un controllo rigoroso. Sono situazioni da regolarizzare».

Ma il sottosegretario sa che le sue parole camminano sul ghiaccio. «E’ una materia estremamente delicata e che irrita la sensibilità di molti. Ci vuole cautela nell’affrontarla».

E già in commissione difesa del Senato c’è stato chi ha alzato le antenne, come lo stesso presidente Sergio De Gregorio, espressione della maggioranza (senatore dell’Italia dei Valori), ma da sempre custode fedele degli interessi dei militari e delle aziende di settore. La cui lobby, sul tema, ha costruito le barricate. Sono altre le richieste che ha avanzato al governo Prodi: a) riportare le spese per la difesa sopra l’11% del Prodotto interno lordo (PiI); b) ristrutturare l’apparato militare, tagliando le spese che toccano organismi, sedi e personale, per potenziare la ricerca e lo sviluppo; c) continuare l’impegno nelle missioni militari all’estero; d) maggiore attenzione al processo di costruzione dell’Europa della difesa.

Ma è soprattutto sul primo punto che aziende e lobbysti non vogliono fare sconti. A sostegno della loro causa, portano il recente Rendiconto generale dello Stato, preparato dalla Corte dei Conti e dedicato all’esercizio finanziario 2005. I fondi destinati al ministero della difesa, già in diminuzione rispetto all’esercizio precedente, risultano essere stati decurtati anche in corso d’opera: lo stanziamento definitivo di 17.782 milioni è inferiore di 1.717 milioni rispetto a quello iniziale. E anche nei prossimi 3 anni la situazione, ascoltando le ragioni del clan “armiero”, non appare rosea. Nel Documento di programmazione economico-finanziaria (Dpef), discusso alle Camere, i tagli di bilancio per la difesa si aggirano attorno ai 412 milioni di euro.

AFFARI MILITARI

Un pianto militare che dura da anni. E che mal si concilia con la classifica che il Sipri, l’istituto di ricerca sulla pace di Stoccolma, pubblica sulle spese militari. Anche nel 2005, l’Italia ha mantenuto la settima posizione, con 25,1 miliardi di dollari. Lo stesso ministro della difesa, Arturo Parisi, non disarma. Appena letto dei tagli, è partita una sua controffensiva. E ha annunciato che il governo ha previsto, per il 2006, uno stanziamento di 400 milioni di euro per la difesa. Senza trascurare le nuove risorse per la missione in Libano.

E pure le aziende di settore galleggiano nell’oro. La Finmeccanica controlla quasi per intero il mercato italiano. Nella lista delle 100 aziende top della difesa stilate da Defense News nel 2005, il colosso presieduto da Pier Francesco Guarguaglini è in quarta posizione in Europa, con ricavi pari a 7.670 milioni di dollari. Nel 2005 Finmeccanica ha registrato un incremento del 45% degli ordini del gruppo (da 10,5 a 15,4 miliardi di euro) e un più 25% di valore della produzione, portata a 11,4 miliardi di euro.

Una holding che spesso opera borderline. Sul confine. Con i vincoli posti dalla 185 che, talvolta, si scansano per lasciarla passare. Degli esempi? L’articolo 1 della legge del 1990 vieta il trasferimento di armi a paesi coinvolti in conflitti e responsabili di violazioni di convenzioni internazionali sui diritti umani. Una norma successiva nega il commercio “militare” con i paesi che risultano beneficiari di aiuti per la cooperazione.

In realtà, il 12 luglio scorso Alenia Aermacchi, società Finmeccanica, ha firmato un contratto con il ministero della difesa nigeriano per la manutenzione e l’aggiornamento di 12 velicoli MB-339. Valore dell’appalto: 84 milioni di dollari. Eppure, la Nigeria ha non solo problemi di gravi violazioni dei diritti, ma anche una situazione conflittuale nel Delta del Niger. E l’Italia, alla fine del 2005, ha cancellato ad Abuja quasi 900 milioni di euro di debito.

E’ passata quasi sotto silenzio, inoltre, l’intesa raggiunta a gennaio da Finmeccanica con la Libia. Il gruppo di Guarguaglini, Augusta Westland (sempre legata al colosso italiano) e la Libyan Company for Aviation Industry hanno sottoscritto un accordo per costituire una joint venture, denominata Liatec (Libyan Italian Advanced Tecnology Company), con sede a Tripoli, e che ha come compito quello di rimettere in efficienza le flotte di elicotteri e aerei libici. L’Augusta Westland, in concomitanza con l’annuncio della firma, ha ottenuto dalla Libia la commessa per 10 elicotteri A 109E Power, per un contratto il cui valore s’aggira sugli 80 milioni di euro.

Ma l’affare è ben più ampio di quanto possa apparire. E ha riflessi assai rilevanti per il business Finmeccanica in Africa. Infatti, la neo società beneficerà di diritti commerciali per la vendita di elicotteri, assemblati localmente, in un certo numero di paesi del continente. La Liatec, poi, sarà in grado di rifornire molti paesi dell’area di sistemi elettronici e terrestri, oltre all’assistenza tecnica, la manutenzione e le parti di ricambio. Segno che il gruppo italiano punta diritto anche sul mercato africano.

Il controllo in Italia

In Italia non esiste un quadro giuridico univoco e coerente in materia di armi leggere e di piccolo calibro (cfr. Le armi dei Bel Paese, di Elisa Lagrasta, per Ediesse Archivio Disarmo, 2005). La legislazione si articola in due settori: armi da guerra e armi comuni da sparo. Il primo è disciplinato dalla legge 185 del 1990; il secondo, dalla 110 del 1975. Le armi che non rientrano nell’elenco posto sotto osservazione dalla 185 sono le cosiddette armi civili, ossia pistole, revolver, carabine e fucili concepiti per la caccia, lo sport o la difesa personale, e le munizioni comuni da sparo. La 110 indica il ministero dell’interno come responsabile del rilascio delle autorizzazioni per le esportazioni di queste armi.

