Mondo Oggi

Luca Marcucci

Luca Marcucci

ANTIPOLITICA, CRISI DI SISTEMA E RISCOPERTA DEL “BENE COMUNE”

di Giannino Piana
docente di teologia morale

La crisi che la politica attraversa oggi nel nostro Paese va facendosi ogni giorno più allarmante. L’assenteismo che si è manifestato, in termini assai consistenti, nel corso delle ultime elezioni amministrative è un sintomo inequivocabile dello stato di sfiducia dilagante. Il rischio è che tale sfiducia si tramuti in cinismo antipolitico e in qualunquismo, persino in un atteggiamento di netto rifiuto di tutto ciò che ha a che fare con lo Stato e con le sue articolazioni istituzionali. La crescente disaffezione (e diffidenza) che la gente comune nutre, e che è peraltro largamente confermata dalle indagini demoscopiche condotte in questi ultimi mesi, è dovuta a considerazioni di varia natura: si va dalla lievitazione costante dei costi della politica, all’assenza di trasparenza nell’amministrazione della cosa pubblica, fino allo scarso ricambio della classe dirigente. A queste motivazioni si aggiungono poi quelle derivanti dall’introduzione del bipolarismo che, se ha creato, da un lato, in molti serie difficoltà a riconoscersi nell’uno o nell’altro dei due schieramenti - l’area che ciascuno di essi ricopre è infatti eccessivamente estesa - non ha reso, dall’altro, agevole il compito di governare (e persino di fare compattamente opposizione), essendo quanto mai accentuata la disomogeneità delle forze che fanno capo a entrambe le coalizioni. Per questo vi è chi parla (e non a torto) di crisi strutturale (e non puramente congiunturale) e, più radicalmente, di vera e propria crisi di sistema.

La riprova di quanto tale crisi sia estesa (e del disagio che essa genera) è data dall’enorme successo conseguito dal recente volume di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo dal titolo La casta (Rizzoli, 2007), nel quale la debolezza della politica (e i mali reali che la travagliano) è ricondotta alla persistenza di “caste” intoccabili, piccole e grandi, che si perpetuano da tempo al comando della “cosa pubblica” in successione dinastica, sbarrando la strada a chiunque altro si affacci e impedendo qualsiasi sforzo di rinnovamento. L’accusa riguarda, in primo luogo, i partiti che da luoghi di partecipazione e di coagulo del consenso, nonché di elaborazione dei grandi progetti per la vita della collettività, si sono trasformati in luoghi di mera gestione del potere e talora persino in comitati d’affari.

La scarsa partecipazione dal basso - il numero degli iscritti e delle sezioni si è drasticamente ridotto anche in partiti di grande tradizione popolare -, il prevalere di una classe dirigente fatta di poche persone, una vera e propria oligarchia di potere - a questo si allude quando si parla di “casta” (peraltro rafforzata dall’ultima legge elettorale, che ha sottratto ai cittadini la possibilità di scegliere per chi votare) - e la quasi totale assenza di dibattito interno hanno finito per ridurli a realtà autoreferenziali, in cui l’interesse di gruppo (o quello di una ristretta élite di persone) ha il sopravvento sull’interesse generale.

Tutto ciò in un momento come l’attuale in cui si assiste a una profonda divaricazione sociale, dovuta al processo di finanziarizzazione dell’economia; processo che - come giustamente osservava qualche tempo fa Lucia Annunziata su La Stampa - favorendo la cumulazione di ricchezze sempre più ampie da parte di pochi e comprimendo la classe media, ha accentuato la distanza tra una cerchia ristretta di “mandarini” e il resto del Paese. La classe politica, che si trova a far parte dell’area dei privilegiati e che è inoltre responsabile di aver favorito, attraverso la dilatazione dei posti di sottogoverno, il numero di coloro che godono di stipendi e pensioni d’oro, non può che perdere, anche per questo, la propria autorevolezza. Come è possibile infatti imporre “sacrifici” in nome del “bene comune”, quando così marcate sono le distanze tra chi naviga nel danaro e chi si è visto decurtato di molto il valore del proprio stipendio o di chi stenta ad arrivare a fine mese senza indebitarsi?

L’aspetto più preoccupante della crisi è pertanto il venir meno della cittadinanza comune come effetto di una percezione diffusa di ingiustizia che genera frustrazione. A essere coinvolta non è soltanto la politica ma, in senso più allargato, l’intero sistema sociale - dai sindacati alle unioni industriali fino alle diverse espressioni della società civile - provocando una preoccupante crisi di consenso. Le riforme di struttura - dalla revisione della legge elettorale alla riduzione del numero dei parlamentari, dal ridimensionamento degli stipendi e dei privilegi all’abolizione degli enti inutili - sono assolutamente necessarie e urgenti. Ma esse non saranno in grado da sole di operare un vero cambiamento, se non si accompagneranno alla rinascita di un forte rigore morale, che restituisca alla politica il carattere originario del servizio e ridia centralità all’obiettivo che essa deve perseguire, la ricerca del “bene comune”, cioè del bene di ciascuno e di tutti.

Venerdì, 25 Gennaio 2008 19:01

LE DONNE DELL’ISLAM E IL SOGNO DEL PROFETA

Conferme, ma anche qualche (grossa) sorpresa
LE DONNE DELL’ISLAM E IL SOGNO DEL PROFETA

di Angela Lano
MC Ottobre-Novembre 2007

La situazione femminile nelle società arabe e islamiche non è facilmente analizzabile e decodificabile, ammesso che non si vogliano utilizzare i facili clichè a cui i media ci hanno abituato. Nei decenni passati, in molti paesi (Palestina, Iran, Algeria,ecc.), le donne avevano preso parte alle lotte popolari contro gli eserciti oppressori, abbandonando i ruoli tradizionali per ricoprirne di nuovi e dinamici. Tuttavia l’emergere di gruppi radicali dell’islam politico ha portato all’arretramento della loro posizione e alla perdita di diritti che sembravano ormai conquistati per sempre.

In Egitto, culla del primo femminismo arabo e islamico, da vent’anni a questa parte è in atto una islamizzazione molto forte della società, il cui primo segno visibile è l’abbigliamento femminile: la maggior parte delle donne è avvolta in veli neri che coprono anche il volto, lasciando intravedere solo gli occhi.

In generale, e a livello mondiale, la condizione femminile sta peggiorando anziché migliorare.

Per quanto riguarda il mondo musulmano,ciò non è attribuibile all’islam di per sé, quanto al sopravvivere,all’interno di queste società, di sedimenti,di strutture antiche di tipo tribale, maschiliste e patriarcali.

l profeta Muhammad, uomo illuminato e dalla spiccata sensibilità (da quanto emerge nel Corano, in molti hadith, detti e fatti, e nelle biografie), promosse infatti una sorta di «liberazione femminile» ante-litteram, la cui portata rivoluzionaria venne tuttavia soffocata dal tribalismo misogino ancora molto forte e,ad un certo momento, prevalente. Ma ne parleremo più avanti.

In numerosi paesi musulmani,dunque, sono ancora - o sarebbe meglio dire,di nuovo - molto forti le tendenze maschiliste. Nel 900, infatti, molte società avevano iniziato a «liberarsi» dal peso di tradizioni che consideravano le donne inferiori all’uomo, non dotate di autonomia, da tenere a bada sotto veli e con tutori che vigilavano sulla loro purezza.

Ora,questa tendenza maschilista è tornata alla ribalta. Numerosi eventi,dalla fine degli anni ‘60 in poi, hanno contribuito a far richiudere in se stesse le società islamiche: sconfitta nella «Guerra dei Sei giorni», con Israele; fine del bipolarismo Usa-Urss e creazione della «minaccia islamica»; guerre del Golfo; guerra in Afghanistan; questione palestinese mal risolta; neo-colonialismo e sfruttamento delle risorse energetiche da parte dell’occidente; 11 settembre 2001; «scontro di civiltà» e altro ancora, Il ritorno alla religione, vissuta in modo totalizzante, integralista, è una conseguenza, spesso, del sentirsi «minacciati» dall’esterno, deprivati di una propria identità.

E poiché, nel mondo islamico, la religione rappresenta una modalità identitaria molto forte, il risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi.

La separazione tra uomo e donna

La separazione dl ruoli e spazi è sempre stata ben presente nella tradizione islamica, ma nella seconda metà del ’900 la vita moderna delle città ha portato a una promiscuità maggiore,come in Marocco, per esempio. Tuttavia, in molte società, spesso arretrate economicamente, socialmente e culturalmente, tira un’aria da «periodo ottomano» (non possiamo, infatti, parlare di “Medioevo”, poiché per la civiltà arabo-islamica quel periodo coincide con il massimo splendore).

Ci sono regioni come la poverissima e soffocata (dagli israeliani e dagli embarghi occidentali) Striscia di Gaza, vera e propria prigione a cielo aperto,dove uomini e donne non possono entrare insieme negli internet cafè o dal parrucchiere, o dove il semplice conversare tra persone di sesso diverso, a migliaia di chilometri di distanza, e in una chat-line,crea scandalo.

Nella Palestina oppressa da un regime israeliano eguagliabile o peggiore dell’apartheid sudafricano,dalla fine degli anni ’80 in poi sono aumentati notevolmente i cosiddetti «delitti d’onore», un crimine-tragedia che colpisce sia donne ancora bambine sia anziane e che nasconde frustrazioni e squilibri maschili, bigottismo tribale, follia e tanto altro ancora. Un dramma sociale che associazioni per la difesa del diritti umani e organizzazioni femminili non si stancano di denunciare.

A tutto ciò si vanno ad aggiungere, in tanti altri Paesi, le violenze domestiche, l’imposizione di neqab, burqa e chador (diversi tipi di veli che coprono totalmente o parzialmente il corpo femminile).

Le nove mogli del Profeta

Attraverso i suoi tanti e bei libri (Donne del Profeta, Le Sultane dimenticate, La terrazza proibita, e molti altri ancora Fatima Mernissi, sociologa e scrittrice marocchina di fama internazionale, ci racconta un «altro islam»,quello del profeta Muhammad.

Nelle sue opere,Fatima Mernissi cerca di fornire una nuova interpretazione delle leggi islamiche in un’ottica di «uguaglianza tra uomo e donna», andando alla scoperta del «messaggio profetico» dei testi sacri. Ella definisce Muhammad il primo «femminista arabo», evidenziando come, infine, furono proprio i valori tribali preislamici a prevalere, sino ai nostri giorni, cristallizzati dalla shari’a e dal fiqh che si svilupparono nei secoli successivi.

Muhammad nacque nell’Arabia tribale del 570 d.C. Fu uomo illuminato, profeta e capo politico dalle istanze rivoluzionarie. Cambiò, almeno in parte, le abitudini e i costumi sociali e culturali dei suoi contemporanei. Predicò la «sottomissione a Dio»: islam, infatti, significa proprio questo. Nel suo slancio innovatore cercò di modificare le usanze tribali radicate, che spesso infierivano sulle donne e su altre categorie sociali deboli: vedove,orfani,schiavi.

Diversamente dalle culture che lo precedettero o che lo affiancarono nell’area mediterranea, egli tenne in gran considerazione la condizione femminile e modificò radicalmente alcune regole inique su matrimonio, eredità, diritti, quotidianità.

Le sue mogli - ne ebbe nove - erano donne forti, belle, intelligenti, protagoniste nella formazione della nuova comunità islamica: Khadija, l’amata prima (e finché fu in vita, unica) moglie; Umm Salma, consapevole dell’importanza del ruolo femminile; Zaynab; Aisha, la sua prediletta e sposa-bambina, che grande peso ebbe nella storia dell’islam degli inizi - fu una delle cause che portarono alla guerra interna tra i successori del profeta e i seguaci di Ali (da cui nascerà il movimento sciita, ndr).

Anche la figlia Fatima,moglie del cugino Ali, ebbe con il padre un intenso rapporto affettivo.

La «rivoluzione culturale e sociale» di Muhammad si spinse fino a un certo punto. La Mernissi lo spiega chiaramente: egli non poté e non volle inimicarsi i seguaci, maschi, della nuova fede, enfatizzando e trasformando la condizione e il ruolo della donna araba. Aveva bisogno della fedeltà dei maschi per contrastare gli attacchi dei meccani (gli abitanti della Mecca che osteggiarono la predicazione di Maometto, ndr) e dei nemici dell’islam.

Non voleva dunque minare dalle fondamenta la società tribale basata sulla guerra, sul bottino, di cui le donne erano parte. Dare più importanza ad esse, liberarle completamente dalla schiavitù a cui erano soggette, voleva dire sconvolgere l’economia stessa delle tribù, l’impalcatura sociale e il concetto di guerra e razzia.

Dunque,non gli fu concesso, dalla dura realtà dell’ambiente in cui visse,di portare a termine, di realizzare appieno il suo grande sogno rivoluzionario di parità fra tutti gli individui, donne e uomini, liberi e schiavi.

Non riuscì, infatti,a estirpare il maschilismo e misoginia dalla testa dei maschi del suo tempo. Questo «conflitto» morale, interno, emerge dalle sure coraniche.

Tuttavia,qualche miglioramento, rispetto ai tempi della jahiliyah ,com’è chiamata l’epoca preislamica, ci fu: alla donna fu garantito il controllo e l’amministrazione dei propri beni al di fuori dell’autorità paterna o maritale. Certamente un fatto rivoluzionario.

Le basi del femminismo arabo-islamico

La lotta di liberazione della donna prese l’avvio ai primi del Novecento, in concomitanza con i nazionalismi arabi: certi intellettuali pensavano che la condizione di sudditanza rispetto all’uomo,in cui essa era da secoli e secoli costretta a vivere,fosse una sorta di effetto della «decadenza araba e della sua sottomissione alle potenze straniere».

Un uomo, un egiziano, nel 1899 pose le basi del femminismo arabo-islamico:era Qasim Amin, autore di due libri che divennero celebri: Tahrir al-Marah (La liberazione della donna), e Al-Marah al-Jadidah (La donna nuova). Nel primo invitava le donne a togliersi il velo e prendere parte alla vita attiva; nel secondo sottolineava che la liberazione femminile da lui incoraggiata era fondata sul rispetto dell’islam e non sull’imitazione delle mode occidentali.

Amin diede il via a una discussione ancora pienamente in corso: l’uso del velo non è un obbligo esplicito, ma è frutto dell’imposizione sociale.

Velo sì, velo no: una questione annosa

In concomitanza con la nascita del primo femminismo europeo, anche in Egitto le donne iniziarono a rivendicare libertà di espressione e movimento.

Un gesto clamoroso, nel 1923, diede l’avvio ai movimenti di emancipazione femminile:due intellettuali borghesi, Huda ash-Sharawi e Siza Nabaraawi, si tolsero il velo mentre scendevano dal treno al Cairo, di ritorno da un congresso femminile svoltosi a Roma.