 LA POLITICA: POTERE FORTE O STRUMENTO DEI POTERI FORTI?

di Lino Duilio
da Rivista Servire/gennaio-marzo 2006

La questione del rapporto tra potere politico e potere economico è questione nuova eppure antica, nel senso che la loro è una relazione problematica, che esiste da sempre e che risulta ancora più specifica a partire dalla nascita dell’epoca moderna, quando economia e politica si costituirono, insieme alla scienza, al diritto e ad altre sfere dell’agire umano, come sfere dotate di una propria autonomia, svincolate da un preciso riferimento ad un fondamento morale di origine trascendente.

La complessità di quel rapporto viene dunque da lontano e, per le caratteristiche quantitative e qualitative che gli intrecci sono andati assumendo nel tempo, affonda le sue radici, oltre che nelle dinamiche proprie del mondo degli affari e del fallibile comportamento umano, nei caratteri peculiari della scienza economica moderna.

Le continue, reciproche interferenze tra potere economico e potere politico si realizzano, in modo aperto o in modo subdolo, su un terreno che ha assunto progressivamente una dimensione di valore che va ben al di là della funzione specifica che ne aveva segnato l’origine: stiamo parlando del “mercato” o del “sistema di mercato”. Il quale oggi detta legge, fornisce orientamenti, indirizza previsioni, costruisce “visioni”: il suo funzionamento, in nome della cosiddetta “sovranità del consumatore”, evoca continui e nobili richiami a questioni eminenti come la libertà, la giustizia, la distribuzione della ricchezza, l’equità.

Ma a ben vedere, con lo sviluppo sempre più sofisticato del modello capitalistico di produzione, il sistema di mercato mostra alcuni limiti e, se non adeguatamente regolamentato, produce eventi che ripropongono la domanda di quale debba essere lo spazio di autonomia assegnato all’economia nel più complessivo equilibrio sociale e nei riguardi del potere politico.

La domanda appare giustificata da alcune palesi “contraddizioni” che risultano comprensibili ad ogni normale intelligenza.

Per un verso infatti, con il passare del tempo,assistiamo al plateale rovesciamento di alcune di quelle che erano considerate tradizionali “virtù”: i comportamenti speculativi ad esempio, più che essere condannati, tendono progressivamente ad essere apprezzati come opera dell’ingegno; il mercato stesso viene sempre più idealizzato e percepito come unico e sicuro rimedio a tutti i mali del mondo; la stessa guerra comincia ad essere vissuta come strumento utile all’affermazione della democrazia. Sul piano più fattuale, per altro verso, le distorsioni emergono dallo spettacolo presente quotidianamente sotto i nostri occhi, sia a livello di sviluppo economico del pianeta che di più specifiche dinamiche interne ai cosiddetti paesi sviluppati. Fame, miseria, differenze abissali di status tra i cittadini del mondo, forme estreme di benessere e di povertà, sovralimentazione e sottoalimentazione, rapporti commerciali non proprio paritari tra stati, questi ed altri sono gli elementi di conoscenza offerti dalla concreta situazione del mondo. E se si volge lo sguardo ai contesti a noi più familiari, non vi è chi non veda come forme di capitalismo “selvaggio” e di familismo amorale, intreccio tra politica ed affari, assenza di regole nella trama dei rapporti economici siano all’ordine del giorno.


Il sopravvento dell’economia

Provando a guardare dietro la facciata, sembra emergere la realtà di un potere che è molto più visibile ma molto meno effettivo nella sfera politica, mentre è molto meno apparente ma molto più sostanziale nella sfera economica. Con la conseguenza di un connubio tra politica ed affari vissuto come antidoto o come convenienza, con la politica che finisce comunque nelle braccia dell’economia e della finanza, e con la sostituzione, a scapito dell’interesse generale, delle corporazioni di interesse, di natura economica, industriale e finanziaria, sulle istituzioni, da sempre concepite come presidio di tutela del bene comune per tutti i cittadini.

In definitiva, la realtà empirica è lì a dimostrare che un mercato evoluto non rappresenta lo spontaneo prodotto dell’azione umana ma il tutto di regole e di principi che sono andati progressivamente affinandosi, anche a seguito dei numerosi fallimenti che si sono verificati nel tempo.

In assenza di tutto questo, non disponendo di una propria autosufficienza sul piano etico, l’economia sembra sviluppare una genetica inclinazione al disordine ed alla sopraffazione, sedimentando distorsioni che si rivelano dannose per lo stesso processo di crescita della libertà. Del resto, che essa fosse incline a prendere il sopravvento su tutto il resto era ben chiaro già nella fase della nascita dell’economia politica come scienza. Lo ricorda Ernst F. Schumacher, un economista tedesco di nascita ma angloamericano di formazione, in un aureo libretto pubblicato a Londra nel 1973, dal titolo “Piccolo è bello”. Dove si legge che “Tornando insieme nella storia possiamo ricordare che quando si discuteva a Oxford 150 anni fa sull’opportunità di istituire una cattedra di economia politica erano in molti a non essere lieti di questa prospettiva. Edward Copleston, il grande Rettore dell’Oriel College non voleva ammettere nel curriculum dell’Università una scienza “così incline a usurpare tutto il resto” anche Henry Drummond di Albury Park, che aveva sovvenzionato la cattedra nel 1825, sentì la necessità di chiarire che si aspettava che l’Università tenesse al proprio posto la nuova scienza”.

E la politica? Come ha reagito la politica dinanzi ad una tale inclinazione?

La politica ha teso ad instaurare un rapporto con l’economia all’insegna di un condizionamento possibile ai fini della tutela dell’interesse generale. In ciò assumendo la tesi che l’economia in sé tutela interessi parziali, e che è necessario introdurre regole di comportamento che non favoriscano prevaricazione ed ingiustizia. Questa preoccupazione è diventata a volte eccessiva ed invadente, come nel caso dei sistemi ad economia pianificata. Con risultati, come è unanimemente riconosciuto, del tutto fallimentari.

Il problema del rapporto problematico tra economia e politica, però, resta tuttora aperto. Ed oggi ancora più intricato per lo scarto che esiste, nella cosiddetta “società globale”, tra il luogo delle decisioni, sempre più sovranazionale, e gli effetti di queste decisioni, che ricadono tuttora all’interno degli stati nazionali.

Per il ritorno della politica

Come si può uscire da questa situazione? Come è possibile affrontare i problemi inediti che emergono in questa società postindustriale? Come è evitabile la sudditanza, anche culturale, della politica nei riguardi dell’economia?

Per contrastare efficacemente la piega che le cose stanno prendendo, credo che occorra innanzitutto reagire al disincanto ed allo scetticismo che pervadono i nostri comportamenti, e riaffermare con convinzione il primato della politica sull’economia. Un primato che definirei “debole” più che forte, nel senso che sia capace di mettersi sempre in discussione, ad evitare l’eccesso di una politica che imbrigli la libertà economica dentro pastoie che costituirebbero il classico rimedio peggiore del male.

Per ottenere un tale risultato, è necessario pensare all’introduzione di regole in grado di favorire una vera concorrenza tra gli attori economici, evitando che, in modo aperto o malcelato, si formino concentrazioni in grado di dettare esse le regole del gioco. Perché regole vere possano essere pensate è necessario agire per “un più di politica” rispetto alla situazione attuale, intendendo per politica evidentemente quella con la “P” maiuscola, che punta all’interesse generale ed esalta il ruolo delle istituzioni, da intendere come “luogo” che preserva lo spazio delle libertà.

Fondamentale per un simile obiettivo è la crescita della coscienza civica e la conseguente possibilità di avere una pubblica opinione non facilmente condizionabile da messaggi lesivi delle fondamentali regole in materia di bene comune e di trasparenza dei comportamenti pubblici e privati. È questione - quest’ultima - oggi ancor più rilevante se si pensa che di frequente il potere economico e finanziario si trasforma in potere mediatico, in grado di condizionare pesantemente la formazione dei consenso sociale e dunque la libertà del cittadino.

Volendo concludere, il rischio della società moderna, e della società italiana ancor più in particolare, è che la politica, anziché essere un potere autorevole e forte, nel senso spiegato, diventi essa stessa uno strumento dei poteri forti. È un rischio del quale essere consapevoli e che occorre assolutamente contrastare. Non si tratta, evidentemente, di un compito facile, anche perché man mano che si procede verso una società della conoscenza a livello globale risulta ancora poco chiaro qual è lo spazio delle decisioni rilevanti che restano assegnate alle politica: a questo fine, mancano istituzioni adeguate, difettano le procedure, tardano a venire le necessarie riforme nei rapporti tra stati.

In ogni caso, anche se molto cammino resta ancora da fare, una cosa sembra sempre più chiara: in futuro, se si vorrà costruire una prospettiva possibile di libertà, di giustizia e di pace, avremo bisogno di una politica più forte, che sia in grado di ridimensionare questa pretesa onnivora dell’economia, che si manifesta sia a livello culturale che di pratiche individuali e di performance più complessive.

Perché uno scenario di tal fatta divenga probabile, è necessario ricreare le condizioni, ai diversi livelli, perché le istituzioni recuperino la loro intrinseca dimensione etica, grazie a nuove regole che andranno introdotte ed alla formazione di libere coscienze di uomini e donne di fortissima tempra spirituale che, con buona volontà, si ridedichino alla politica con passione e con rigore.

Il problema del matrimonio, piuttosto che del divorzio, con l’etica si pone per ogni sfera dell’ attività umana: famiglia, scuola, lavoro, cultura, politica. Chi non indulge a una visione meccanicistica o deterministica della vita e della storia, chi cioè le interpreta come poste sotto il segno della libertà (e della responsabilità), non può non porsi il problema di orientare giudizi, scelte e comportamenti alla verità e al bene.

DISCRIMINAZIONI RAZZIALI, NON CHIUDIAMO GLI OCCHI

di Oliviero Forti - Italia Caritas

(abstract)

L’autista dell’autobus che non apre le porte quando vede alle fermate persone di colore; il gestore del locale che fa pagare il biglietto d’ingresso solo agli stranieri; il condominio che impedisce ai bambini di una coppia sudamericana di giocare nelle parti comuni dello stabile; il caposquadra che insulta ogni mattina il proprio operaio di origine africana; la ragazza che non può fare la commessa in un supermercato perché è “nera”. Sono alcune delle discriminazioni a danno dei cittadini stranieri monitorate dall’Unar, l’Ufficio antidiscriminazione razziale istituito dal ministero delle pari opportunità. Purtroppo ogni ambito della quotidianità è macchiato da atteggiamenti odiosi e meschini, che colpiscono le fasce più deboli della popolazione. Fra esse gli immigrati, in particolare quelli che si trovano in posizione irregolare, come conferma il rapporto dell’European Network Against Racism (Rete europea contro il razzismo) del 2004. Lavoro, casa, scuola e fede sono aspetti con i quali le vittime di discriminazione devono confrontarsi ogni giorno. Anche prendere un caffè, alcune volte, può diventare motivo di incertezza e di paura, così come è accaduto lo scorso anno, quando un esercente è stato condannato per essersi rifiutato di servire consumazioni a cittadini nordafricani. La terza sezione penale della Corte di Cassazione ha confermato la sentenza, stabilendo che è razzista chi, in un bar, si rifiuta di servire il caffè a clienti stranieri.  I giudici hanno chiarito che la discriminazione razziale è ravvisabile in atti, individuali o collettivi, di incitamento all'offesa della dignità di diversa razza, etnia o religione, ovvero in comportamenti di effettiva offesa di tali persone. E tra gli atti di discriminazione deve essere inserito anche il comportamento di chi imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire a uno straniero beni o servizi offerti al pubblico. 