Esse rappresentavano l’alta borghesia occidentalizzata e un po’snob. La loro azione estrema (vennero picchiate dalla polizia egiziana) convinse molte altre a rivendicare diritti negati per secoli.

In un’ottica diversa si poneva invece la connazionale Malak Hifni Nasif (1886-1918), nota come Baithat al-Badiya (Colei che cerca nel deserto), una delle prime femministe arabe: l’emancipazione doveva giungere da una scelta delle donne arabe e musulmane stesse, e non dall’imitazione di modelli occidentali o dal suggerimento dei maschi «femministi».

Ella sosteneva infatti che dovevano essere le donne a decidere se, quando e come «liberarsi».

«La maggior parte di noi donne continua ad essere oppressa dall’ingiustizia dell’uomo, che col suo dispotismo decide quel che dobbiamo fare e non fare, per cui oggi non possiamo avere neppure un’opinione su noi stesse. (...) Se ci ordina di portare il velo, noi obbediamo. Se ci chiede di toglierlo, facciamo altrettanto».

Anche per lei, l’islam non dava regole sull’uso o meno dello hijab: «portare il velo non significa essere più pudiche rispetto a quelle che non lo indossano. Il vero pudore non sta in questo».

Islamiste: «No, aI femminismo occidentale»

La ricerca «La donna nel Mediterraneo», condotta alcuni anni fa dall’università Federico Il di Napoli, spiega: «Le islamiste riconoscono l’uomo come “tutore”della donna e restano molto legate alla realtà della loro condizione che accettano come predestinazione. (...) Le donne che vogliono tornare all’islam originario sono ottimiste perché pensano di avere un ampio margine di movimento nella società e nel campo del diritto, proprio come Khadija e Aisha (due mogli di Muhammad).Quindi respingono il femminismo di stampo occidentale perché lo ritengono uno strumento del colonialismo e non condividono il tipo di libertà offerta alle donne.

Il frutto del femminismo occidentale è, secondo loro, quello di trasformare la donna in un oggetto sessuale e in uno strumento pubblicitario di capitalismo patriarcale. Esso è stato incapace di ritagliare un posto appropriato per il matrimonio e la maternità e non è riuscito a modificare il mercato del lavoro in risposta ai bisogni delle donne. In questo modo il femminismo occidentale ha trasformato le donne in cittadine permanenti di seconda classe, non riuscendo a portarle alla pari degli uomini.

(...) L’islam ai suoi inizi ha fornito alle donne dei modelli esemplari e ha indicato un cammino che può essere dignitosamente seguito ad ogni stadio: Fatima, in quanto figlia del profeta Mohammad e moglie di Ali, rappresenta un modello idealizzato e idolatrato dagli sciiti; Khadija è onorata da tutti i musulmani per la sua intraprendenza e per l’essere stata una moglie che ha sempre sostenuto il marito; Aisha per il suo intelletto e per la sua leadership politica.

Pertanto, le fondamentaliste islamiche non hanno bisogno degli esempi occidentali, perché hanno un proprio percorso di liberazione che vogliono seguire».

Il Corano e l’«hijab»

LA «DISCESA» DEL VELO

Secondo Fatima Mernissi, lo hijab, letteralmente «cortina», «disceso» per «porre una barriera non tra un uomo e una donna, ma tra due uomini».

La sociologa marocchina, nel suo libro Donne del Profeta (1997), sostiene che è impossibile comprendere un versetto del Corano «senza conoscere la storia e le cause che hanno portato alla sua rivelazione».

Ella dunque esamina il contesto storico e i fattori che hanno portato, nell’anno 5 dell’egira (627 d.C.), alla rivelazione del versetto 53 della sura XXXIII del Corano: «O voi che credete. Non entrate negli appartamenti del Profeta a meno che non siate stati autorizzati in occasione di un invito a pranzo. E in questo caso, entrate solo quando il pasto è pronto per essere servito. Se dunque siete stati invitati (a pranzare), entrate, ma ritiratevi non appena avete finito di mangiare, senza abbandonarvi a conversazioni familiari. Una simile negligenza dispiace (yu’di) al Profeta che ha ritegno a dirvelo. Dio, però, non ha ritegno a dire la verità. Quando andate a domandare qualcosa (alle spose del Profeta) fatelo dietro un hijab. Ciò è puro per i vostri cuori e per i loro».

Questo versetto, spiega la Mernissi facendo riferimento all’interpretazione di Tabari (un commentatore di letteratura religiosa morto nel 922),è «disceso» il giorno in cui Muhammad aveva preso una nuova moglie, la cugina Zaynab. Egli, dunque, desiderava appartarsi con lei. Tuttavia, un gruppetto di invitati piuttosto fastidiosi non si decideva a lasciare la sua dimora. «Il velo - scrive la sociologa - sarebbe una risposta di Dio a una comunità dagli usi grossolani che, con la sua indelicatezza, feriva un Profeta così cortese da apparire timido».

Nell’articolo «La donna musulmana tra l’emancipazione del Corano e la limitazione degli studiosi islamici», pubblicato sul quotidiano Al-Ahram il 5 giugno 2002, Gamal al-Banna, intellettuale islamico ricorda che hijab, nel senso cranico, «non vuoi dire niqab (il velo che copre anche il viso) o il velo per i capelli, ma una porta o una tenda che copre e nasconde chi è all’interno rispetto a chi si trova all’esterno, e impone a colui che entra di chiedere il permesso prima di farlo». Va ricordato, infatti, che agli inizi del periodo islamico, la maggioranza della popolazione viveva in tende e non in case.

Dal racconto di ‘Omar lbn al-Khattab (compagno dell’inviato di Dio), spiega al-Banna, «i devoti entravano dal Profeta senza chiedere il permesso, anche quando egli si trovava con le sue spose».

Ai-Banna aggiunge anche che a Medina «si era diffusa la pratica del ta’arrud sulle donne di ogni classe sociale. Questa pratica consisteva nell’appostarsi sul cammino di una donna per incitarla a fornicare. Per questo motivo alcuni uomini, fra cui ’Omar Bin Al-Khattab, capo militare senza pari e compagno dell’inviato di Dio, fecero pressione sul Profeta al fine di ordinare alle donne di indossare lo hijab per essere distinte dalle schiave, ed essere così protette dai ta’arrud».

In sostanza, secondo i due studiosi sopracitati, il Corano ordinerebbe soltanto di coprire con un velo il décolleté e di evitare abbigliamenti volgari o provocanti.

LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE E IL DOVERE DI “CERCARE ANCORA”

di Maria Cristina Bartolomei
docente di filosofia e teologa
Jesus/Novembre 2007


Il 7 novembre 1917 scoppiò in Russia la Rivoluzione d’ottobre (quando l’antico calendario russo venne adeguato a quello gregoriano la data slittò da un mese all’altro); nel febbraio-marzo dello stesso anno vi era stata una prima rivoluzione liberaI-borghese, che mirava a sostituire lo Zar Nicola Il. I movimenti di sinistra si attivarono, chiesero una Costituente, cominciarono a organizzarsi in soviet, che divennero poi il nerbo della rivoluzione bolscevica.

Il regime sovietico è crollato; quasi scomparsi dalla faccia della terra o in via di radicali trasformazioni (e deformazioni; ad esempio, in Cina) sono sia il suo tipo di comunismo sia altri tipi. I cattolici, soprattutto italiani, ricordano la scomunica Iatae sententiae (cioè automatica) comminata nel 1948 da Pio XII a chi avesse sostenuto il partito comunista.