Preclusione ideologica 

Non basta certo una sentenza della Cassazione per far cessare un comportamento le cui motivazioni sono molto profonde. È sicuramente utile portare agli occhi dell’opinione pubblica un fenomeno così odioso anche a suon di carte bollate, ma ciò di cui abbiamo più bisogno è un serio piano di sensibilizzazione che raggiunga trasversalmente tutta la società, non ultimi i decisori politici. È significativo il caso dell’ultima legge finanziaria, che esclude i figli degli immigrati dal godimento dei mille euro previsti per tutti i nuovi nati nel 2005, o della legge della regione Lombardia che non ha incluso i cittadini stranieri residenti nella regione tra gli aventi diritto alla circolazione gratuita sui servizi di trasporto pubblico di linea riconosciuto agli invalidi per cause civili. Per fortuna anche in questo caso è intervenuta la Corte Costituzionale, che con la sentenza 432 del 2005 ha dichiarato l’illegittimità della norma, in quanto dalla stessa non si evince “altra ratio che non sia quella di introdurre una preclusione destinata a discriminare gli stranieri in quanto tali”. Ciò che più preoccupa, però, è il reiterato atteggiamento discriminatorio degli amministratori a danno degli immigrati, che appare dettato più da una preclusione ideologica che non da legittime scelte di buon governo. Anche le iniziative salutate da tutti con favore, come la creazione dello stesso Unar, si sono sviluppate in un contesto di “obbligo istituzionale”, piuttosto che come conseguenza di precise scelte politiche. La necessità di dare attuazione a una direttiva europea è alla base dell’istituzione di un ufficio di cui il nostro paese aveva bisogno da anni, dal momento che il problema della discriminazione razziale nasce con l’intensificarsi dei flussi di immigrazione. Fortunatamente il terzo settore, insieme al mondo accademico e ai sindacati, ha mostrato una particolare sensibilità in materia, promuovendo numerose iniziative di sensibilizzazione e informazione dell’opinione pubblica, attraverso progetti di ricerca i cui risultati costituiscono la base per pianificare interventi efficaci. Così, per esempio, il rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro sulla “Discriminazione dei lavoratori immigrati nel mercato del lavoro in Italia” segnalava nel 2004 che la discriminazione esiste, in modo specifico nel funzionamento del mercato del lavoro. L’Italia ha ratificato la Convenzione dell’Oil sui lavoratori migranti e il 1° luglio 2003 è entrata in vigore la Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e delle loro famiglie; inoltre già oggi l’Italia è tenuta ad applicare una direttiva europea sull’argomento. Ma le misure repressive e di monitoraggio del fenomeno non bastano; occorre pensare a politiche indirizzate a indebolirlo alle radici, e questo sarà possibile solo attraverso un intervento che incida sulle deboli basi culturali di una larga fascia della popolazione italiana.

Lettera aperta al presidente Napolitano: "La grazia anche per i bambini abbandonati"


di AiBi


Illustrissimo Presidente Napolitano,

l'atto di clemenza nei confronti di Ovidio Bompressi è un provvedimento di perdono importante che lascerà sicuramente il segno nella storia del suo settennato.

Tuttavia come presidente e fondatore di Amici dei Bambini, associazione che da vent'anni lotta per garantire il diritto dei bambini alla famiglia, Le chiedo di concedere la grazia anche a tutti i bambini sospesi nel limbo dell'abbandono.

In Italia la legge 149 del 2001 prevede la chiusura degli istituti entro il 31 dicembre 2006, affermando con forza il diritto del minore a crescere ed essere educato all'interno di una famiglia, unico luogo di accoglienza e condivisione in cui il bambino è pienamente accolto per quello che è. Tuttavia non è questa la realtà di oggi: non hanno una famiglia 34 mila minori, e si tratta solo di una stima.

Infatti, a soli 6 mesi dalla chiusura degli istituti, sono ancora bloccati in un'incredibile impasse e i punti più importanti della legge 149 rimangono disattesi: non è ancora stata istituita la Banca dati dei minori adottabili così come non esiste ancora la figura dell'Avvocato per i minori.

Drammatiche le conseguenze: migliaia, un numero imprecisato di minori vive negli orfanotrofi, imprigionati in luoghi che prevedono una logica meramente assistenzialistica di bambini e adolescenti, rendendoli così schiavi dell'abbandono.

Le chiediamo così di realizzare quello che nemmeno le leggi sono riuscite a garantire: “renda figlio” le migliaia di bambini assistiti negli istituti, doni la grazia a questi bambini!



Con deferenza e stima,

Marco Griffini

Presidente Amici dei Bambini

AiBi: "Abracadabra" la giornata dei bambini abbandonati domenica 21 maggio


di AiBi (Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.)
da www.vita.it




Amici dei Bambini nel 2006 ha compiuto 20 anni: la quarta edizione di "Abracadabra!", patrocinata dal Segretariato Sociale della Rai, sarà per questo motivo particolarmente celebrativa.

In Italia l'evento si svolgerà in 22 piazze, incluse Milano e Roma; nel mondo la festa sarà organizzata in tutti i Paesi dove Amici dei Bambini opera con i propri volontari, spesso proprio all'interno degli orfanotrofi, dove la manifestazione sarà particolarmente emozionante.

Nello stesso giorno, un'unica formula di successo: i bambini giocheranno per i bambini dimenticati negli istituti mentre le famiglie saranno informate e sensibilizzate dai volontari dell'associazione sull'emergenza abbandono e sui progetti in Italia e all'estero finalizzati appunto all'accoglienza dei minori abbandonati.

Venti anni a fianco dei bambini abbandonati diventati figli, con le loro famiglie adottive, e insieme a quei bambini che ancora vivono negli istituti del mondo in attesa di una mamma e un papà. Oltre 1600 bambini stranieri ad oggi hanno trovato una famiglia in Italia, ma sono ancora migliaia quelli che la cercano ogni giorno. A loro, prima di tutto, è dedicata questa giornata.

I simboli della giornata: la bacchetta magica Abracadabra e la bandana di Amici dei Bambini. In Italia e nel mondo in un solo momento si svilupperà la 'magia' di Abracadabra, così che non vi siano più bambini abbandonati: alle ore 16 di domenica 21 maggio tutti i bambini, ovunque si troveranno, con un colpo di bacchetta magica colorata - distribuita in tutte le piazze italiane - grideranno insieme “Abracadabra”. E in quel momento i bambini abbandonati non saranno più dimenticati.

E per ricordare tutto l'anno la magia di Abracadabra sarà disponibile anche la bandana, un fazzoletto arancione con il logo della manifestazione.

A Milano (Giardini di Porta Venezia) e Roma (Parco di San Sebastiano) i momenti più significativi di Abracadabra. Le altre città italiane proporranno programmi diversi che potranno essere consultati sul sito www.aibi.it.

I Giochi 2006

- Camper Painting ovvero “Disegno in movimento”: i bambini daranno sfogo alla loro creatività dipingendo un camper che poi girerà per la città invitando altri bambini a giocare ad Abracadabra

- Il gioco della cicogna, ovvero “In viaggio verso la famiglia” : una variante del gioco dell'oca per spiegare, attraverso il gioco, l'importanza della famiglia

- Il lenzuolo Abracadabra: in ogni città i bambini dipingeranno su un lenzuolo che poi sarà annodato con altri in arrivo dalle città italiane e straniere. Un unico grande lenzuolo sarà ricordo e simbolo della giornata

- Lotteria Rik&Rok: tanti premi messi in palio da Auchan e Sma per tutti i bambini che parteciperanno ai giochi

- Cantastorie, clown e giocolieri

- In tante città una nota dolce: i volontari proporranno vasetti di miele biologico il cui ricavato sarà utilizzato per raccogliere fondi a sostegno dei progetti dell'associazione.

Milano: Abracadabra è anche cinema – Nella settimana che precede la manifestazione - dal 15 al 18 maggio - sono in programma al cinema Anteo di Milano tre proiezioni gratuite di film che parlano di adozione e accoglienza. Si tratta di: “La guerra di Mario” (di Antonio Capuano), “Vai e vivrai” (di Radu Mihaileanu) e “All the invisibile children” (di sette registi tra cui Spike Lee, Emir Kusturica, Stefano Veneruso e Jordan e Ridley Scott).

Le città Abracadabra in Italia - Hanno già dato l'adesione per realizzare la quarta edizione dell'evento: Milano, Roma, Verres, Ponte San Pietro (BG), Varese, Bolzano, Torino, Mestre, Bologna, Pistoia, Firenze, Ladispoli, Pescara, L'Aquila, Francavilla al mare (PE), Sirolo (AN), Napoli, Calvi Risorta (CE), Salerno, Bari, Reggio Calabria, Caltanissetta, Messina. L'evento sarà realizzato nelle piazze dove Amici dei Bambini ha sede e dove operano i volontari. Aggiornamenti su www.aibi.it

Le città Abracadabra all'estero - Chisinau (Moldavia), Leova (Moldova) Bucarest (Romania), Rabat (Marocco), Kiev (Ucraina), Sarajevo (Bosnia Erzegovina), Pleven (Bulgaria), Pristina (Kosovo), Valona (Albania), Novosibirsk (Russia) Potosì (Bolivia), Bonfim (Brasile), Belem (Brasile), Bororè (Brasile), Salvador de Bahia (Brasile).

Chi è Amici dei Bambini – L'associazione Amici dei Bambini è un movimento di famiglie adottive e affidatarie che dal 1986 opera in Italia e nel mondo per l'accoglienza dei bambini abbandonati negli istituti. L'associazione è riconosciuta e opera in Italia, America Latina (Brasile, Bolivia, Perù, Colombia), in Europa dell'Est (Albania, Bosnia Erzegovina, Bulgaria, Kosovo, Moldova, Romania, Ucraina, Russia), in Africa mediterranea (Marocco).

L'elenco completo delle piazze e i programmi delle singole manifestazioni italiane saranno aggiornati sul sito www.aibi.it. (Informazioni 02-988221)

Un sincero grazie a:

- Auchan e Sma, le due aziende della grande distribuzione che offriranno in alcune piazze italiane i prodotti della propria linea per bambini “Rik&Rok”. Bici, giochi educativi e altri premi verranno messi in palio attraverso la “lotteria Rik&Rok”; merendine, succhi di frutta e pennarelli sono alcuni prodotti “Rik&Rok” che durante la giornata saranno offerti al momento della merenda e nei laboratori creativi allestiti dai volontari di Amici dei Bambini.

- Danone per il sostegno alla realizzazione di Abracadabra

- BNL per la rassegna cinematografica di Milano



Informazioni alla stampa

Francesca Mineo - Laura Salerno

Ufficio stampa Amici dei Bambini

Tel. 02/98822.311 - www.aibi.it
 

ITALIANI A RISCHIO ALFABETICO, MOLTI ADULTI A BASSA SCOLARITÀ

Nel nostro Paese vivono circa due milioni di persone “analfabete funzionali” E la media dei soggetti che rischiano l’analfabetismo è superiore a quella dei paesi avanzati. Anche i giovani non sono esenti dal fenomeno.

di Walter Nanni ufficio studi e ricerche Caritas Italiana
da Italia Caritas/marzo 2006

L’analfabetismo e il rischio alfabetico non sono fenomeni del passato. Ancora oggi, nei paesi occidentali e industrializzati, la popolazione ad alto rischio alfabetico (primo livello di rischio) è compresa fra un ottavo e un quarto del totale; se aggiungiamo anche un “medio” rischio alfabetico (secondo livello), si raggiunge e si supera il 50% della popolazione adulta. L’Italia rientra tra i paesi industrializzati in cui la presenza di persone nel primo e secondo livello di rischio alfabetico è molto superiore alla media, assieme a Cile, Slovenia, Polonia e Portogallo. In Germania, Danimarca, Olanda, Norvegia e Svezia la quota di adulti nel primo livello di rischio alfabetico non supera invece il 18%, con punte molto basse in Svezia (11%).