I motivi di condanna dei “modelli” di comunismo realizzato sono gravi e noti: mancanza di libertà individuali; di rispetto dei diritti umani; repressione religiosa e ateismo di stato. L’impianto economico comunista, come tale (al di là delle deviazioni totalitarie dei regimi), è criticato in quanto non “funziona”, non produce benessere e ricchezza (purtroppo, a parte le comunità religiose, solo lo scopo del lucro e interesse privati pare riesca a motivare gli esseri umani!). Il 90° anniversario della rivoluzione non sarà dunque molto celebrato, tanto meno dai cattolici, Perché allora ce ne occupiamo?

Perché il comunismo può essere una risposta sbagliata, ma il drago che ha affrontato è vivo, i problemi che ha denunciato e cercato di risolvere sono veri e, nel quadro del capitalismo, si sono aggravati. Sono i problemi della ingiustizia, orrenda, gravissima che vige nei rapporti tra gli esseri umani; dello sfruttamento di molti a vantaggio di pochi, che vuoi dire miliardi di vite triturate nelle rotelle dell’ingranaggio che produce benessere sufficiente a tacitare le nostre coscienze, e opulenza nonché potere di dominio del mondo (anche con l’uso della guerra) nelle mani di pochissimi. Prima del movimento socialista non si ricordano sollevazioni cristiane contro la trasformazione in merce dell’uomo, contro le condizioni disumane di lavoro, anche di donne e bambini.

Ci furono molte generose iniziative di assistenza (quante congregazioni religiose!), ma non azioni politiche a contrasto di quell’”ordine” costituito. Diritti oggi (o almeno sino ad ieri!) considerati ovvii furono conquistati a prezzo di dure e sofferte lotte: senza l’incitamento del movimento socialista, tutto ciò non sarebbe accaduto. Il comunismo ebbe certo torto a indicare in Dio e nella religione il nemico della promozione umana Ma più grave torto lo ebbero i cristiani a non schierarsi con gli ultimi, a non opporsi ai potenti che li opprimevano. Che Dio ci perdoni per come il suo volto e il messaggio dell’Evangelo sono stati deformati dalla prassi delle Chiese!

C’è chi si è compiaciuto di redigere il “libro nero” delle vittime del comunismo: azione, come minimo, incauta. Altri potrebbe infatti redigere il libro nerissimo delle vittime del capitalismo, che non sono finite e comprendono non solo i miserabili del Sud del mondo sfruttati dalle multinazionali e in mille altri modi, ma anche i bambini cui negli Usa oggi viene negata assistenza sanitaria gratuita. Dall’alba del capitalismo, quanti milioni sono morti di stenti, fame, fatica, guerre fatte per motivi economici, quante vite sono schiacciate dall’unico criterio del profitto? E qualcuno potrebbe addirittura scrivere un libro nero del cristianesimo “reale”: un libro di persecuzioni e violenze; di repressioni; di inadempienze, ritardi, cecità nel cogliere i bisogni del mondo. Ci ribelleremmo, e con ragione; un ideale non si misura solo dai modi devianti in cui viene realizzato, dai tradimenti dei suoi portatori: un criterio che abbiamo il dovere morale di applicare anche nel caso del comunismo.

Il comunismo, accusato di ridurne l’essere umano a solo fatto economico, in realtà fa da specchio al modo in cui va il mondo: non siamo oggi (in democrazia) assuefatti a vedere valutare tutto sul piano del mercato?!

La tragica contraddizione tra mezzo e fine del comunismo fu l’uso della violenza per ottenere la liberazione sociale. Ma la spinta dell’ottobre 1917 fu l’indignazione per l’ingiustizia; la ricerca della giustizia per tutti, della eliminazione dei rapporti di dominio (purtroppo perseguita eliminando fisicamente i dominatori); fu la convinzione che, al di qua delle legittime differenze, gli esseri umani sono uguali e hanno uguali diritti: l’esatto contrario di ciò che ispirò i totalitarismi fascisti, ai quali a torto il comunismo viene assimilato. Il comunismo aprì un orizzonte di speranza e dignità a milioni di oppressi, che si riconobbero “compagni”: uomini che condividono Io stesso pane (quali assonanze per i cristiani!). Non lo rimpiangiamo, ma abbiamo l’onere di rispondere ai problemi che affrontò, di trovare vie più umane di economia e società; il suo fallimento ci interpella “cercate ancora!”.

Venerdì, 25 Gennaio 2008 18:57

NON C’È FUTURO SENZA DONNE

NON C’È FUTURO SENZA DONNE

di Sabina Siniscalchi
MC Ottobre-Novembre 2007

Sono la maggioranza dei poveri e di coloro che muoiono per malattie curabili, degli analfabeti e dei sottoccupati, delle vittime di guerra e degli abitanti delle baraccopoli. Le donne sono la dimostrazione vivente degli errori e miopia del potere politico. Nonostante tutto, in ogni parte del mondo, sempre più donne lottano per un futuro pacifico, sostenibile, duraturo.

Nell’anno 2000 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha stabilito gli «Obiettivi di sviluppo del Millennio »:otto grandi finalità che dovrebbero consentire al mondo di lasciarsi alle spalle per sempre povertà,ingiustizia e diritti violati. Tali Obiettivi riassumono gli impegni sottoscritti dai capi di stato e di governo in occasione delle conferenze mondiali realizzate dall’Onu, nel corso degli anni Novanta,sui vari aspetti dello sviluppo:ambiente, popolazione, occupazione, salute, infanzia parità di genere.

Eventi importantissimi di cui non bisogna perdere traccia e coscienza, che hanno definito con chiarezza e competenza le coordinate di un futuro pacifico, sostenibile e duraturo per l’umanità.

Purtroppo, i piani di azione con cui si sono concluse queste conferenze, anche se sono stati sottoscritti dai governanti sotto i riflettori del mondo intero, sono rimasti largamente inapplicati. Per questo, sette anni fa l’allora segretario generale dell’Onu, Kofi Annan,ha individuato un pacchetto minimo di otto obiettivi,chiari e condivisi, che potessero essere raggiunti da tutti i paesi del mondo entro il 2015.

Le donne e i “Millenium Goals”

I Millennium Goals prevedono il dimezzamento del numero dei poveri e degli affamati, la scolarità universale, la parità di genere, l’abbattimento della mortalità infantile, la tutela della salute materna, la lotta all’Aids e alle altre pandemie, la salvaguardia del patrimonio ambientale, l’accesso all’acqua potabile, e, infine la creazione di un partenariato globale per raggiungere insieme il traguardo dello sviluppo.

Tre degli Obiettivi del Millennio riguardano specificatamente le donne: il secondo che punta all’istruzione per tutte le bambine del pianeta, il terzo che prefigura una piena equi equiparazione e partecipazione delle donne, il quarto che si focalizza sulla salute delle madri e delle partorienti Tuttavia,è evidente che tutti gli otto goals toccano direttamente la sorte e la vita delle donne, proprio nella misura in cui esse rappresentano la stragrande maggioranza dei poveri, la gran parte di coloro che muoiono per malattie curabili, la percentuale maggiore degli analfabeti,dei sottoccupati, delle vittime di guerra, degli abitanti delle baraccopoli...

Le donne sono la prova vivente delle drammatiche condizioni del mondo, il loro stato è la dimostrazione angibile degli errori e della miopia di chi detiene le leve del potere politico ed economico.

Spesso siamo inclini a pensare che le donne vivano male solo in Africa, in Asia o in America Latina, a smentire questa nostra convinzione di comodo arrivano,dai paesi ricchi e industrializzati, i dati sul lavoro precario delle giovani donne, quelli sulle disparità nelle retribuzioni, quelli sulla condizione delle donne immigrate e sulla violenza domestica.

Per quanto riguarda l’Italia,ci ha pensato di recente il Financial Times a sottolineare una condizione apparentemente meno drammatica, ma ugualmente discriminante;il prestigioso quotidiano definisce l’Italia «il paese delle veline»: in parlamento la percentuale di donne non supera il 16 per cento, mentre giovani donne provocanti e mute vengono utilizzate in abbondanza da pubblicità e televisione.

L’Italia si ferma agli ultimi posti tra i paesi europei per quanto attiene il ruolo delle donne in politica e in economia. Le donne italiane fanno fatica a raggiungere posti di responsabilità nelle imprese e nelle istituzioni;basti pensare che solo nel 1995, una donna, Fernanda Contri,è diventata per la prima volta giudice della Corte costituzionale e un’altra, Susanna Agnelli, è stata nominata, sempre per la prima volta, ministro degli Esteri.

Nella discussa Turchia,dove sono stata lo scorso luglio, ho monitorato lo svolgimento delle elezioni politiche per conto del Consiglio d’Europa, le donne in parlamento sono l’11%; una donna è stata fino a pochi mesi fa presidente della Corte costituzionale; un’altra è a capo della confindustria locale.

Dunque, nessun paese ha da insegnare ad altri in materia di pari opportunità, di pieno riconoscimento del ruolo delle donne e di rispetto dei loro diritti fondamentali.

La piattaforma con cui si concluse la Conferenza mondiale sulle donne, che si svolse a Pechino nel 1995,rimane largamente incompiuta. Se si escludono i progressi della scolarizzazione delle bambine, gli altri traguardi sono ancora lontani. A Pechino, ad esempio, i capi di governo avevano concordato l’adozione di politiche per riservare alle donne il 30% dei seggi parlamentari, ma dieci anni dopo,solo il 15% di tutti i parlamentari nel mondo sono donne.

Il lato oscuro della globalizzazione

Esperti di sviluppo delle Nazioni Unite e leader della società civile fanno notare che,se alcune tendenze dell’economia mondiale hanno avuto un impatto positivo sulla vita delle donne, ve ne sono altre che hanno indebolito la loro lotta per l’uguaglianza economica e politica. Ad esempio le donne che, a milioni, vivono nelle aree rurali e lavorano in agricoltura sono diventate più povere e malnutrite a causa del passaggio dalla produzione per il fabbisogno alimentare locale a quella per il commercio e l’esportazione.

Anche i tagli alla spesa sociale,che sono stati al centro delle politiche di aggiustamento economico imposte, negli ultimi 20 anni,ai paesi indebitati da Fondo monetario internazionale e Banca mondiale, hanno comportato una crescita del disagio femminile: in molti paesi in via di sviluppo,le donne hanno perso qualsiasi sostegno pubblico nella cura, nel nutrimento e nel dei figli,con esiti spesso drammatici, mentre nei paesi industrializzati, sempre in nome del risanamento dei bilanci statali, i servizi pubblici invece di aumentare sono spesso diminuiti;secondo un recente studio dell’unicef, la condizione dei bambini e delle loro madri è peggiorata in molti paesi dell’Est Europa, passati dall’economia controllata dallo stato all’economia di mercato,a causa dei minori finanziamenti pubblici a scuole,asili, ospedali.

Anche l’Organizzazione internazionale del lavoro (OiI) lancia l’allarme sulla situazione delle donne lavoratrici, specialmente in realtà dove il sindacato è debole o inesistente come nelle zone franche riservate ad aziende straniere che producono per il mercato estero. L’assenza di norme per la sicurezza e di qualsiasi forma di tutela sanitaria e di maternità espone queste lavoratrici a enormi rischi e al ricatto dei datori di lavoro.

Secondo l’Oil, l’assenza di decent work (lavoro dignitoso), in Cina, India ed altri paesi con un elevato tasso di crescita economica, rappresenta il lato oscuro della globalizzazione.

La discriminazione contro le donne, sicuramente non è più stabilita per legge, ma è connaturata a processi economici e sociali che generano o accentuano le ingiustizie.

Ancora in troppi paesi, le donne sono escluse dall’accesso a risorse fondamentali per lo sviluppo,come il credito, la proprietà della terra e di altri strumenti di produzione, la formazione e la tecnologia.

Occorre invertire questa tendenza e ripartire dalla consapevolezza che uno sviluppo stabile e duraturo non può prescindere dal protagonismo delle donne. Sotto questo profilo, la cooperazione allo sviluppo può svolgere un ruolo fondamentale.

Lo scorso gennaio ho partecipato al World Social Forum di Nairobi,dove la presenza delle reti femminili, soprattutto africane, è stata formidabile: donne energiche e intelligenti che,a dispetto dei pochi mezzi a loro disposizione, hanno voluto partecipare per portare la loro testimonianza e le loro richieste. Hanno ribadito la volontà di essere artefici del proprio sviluppo e padrone del proprio destino; hanno mostrato gli ottimi progetti e le straordinarie esperienze che hanno saputo mettere in campo con piccoli aiuti.

Donne coraggiose e dinamiche che non si arrendono di fronte all’impoverimento del loro continente, che non si rassegnano alla perdita dei loro uomini uccisi dalle guerre o emigrati per cercare lavoro; donne consapevoli della propria dignità e orgogliose delle risorse del proprio popolo. Donne che hanno molto da insegnare al resto del mondo.

E’ a queste donne che dovrebbe essere indirizzato l’aiuto internazionale; dovrebbero essere loro a ricevere la maggior parte delle risorse economiche che arrivano dai paesi donatori. Purtroppo non è così: il Dac (Development Aid Committee) calcola che la quota dell’Aps (aiuto pubblico allo sviluppo) destinata ai progetti promossi, realizzati e guidati dalle donne è ancora minima. Un approccio che va radicalmente rivisto,se si vuole davvero sostenere, attraverso la cooperazione, il cammino di liberazione dal bisogno dei popoli del Sud del mondo.

Spese militari: un insulto alle donne

Attraverso il recupero di dignità e di ruolo delle donne, passa anche la lotta contro la violenza che le brutalizza e le annienta in ogni parte del mondo.

Nonostante la Convenzione Onu sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne sia stata ratificata da 179 paesi, la loro incolumità e la loro libertà è sempre più minacciata da nuove guerre e conflitti, dal crescente traffico di esseri umani e dal diffondersi dei movimenti fondamentalisti.

Gli studi delle agenzie dell’Onu sulla violenza di genere sono pieni di dati agghiaccianti:si stima che ogni anno quasi un milione di donne sia oggetto di traffico e più della metà sia destinata all’Europa. Oltre a essere sfruttate,queste donne sono in balia della violenza di protettori, clienti e persino delle forze dell’ordine.

Anche la violenza domestica è un’altra grave emergenza,tanto che il problema è costantemente nell’agenda del Consiglio d’Europa: l’organizzazione internazionale, di cui fanno parte 47 paesi,che ha come finalità la promozione dei diritti umani e la diffusione della democrazia.