Dal rapporto Isfol 2005 e dall’indagine Ials-Sials 2000, risulta che vi sono in Italia circa due milioni di persone analfabete funzionali. L’analfabetismo funzionale, o illetteratismo di base, riguarda persone che, pur avendo avuto una formazione scolastica di base, non sono in grado di leggere e scrivere compiutamente, in quanto tali attività sono del tutto assenti nella pratica della vita quotidiana. Oppure perché, per il tipo di lavoro svolto, tali persone non hanno mai avuto bisogno di leggere o scrivere.

Formazione compromessa

Gli analfabeti funzionali italiani hanno un’età media tra i 16 e i 65 anni e corrispondono al 5,4% della popolazione di tale classe di età: sono oltre 2 milioni di persone. Enormi ritardi nell’istruzione primaria sono presenti soprattutto nelle generazioni vissute prima del 1964: se infatti fra gli italiani di età compresa tra i 16 e i 45 anni il tasso di analfabetismo funzionale rientra nella media europea, per la fascia 46-65 il disagio giunge a coinvolgere 1.400.000 persone.

Il quadro dell’analfabetismo in Italia rimane problematico, come mostrano i dati relativi al possesso dei titoli: la maggioranza assoluta della popolazione in piena età adulta (30-59 anni) versa in condizioni di bassa scolarità. A livello nazionale, il 34,6% della popolazione in età superiore a quella dell’obbligo scolastico (più di 15 anni), si trova in una situazione di analfabetismo o di scarsa competenza alfabetica. Tra i giovanissimi (15-19 anni) si rileva un 4% di esclusi, che non hanno neppure raggiunto il titolo dell’obbligo; tra i giovani adulti (20-29 anni) oltre un terzo non va oltre il titolo di licenza media; tra gli adulti veri e propri (30-59 anni) si constata la presenza di quasi il 20% di soggetti con, al più, la licenza elementare.

Il livello più basso di competenza alfabetica (incapacità o gravi difficoltà nel leggere testi in prosa: articoli di giornale, annunci, lettere, racconti, ecc.) coinvolge il 15,4% dei 16-25enni; il 21,9% dei 26-35enni; il 32,2% dei 36-45enni; il 46,9% dei 46-55enni; il 63,5% dei 56-65anni.

L’esistenza di quasi un terzo di popolazione in piena età adulta (26-45 anni) a rischio alfabetico e di un’area pari al 50% di giovani con un livello di competenze alfabetiche elementari (appena sufficienti ad escludere l’analfabetismo) indica l’urgenza di iniziative di recupero della capacità linguistica e suscita dubbi sulla capacità del sistema scolastico italiano di garantire standard qualitativi accettabili. La possibilità di successo delle iniziative di formazione ed educazione per gli adulti è compromessa dallo scarso livello informativo sulle stesse iniziative: dalle ricerche Isfol si apprende che il 56% degli italiani non sa indicare organizzazioni pubbliche o private che forniscono informazioni o orientano a percorsi formativi per adulti.

Mercoledì, 10 Maggio 2006 20:17

WAL-MART ALL’ASSALTO DEL MONDO

WAL-MART ALL’ASSALTO DEL MONDO

di Serge Halimi – Le Monde Diplomatique - gennaio 2006

(abstract)

Nel 1992 il presidente degli Stati Uniti pronunciò questa frase: “Il successo di Wal-Mart è il successo dell’America”. Ormai la multinazionale della distribuzione è diventata la più grande impresa del mondo. E la pratica del dumping sociale, che le è valsa una multa di 172 milioni di dollari per aver rifiutato la pausa pranzo ai propri dipendenti, contamina l’economia occidentale. Nel nome della lotta alla Toyota la General Motors ha annunciato 30.000 licenziamenti e vuole imporre ai restanti operai la riduzione dei salari e ai fornitori un abbassamento dei prezzi. Delphi, la più grande industria di componenti elettronici degli USA, vorrebbe pagare i salariati 9,50 dollari l’ora contro gli attuali 28. Dopo John D. Rockefeller, il modesto ragioniere di Cleveland divenuto a 31 anni il più ricco petroliere del mondo, e Steve Jobs, che lasciò l’università per fondare nel garage di casa la Apple, il sogno americano si ripete. Ma più in grande. Adesso è la volta di Wal-Mart. All’inizio era un negozietto sperduto in uno degli stati più poveri del paese, l’Arkansas. Oggi Wal-Mart vanta un fatturato di circa 310 miliardi di dollari (stime 2005) ed è diventata la più grande impresa del mondo, superando nel 2003 persino la Exxon Mobil. Quattro dei componenti la famiglia proprietaria figurano tra i dieci uomini più ricchi del mondo. Si calcola che un CD su cinque, un dentifricio su quattro e un pannolino sui tre comprati negli USA provengano dagli scaffali Wal-Mart. Il fatturato dell’azienda costituisce il 2,5% del prodotto interno lordo statunitense. Non deve pertanto stupire se la maggior parte delle trasformazioni politiche, economiche e sociali oggi purtroppo diffuse nel mondo abbia trovato piena approvazione – e talvolta origine – a Bentonville in Arkansas, sede della società. Lotta contro i sindacati, delocalizzazione e ricorso a manodopera sempre più sfruttata: è il modello Wal-Mart. Pressioni sui fornitori per costringerli ad abbassare i prezzi, concatenazione sfrenata delle attività per abbattere i tempi morti ed eliminare le pause di riposo: è il modello Wal-Mart. Costruzione di orribili punti vendita (le cosiddette “scatole da scarpe”) costantemente riforniti dai 7100 camion giganti dell’impresa che viaggiano e inquinano 24 ore su 24: è il modello Wal-Mart. Quando poi i sindacati contrattaccano, gli ecologisti si risvegliano, i clienti si rendono conto di cosa in realtà li derubano “i prezzi quotidiani più bassi” e i cittadini fanno muro contro la costruzione dell’ennesima scatola da scarpe, Wal-Mart recluta ex responsabili della comunicazione della Casa Bianca per migliorare l’immagine dell’impresa. Essi diranno che ormai l’azienda è diventata etica, che dà lavoro a un sacco di gente, che i clienti amano tanto i prezzi bassi, eccetera eccetera. Aggiungeranno poi che la ricerca del rendimento ha permesso di migliorare la produttività nazionale e che d’ora in avanti l’impresa difenderà l’ambiente così come ha soccorso le vittime dell’uragano Katrina. Sfruttamento, comunicazione: è ancora il modello Wal-Mart.