Un recente studio,commissionato dal governo svizzero, intitolato «Donne in un mondo insicuro», riferisce che una percentuale crescente di donne subisce aggressioni fisiche da parte del partner o di altri componenti maschi della propria famiglia. La violenza domestica imperversa non solo nei paesi in via di sviluppo,che sono spesso carenti in termini di protezione legale, ma anche nelle società industriali sviluppate, secondo la ricerca svizzera; negli Stati Uniti, per esempio, nonostante le rigide leggi contro la violenza di genere, una donna su quattro è vittima di abusi.

A Nairobi mi ha colpita l’affermazione di June Zeitlin,del Wedo (organizzazione per l’ambiente e lo sviluppo delle donne, una rete internazionale che raggruppa decine di associazioni di ogni regione del mondo): «Si fa molta retorica sui diritti delle donne, ma gli interventi concreti sono del tutto insufficienti. Nonostante le promesse fatte a Pechino 12 anni fa,ancora oggi ben 40 paesi si rifiutano di adottare una legislazione contro la discriminazione delle donne, inoltre anche in paesi in cui questa legislazione è vigente sopravvivono costumi e tradizioni fortemente pericolosi per le donne».

Basti pensare che in India sono oltre 700 le donne uccise nel 2006, ma meno del 2% dei responsabili è stato condannato per omicidio.

La violenza sulle donne è aggravata anche dallo stato crescente di guerra che caratterizza il mondo dall’inizio del Millennio. È come se le donne perdessero terreno di fronte all’escalation militare e alle crescenti spese per la difesa e gli armamenti di molti governi; le risorse per gli interventi sociali e la cooperazione scarseggiano, ma ogni anno si spendono - secondo i dati del Sipri (l’Istituto di ricerca sulla pace di Stoccolma) - mille e duecento miliardi di dollari in armi, una cifra che rappresenta 25 volte la spesa necessaria per il raggiungimento degli Obiettivi del Millennio!

«Cittadine di seconda classe», ma...

Purtroppo se n’è parlato poco sui nostri giornali, ma all’inizio di quest’anno 200 tra scrittrici, artiste, parlamentari e attiviste sociali degli Stati Uniti hanno lanciato un appello alle donne di tutto il mondo per dare forma a un’alleanza globale contro la guerra.«Ne abbiamo abbastanza della guerra insensata in Iraq e del crudele attacco ai civili in tutto il mondo - si legge nell’appello -. .Abbiamo seppellito molti dei nostri amati e visto troppe vite mutilate per sempre. Questo non è il mondo che vogliamo per noi e i nostri figli».

Anche nei paesi che non sono colpiti dalla guerra, la condizione delle donne resta dura: cittadine di seconda classe sia nel mondo ricco che nel mondo povero. Nonostante questo, le donne continuano a lottare e alcune, sia pure ancora troppo poche, riescono a farsi strada nel mondo politico e imprenditoriale.

Vorrei citare tre esempi di successo, verificatisi di recente. Lo scorso luglio, in India, Pratibha Patil è stata eletta presidente della repubblica: è la prima donna capo di stato nella storia della potenza asiatica. Una nomina forse determinata più dagli interessi dei partiti in lizza che dal carisma della candidata; tuttavia la presenza di una donna al massimo livello istituzionale ha generato grandi speranze tra le donne indiane, anche perché in passato la Patil ha operato in organizzazioni femminili e si è battuta per i diritti delle donne del suo paese.

Il 2 e 3 agosto si è svolto a Quito in Ecuador un incontro dal titolo «Donne che trasformano l’economia». Vi hanno partecipato un centinaio di rappresentanti di organizzazioni femminili di vari paesi dell’America Latina, che hanno messo in atto iniziative di resistenza all’economia neoliberista e al Cafta (trattato di libero commercio tra Usa e Centroamerica). «Non siamo venute qui solo per dire no al Trattato e allo strapotere delle grandi multinazionali - ha detto Ana FeliciaTorres del Costa Rica - siamo venute anche per dire si: sì alla vita, sì ai diritti, sì all’educazione, alla casa,alla sicurezza alimentare. L’economia deve avere questi come obiettivi prioritaril».

Il 7 agosto le donne del Kenya hanno lanciato la Campagna Un milione di firme per 5O posti, un’iniziativa di pressione sul parlamento per far approvare una proposta di legge che riserva 50 seggi speciali alle donne. Tra gli ideatori della Campagna, c’è Martha Karua, ministro per la Giustizia e affari costituzionali, una politica convinta che i suoi colleghi maschi siano più influenzabili da una mobilitazione che da tanti studi e dibattiti. Martha Karua ha spiegato così la proposta: «Si tratta di una misura di breve termine,che può contribuire a sradicare le grandi disparità tra uomini e donne presenti nella società keniana e che si riflettono nella rappresentanza parlamentare».

Alcuni anni fa,Gertrude Mongella, già ministro della Tanzania, fondatrice dell’Ong Awa (Advocacy for Women in Africa) e attualmente prima presidente del Parlamento pan-africano, mi disse:«Ci sono stati molti cambiamenti dalla Conferenza di Pechino,e molto positivi. L’uguaglianza di uomini e donne sta diventando una realtà, non è più solo un argomento di cui conversare. Non abbiamo ancora raggiunto tutti i traguardi che ci eravamo prefissi a Pechino, per varie ragioni, ma si sono fatti molti sforzi riguardo alla disuguaglianza e alla discriminazione contro le donne. Ci sono leggi che puniscono la violenza contro le donne, leggi che richiedono una percentuale minima di rappresentanza femminile a diversi livelli nella società. Sono i primi risultati della conferenza di Pechino,occorre andare avanti».

Venerdì, 25 Gennaio 2008 18:53

TRADIZIONI RISPETTATE

AFRICA I L’ONU APPROVA LA DICHIARAZIONE DEI DIRITTI DEI POPOLI INDIGENI
TRADIZIONI RISPETTATE

di Luciano Ardesi
Nigrizia/Novembre 2007

Ci sono voluti oltre vent’anni di mobilitazione e quasi quindici di discussioni alle Nazioni Unite perché l’Assemblea generale adottasse finalmente, lo scorso 13 settembre, la Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni.

Più volte sul punto di essere approvato, il documento alla fine ha visto la luce solo perché, nel corso del tempo, gli stati hanno capito che, in fondo, la Dichiarazione non sarebbe stata altro che un pezzo di carta, moralmente importante, ma nulla di più. La risoluzione con la quale l’Assemblea generale l’ha approvata non è, infatti, giuridicamente vincolante. Nonostante questo limite, non sono mancati i voti contrari di quattro paesi, tutti del mondo ricco (Australia, Canada, Nuova Zelanda e Usa), e le astensioni (undici, tra cui tre paesi africani: Burundi, Kenya e Nigeria).

A spingere alla sua adozione sono state, in primo luogo, le organizzazioni indigene latino-americane; quelle africane sono intervenute molto più tardi. Del resto, dai governi africani sono venute alcune delle maggiori resistenze, proprio perché per molti di essi parlare di popoli indigeni significa evocare il fantasma del tribalismo e la particolarità etnica che ostacolerebbero la costruzione dello stato moderno e unitario. Per questi motivi, in Africa, l’emergere di una coscienza indigena è stata enormemente ritardata.

La Dichiarazione elenca un gran numero di “diritti”: un catalogo sterminato che solo interventi specifici, e resi coercitivi mediante leggi nazionali, potrà rendere effettivo. Un diritto emerge su tutti: quello dell’autodeterminazione (art. 3). È stato tra i più controversi, per timore che, analogamente al diritto di autodeterminazione per i popoli colonizzati, potesse significare il diritto alla secessione o la rimessa in discussione dell’unità nazionale. Nella Dichiarazione ha un significato più circoscritto di autogoverno all’interno dello stato cui il popolo indigeno appartiene. Ne consegue che è riconosciuto il diritto di decidere autonomamente il proprio statuto politico e il proprio sviluppo economico, sociale e culturale. I popoli indigeni hanno, pertanto, la possibilità di mantenere le proprie istituzioni tradizionali, così come di dotarsi di nuovi ordinamenti.

Tre principi appaiono particolarmente importanti. Il primo è quello della non discriminazione (art. 2). Infatti, il tratto comune a tutti i popoli indigeni del mondo sono le diverse forme di emarginazione di cui sono vittime. Il secondo principio è il diritto a non subire l’assimilazione forzata o la distruzione della propria cultura (art. 8). Oltre alle politiche volontaristiche degli stati, la minaccia più forte viene da quella particolare forma di assimilazione forzata costituita dai processi di globalizzazione, che obbligano anche i popoli indigeni ad assumere modelli di vita standardizzati. Per questi motivi, la Dichiarazione prevede non solo una generica protezione della cultura e delle tradizioni, ma, soprattutto, la possibilità di mantenere o creare sistemi educativi propri. Infine (terzo principio), è riconosciuto ai popoli indigeni il diritto a non essere deportati dal proprio territorio o a non essere reinseriti senza il loro consenso (art. 10). Quest’ultimo principio rinvia alla questione fondamentale dello sfruttamento delle risorse naturali nei territori indigeni. La Dichiarazione non contiene il diritto dei popoli indigeni a controllare le risorse naturali del proprio territorio. Fa unicamente obbligo agli stati di «consultarli» (art. 32), prima approvare qualunque progetto di sviluppo che abbia delle incidenze sulle loro terre. Nessuna proprietà è, quindi, riconosciuta ai popoli indigeni sulle risorse minerarie: si parla piuttosto di riparazioni per le conseguenze nefaste di questi piani di sviluppo.

Nonostante i limiti, la Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni è stata salutata in modo positivo dalle organizzazioni che li rappresentano, comprese quelle africane. Viene giudicata non un punto di arrivo ma di partenza, per far riconoscere quei diritti che faticosamente sono stati enunciati. Nessuno, all’interno di queste organizzazioni, s’illude che la seconda tappa sarà meno lunga e difficile della prima.

DIFFICILE DEFINIZIONE

Ma chi sono i popoli “indigeni” cui fa riferimento la Dichiarazione? Uno dei motivi che per anni hanno bloccato l’adozione del testo è stata proprio l’impossibilità di trovare una definizione che mettesse tutti d’accordo. Alla fine, ci si è arresi al fatto che nel diritto internazionale non ci sono definizioni di “minoranza” o di “popolo”, pur riconoscendo a queste entità alcuni diritti specifici.

La situazione africana è complicata dal fatto che quasi tutti i gruppi sociali possono dirsi indigeni, nel senso di essere originari del continente o di esservi installati da lungo tempo. La differenza culturale è un altro elemento importante, ma in Africa ciò vale per tutti i popoli indistintamente (si pensi, ad esempio, all’immensa varietà delle lingue). L’aspetto decisivo è oggi, piuttosto, la coscienza dei popoli di essere “autoctoni”. Finora, pochi popoli africani si sono definiti tali e si sono dati forme organizzate di rappresentanza. È probabile che proprio la Dichiarazione indurrà alcuni di essi a darsi una identità indigena e una organizzazione conseguente.

Anche in Africa, tuttavia, non si è attesa la Dichiarazione per far valere i diritti. I tuareg hanno tentato la via nazionale al riconoscimento dei propri diritti, soprattutto in Niger e in Mali, a partire dagli anni ‘90, anche attraverso la lotta armata. Finora gli accordi di pace non sembrano aver soddisfatto le loro rivendicazioni. Essi, comunque, come parte del popolo berbero (amazigh), hanno cercato di creare un’organizzazione internazionale che li rappresentasse tutti.

Significativa, nel dicembre scorso, è stata la vittoria ottenuta dai san del Botswana davanti all’Alta Corte del paese. Cacciati dalla riserva del Central Kalahari Game Riserve, essi hanno ottenuto il diritto al ritorno. Un anno più tardi, tuttavia, il governo di Gaborone ha rinnovato le misure di espulsione.

Sono ritornati alla ribalta gli ogoni, il popolo maggioritario nel Delta del Niger (Nigeria), di cui era originario Ken Saro Wiwa, lo scrittore-poeta impiccato nel 1995 per aver difeso il suo popolo. I recenti rapimenti di tecnici stranieri nella regione del Delta li hanno additati come “terroristi” (accusa che le organizzazioni ogoni respingono con forza). E proprio da loro vengono alcuni dei consensi più entusiasti alla Dichiarazione, consapevoli che essa potrà costituire un prezioso strumento di lotta, anche per la parte del documento dedicata alla salvaguardia dell’ambiente.

LA PRETESA DI VERITÀ DELLE CHIESE SPINGE A RIFLETTERE ANCORA

di Vladimir Zelinskij
teologo ortodosso
Jesus/Agosto 2007

Il documento della Congregazione per la dottrina della fede - che ribadisce che soltanto la Chiesa cattolico romana può essere pienamente identificata con la Chiesa di Cristo - come una piccola scossa che, dalle profondità dell’oceano, provocherà grandi ondate. In campo protestante non si è fatta attendere una gelida tempesta, in cui si può sentire il sapore dell’offesa dopo tanti anni di dialogo ecumenico, noi non abbiamo neanche meritato di essere chiamati “Chiesa”?

Questa identità confermata, invece, ha portato un’inattesa soddisfazione nella Chiesa ortodossa, anche se la sua «carenza» - la mancanza di comunione con il successore di Pietro - è chiaramente indicata. Secondo l’ecclesiologia ortodossa, infatti, il carisma del Pescatore appartiene a ogni vescovo in quanto capo della Chiesa locale e in comunione con gli altri vescovi il primato assoluto, anche giuridico, del vescovo di Roma è solo il frutto dello sviluppo storico Due tradizioni, quella romana e quella ortodossa, sono in discussione, ma il principio della fedeltà alla Tradizione rimane un terreno comune. L’Ortodossia sottolinea la deviazione occidentale dall’eredità del primo millennio e insiste affermando che la riscoperta di questa eredità sarebbe la principale condizione per il ritorno all’umiltà Nel documento della Congregazione non è espresso un atteggiamento in qualche modo simile?

«Secondo la dottrina cattolica, mentre si può rettamente affermare che la Chiesa di Cristo è presente e operante nelle Chiese e nelle Comunità ecclesiali non ancora in piena comunione con la Chiesa cattolica » Questa affermazione la si può capire così la Chiesa cattolica può sussistere in incognito tra le pecore degli altri ovili e l’unità deve manifestarsi attraverso la scoperta della sua presenza nascosta Ma davvero è diversa questa posizione dall’appello «Tornate al primo millennio, ritrovate la Tradizione patristica per quanto essa è ancora presente in voi»? La Chiesa ortodossa non ha mai smesso di parlare di sé, non come «venerabile Chiesa orientale», ma come unica e santa Chiesa di Cristo E quando due (?) Chiese con la stessa pretesa di verità entrano in dibattito, entrambe sono chiamate a fare ulteriori, approfondite ricerche nella Tradizione, con un orecchio aperto a ciò che oggi lo Spirito dice alle Chiese. Nessun ortodosso contesta il primato di Pietro, ma “l’infallibilità papale” era davvero voluta da Cristo? E tutti gli altri dogmi che ci dividono non sono stati introdotti in modo unilaterale, senza chiedere l’opinione dell’Oriente, come se esso non esistesse?