Venerdì, 28 Aprile 2006 20:05

TRA PAURA E SPERANZA

TRA PAURA E SPERANZA
 di Geoff Andrews
da www.adistaonline.it

LE ELEZIONI ITALIANE SUL FILO DEL RASOIO LASCIANO IRRISOLTI IL FUTURO POLITICO DEL PAESE E L’EREDITÀ DI BERLUSCONI.


GEOFF ANDREWS, POLITOLOGO E GIORNALISTA INGLESE, È L’AUTORE DI QUESTO ARTICOLO PUBBLICATO L’11/04/06 SUL SITO INTERNET WWW.OPENDEMOCRACY.NET. TITOLO ORIGINALE: “ITALY BETWEEN FEAR AND HOPE”



Lunedì 10 Aprile alle 3 del pomeriggio sono arrivato a Piazza Santi Apostoli – dove c’è la sede romana della coalizione di centrosinistra – per i primi exit poll. Alle 3 di notte ero ancora lì, a sentire Romano Prodi che aveva appena dichiarato per la prima volta vittoria di fronte ai suoi sostenitori e alla stampa internazionale.

Tutto finito? No. In queste dodici ore è cominciato ad andare in scena una specie di dramma che rivela molto dell’Italia contemporanea, e che può continuare ad avere ripercussioni anche nei mesi a venire. Sia gli exit poll che i numerosi sondaggi non ufficiali svolti durante la due giorni elettorale per il rinnovo della Camera dei deputati e del Senato attribuivano al centrosinistra un vantaggio dai 3 ai 7 punti percentuali. Questo dato era molto simile a quello fornito nei sondaggi di opinione nel periodo tra l’apertura della campagna elettorale e il termine ultimo in cui la legge consente di diffondere queste informazioni, ossia due settimane prima del voto.

Prima degli exit poll, i leader del centrosinistra e i commentatori erano stati cauti e misurati. Le mie richieste di pareri e prese di posizione venivano educatamente rifiutate con un “aspetti fino ai primi exit poll”. La “scaramanzia” (la particolare forma italiana di superstizione) era ovunque – sono stato persino cacciato dagli uffici del giornale “Il manifesto”, dove avevo trascorso la cupa notte elettorale del 2001, col pretesto che la mia presenza poteva indirizzare a destra il voto degli indecisi.

Tutto questo è stato spazzato via dai primi exit poll che indicavano un chiaro margine di vantaggio per il centrosinistra. Piazza del Popolo, a due passi dal quartier generale dell’Unione, era stata designata come il luogo ufficiale per i festeggiamenti, attività in cui gli italiani eccellono su chiunque altro. Al quartier generale gli attivisti guardavano un maxi schermo sui cui scorrevano le immagini dei fiduciosi leader del centrosinistra e dei tristissimi leader della destra. “Buffone!”, “Buffone!” gridava la folla rispondendo alle parole sprezzanti di Maurizio Gasparri, ex-ministro post-fascista delle telecomunicazioni. “A casa!”, strillavano all’indirizzo di Roberto Calderoli, leader xenofobo della Lega Nord che si era dimesso dal governo nel febbraio del 2006 dopo aver indossato una maglietta con le vignette danesi anti-islamiche.

Qualcuno brandiva un pezzo di mortadella, il tipico salume bolognese da cui è stato ricavato l’affettuoso soprannome di Prodi. La folla ondeggiava e ballava seguendo il ritmo della musica. Il sito ufficiale dell’Ulivo (il partito di Prodi all’in-terno dell’Unione) aveva alla fine rotto gli indugi esponendo orgogliosamente lo slogan: “Romano Prodi presidente”.

Poi sono cominciati ad arrivare i dati reali. L’atmosfera è cambiata drammaticamente. Si stava profilando un margine risicatissimo. I risultati di un complicato meccanismo elettorale imposto da Berlusconi con una legge nell’ottobre del 2005 mostravano un testa a testa delle coalizioni sia alla Camera che al Senato. Il voto degli italiani all’estero diventava determinante.



Una corsa sulle montagne russe

Man mano che passavano le ore e cambiava l’umore, diveniva chiaro un elemento persino più importante del risultato delle elezioni in senso strettamente numerico. Ciò che stava accadendo la notte tra il 10 e l’11 aprile era l’apoteosi della strategia di Silvio Berlusconi – particolarmente esplicita verso la fine della campagna elettorale – di istillare paura nelle teste degli elettori. Gli attacchi del primo ministro verso i “magistrati comunisti”, i volgari insulti ai suoi avversari e a coloro che li avrebbero votati, e le affermazioni sulla necessità che gli ispettori delle Nazioni Unite intervenissero per evitare brogli elettorali, riflettevano il fatto che Berlusconi – man mano che si indeboliva il suo potere – cercava di fare appello al “fattore paura”.

La strategia berlusconiana della paura può essere compresa solo se si rigetta l’idea (molto radicata in alcuni commentatori politici) che lui sia poco più che un clown, un personaggio folcloristico che ha ridato colore alla politica italiana. La realtà è molto più seria. Silvio Berlusconi, persino nella sconfitta, costituisce una minaccia per la democrazia italiana.

Il populista Berlusconi è solito ignorare le convenzioni, le regole e le norme della vita politica. Le sue promesse dell’ultimo minuto di abolire le tasse su casa e rifiuti – promesse fatte senza alcuna possibilità di replica da parte della sinistra e nessuna indicazione sulle modalità di finanziamento dell’operazione – possono essere viste come l’appello disperato di un leader in declino. Questi stratagemmi – su cui in passato si è basata la sua strategia di costruzione del consenso – sembrano aver contribuito anche stavolta a catturare almeno una parte degli elettori.

Queste mosse elettorali illustrano anche la differenza tra la concezione “populista” e quella “democratica” del popolo. Il populista ha una ristretta e stereotipata visione del popolo come di un’entità relativamente omogenea, caratterizzata da valori (e pregiudizi) “ordinari” che sono in contrasto con quelli delle élite e dei settori ‘sovversivi’ della società, nel caso di Berlusconi i magistrati e la sinistra.

I populisti come Berlusconi non hanno tempo per il dissenso, il pluralismo e le divergenze d’opinione, che essi considerano delle minacce. Il suo estremo tentativo di far leva sulle paure dell’elettorato incarna esattamente questo tipo di modello.

L’approccio democratico si basa su una differente relazione con il popolo, una relazione mediata da forme di rappresentanza e partecipazione, dal ruolo della legge e da spazi aperti al pluralismo e al dissenso. Questo punto di vista, purtroppo, non è stato sostenuto dai partiti del centrosinistra italiano, che fino ad ora hanno permesso a Berlusconi di dettare l’agenda politica. Sembra quasi incredibile che – dopo cinque anni di un governo che ha devastato la vita pubblica italiana, demonizzato gli stessi magistrati che avevano fatto pulizia nell’ambiente politico degli anni ‘90, ed eliminato tutte le forme di dissenso dal già pessimo circuito radiotelevisivo – Berlusconi possa mettere in discussioni le credenziali democratiche della sinistra.

Quel che il centrosinistra dovrebbe fare, pur avendo dimostrato, con un risultato delle urne così risicato, di non esserne in grado, sarebbe di imparare dall’esempio della rete della società civile, che è fiorita in Italia negli ultimi cinque anni.



Un futuro oltre la paura

Mentre viaggiavo attraverso l’Italia in questi anni scrivendo del “fenomeno Berlusconi”, ho incontrato la paura in diverse forme. Al G8 di Genova nel luglio del 2001 la “punizione” inflitta dai carabinieri è stato un primo ammonimento dell’intolleranza del governo. A Napoli la camorra ha dato vita a nuove forme di violenza, mentre la Lega Nord si allontanava dalla vecchia battaglia sull’indipendentismo padano concentrandosi su parole d’ordine xenofobe che trovavano pericolosamente eco nell’opinione pubblica.

Tuttavia ho anche trovato esempi di speranza e di creatività, dai girotondi guidati dal regista Nanni Moretti ai gruppi di Libertà e Giustizia, alla straordinaria galassia delle organizzazioni pacifiste. Ricordo un fornaio di Bologna che chiuse le porte del suo locale per protestare contro lo scoppio della guerra in Iraq (alla quale era contrario più del 90% degli italiani) dicendo “non possiamo occuparci di brioches e biscotti in un giorno come questo”; e il caso di Scanzano Jonico, un piccolo paese di 6700 abitanti nell’entroterra della Basilicata, che ha sostenuto diverse settimane di sciopero per protestare contro la decisione del governo italiano di costruire in quel territorio un deposito di scorie nucleari. In questi cinque anni tutta questa variegata rete di gruppi della società civile ha mantenuto viva la speranza.

La campagna elettorale italiana si è configurata come una scelta molto netta in un Paese assolutamente diviso e polarizzato: la strategia della paura di Berlusconi contro un progetto di speranza incarnato nelle iniziative della società civile ma ancora privo di una sua espressione politica matura.

Il futuro dell’Italia rimane incerto. All’ora di pranzo dell’11 aprile, dopo che i rimanenti voti degli italiani all’estero gli avevano conferito un’e-sigua maggioranza anche al Senato, Romano Prodi ha dichiarato vittoria per la seconda volta di fronte a un gruppo di giornalisti nella sede dell’Ulivo. Alla fine di tutto, la legge elettorale voluta da Berlusconi sembra abbia favorito il centrosinistra. Ma il Cavaliere, che resta il leader del più grande partito italiano, si curerà poco dell’ironia dell’evento dal momento che sarà impegnato a combattere per conservare tutto il potere possibile.

A dire il vero, la questione centrale resta l’eredità di Silvio Berlusconi all’interno del precario sistema democratico italiano. Romano Prodi ha detto cose giuste sulla necessità di dare al Paese unità, coesione e la speranza di un nuovo inizio. Una maggioranza molto ristretta al Senato – in un sistema politico come quello italiano dove entrambe le camere del Parlamento hanno un eguale status – renderà questi progetti molto difficili da realizzare. Ma, in ogni caso, l’Italia troverà unità solo se saprà sostituire il leaderismo populista con un nuovo spirito democratico. L’arresto del boss della mafia Bernardo Provenzano il giorno dopo le elezioni, dopo quarantatre anni di latitanza, può offrire agli italiani ossessionati dalla scaramanzia (ma anche agli stranieri) un buon segnale per il futuro. Forse l’Italia, alla fine, può davvero trasformare la paura in speranza.

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