La chiarezza da parte della Chiesa di Roma è una sfida ci si può anche voltare dall’altra parte, facendo finta che niente sia successo…. Ma si può anche rispondere con una riflessione nuova sulla nostra enorme ricchezza condivisa.

ALL’ITALIA SERVONO PARTITI VERI, DEMOCRATICI E REALMENTE NUOVI

di Franco Monaco
politologo

Confortati da autorevoli opinionisti, avevamo osservato che il più alto e insostenibile dei costi della politica, che affligge l’Italia in modo particolarissimo, è un vistoso deficit di democrazia governante, originato da un sistema politico-istituzionale che inibisce decisioni efficaci e tempestive. All’altezza di economie e società aperte e dinamiche e tali da farci tenere il passo dei nostri partner-competitori dentro un’Europa e un mondo sempre più integrati. Un deficit di democrazia funzionante e governante che si manifesta soprattutto nei rami alti dello Stato, a livello di Parlamento e di governo centrale. Singolarmente deboli e precari, specie se rapportati ai governi regionali e locali, decisamente più stabili ed efficienti. Con conseguenti problemi di equilibrio del sistema.

Un problema annoso, questo, che rinvia alla ventennale e irrisolta esigenza di adeguamento e riforma di regole e istituzioni. Dalla legge elettorale, di recente riscritta con il preciso (e riuscito) proposito di acuire frammentazione, instabilità, paralisi; sino al bicameralismo perfetto (nel senso di ripetitivo e inconcludente) e soprattutto alla forma di governo con i poteri del premier (sensibilmente inferiori a quelli di un presidente di regione o di un sindaco, sotto il profilo istituzionale).

In questo quadro politico-istituzionale, neppure il più carismatico statista potrebbe fare il miracolo di dar corso a un governo all’altezza delle nuove sfide, Dunque, la prima linea di risposta all’antipolitica è la riapertura del cantiere delle riforme, che tuttavia presupporrebbe spirito costituente e dunque cooperazione bipartisan. Di cui, onestamente, allo stato, non si vede traccia.

La seconda via di risposta è quella genuinamente politica. Quella cioè dell’adeguamento dei partiti, che sono gli attori-protagonisti delle moderne democrazie di massa, i soggetti collettivi che raccolgono e organizzano il consenso, selezionano la classe dirigente politica, fanno da raccordo tra società e istituzioni, Si diceva di una pressante e disattesa domanda di governo. Ma una risposta di natura democratica a tale domanda di governo non può che far leva su partiti che facciano da “infrastruttura democratica” della società. E tuttavia anche i partiti partecipano di quella complessiva crisi di sistema cui si è fatto cenno. Di quali partiti avremmo bisogno? Rispondo sinteticamente con una sequela di aggettivi qualificativi.

Di “partiti veri”, disciplinati da regole che si rispettano e che si configurino come organismi collettivi. L’opposto di partiti oligarchici o addirittura personali, cui ha concorso una legge elettorale che mette nelle mani del capo la “nomina” dei parlamentari più docili.

Di “partiti democratici” non solo di nome, cioè restituiti ai cittadini quale loro strumento di partecipazione, come prescrive l’art. 49 della nostra Costituzione. A questo risponde il ricorso a consultazioni primarie anche nella vita interna dei partiti, quelli più sensibili e aperti alle forme nuove della domanda di partecipazione, meno incline alla retorica o alla militanza tradizionale e piuttosto orientato alla “democrazia deliberativa”, ove il cittadino aderente è chiamato in presa diretta a concorrere alle decisioni che contano.

Di “partiti grandi”, a vocazione generale e con cultura di governo. Non di piccoli partiti che pensano se stessi nell’angusta logica della rappresentanza di nicchia. Qui, naturalmente, decisiva è la legge elettorale; quella attuale ci ha regalato un Parlamento abitato da ventitrè gruppi gelosi della loro autonomia.

Infine, di “partiti autenticamente nuovi”, espressione di paradigmi ideologici altri e diversi da quelli del Novecento. Eppure, a ben vedere, gli attuali partiti sono più spezzoni residuali del vecchio che non anticipazione o espressione del nuovo. Sotto questo profilo e al di là del giudizio di valore (e delle legittime preferenze), si deve riconoscere che Forza Italia e il costituendo Partito democratico rappresentano le esperienze più avanzate nella tensione all’innovazione politica.

Venerdì, 25 Gennaio 2008 18:45

LE ARMI DELLA DIPLOMAZIA

LIBIA / RETROSCENA DELLA LIBERAZIONE DELLE INFERMIERE BULGARE
LE ARMI DELLA DIPLOMAZIA

di Alessandro Farina
Nigrizia/Settembre 2007

E’ ufficiale: Gheddafi è diventato buono. È diventato così buono agli occhi occidentali che, per prodigio, si sono rotte le dighe che arginavano il riarmo di Tripoli. Lo ha candidamente ammesso il ministro della difesa francese Hervé Morin: «Non esiste più l’embargo internazionale sulla vendita di armi alla Libia. Se non gliele vendiamo noi, saranno altri a farlo: italiani, russi, inglesi».

Una precisazione giunta il 3 agosto, dopo lo scoppio sulla stampa dello scandalo sull’ipotetico legame tra la liberazione delle 5 infermiere bulgare e del medico palestinese (avvenuta a Tripoli il 24 luglio) e la fornitura francese di armi a Tripoli. A lanciare il sasso era stato il figlio di Gheddafi, Saif Al-Islam, che in un’intervista a Le Monde ammise che a convincere i libici a liberare infermiere e medico — detenuti da 8 anni a Tripoli con l’accusa di aver infettato 438 bambini con il virus dell’aids — era stato un accordo militare con la Francia. Paese che si era speso molto (vedi la doppia visita a Tripoli di Cécilia Sarkozy e la passerella del marito con Gheddafi a liberazione avvenuta) per una soluzione positiva della vicenda. I giorni successivi all’intervista sono stati affollati di smentite. Il potente Claude Guéant, braccio destro del presidente francese, ha lanciato la proposta di convocare una commissione d’inchiesta parlamentare per dipanare le nuvole sull’eventuale scambio “armi-infermiere”. Lo stesso Nicolas Sarkozy, giorni dopo, ha negato l’esistenza di un memorandum — firmato con la Libia a fine luglio, secondo Le Parisien — per la vendita di un potente reattore nucleare a Tripoli, da usare per la desalinizzazione dell’acqua del mare.

Tra precisazioni e polemiche, le uniche cose certe sono che l’Mbda, società missilistica europea controllata dal gruppo franco-tedesco Eads (ma il 25% delle azioni sono anche dell’italiana Finmeccanica), ha in essere un contratto per la vendita a Tripoli di missili anticarro Milan. Contratto da 168 milioni di euro. Non solo. Esiste un secondo contratto, in fase di avanzata negoziazione, per la fornitura da parte dell’Eads alla Libia di un sistema Tetra di comunicazioni radio. Valore: 128 milioni di euro. Insomma, il gruppo franco-tedesco, con contratti per 296 milioni di euro, si è messo in prima fila nella corsa al ricco mercato della difesa libico, diventato un eldorado dalla fine dell’embargo, nel 2004. Mercato definito dalla stessa Defence Exports Services Organization (struttura inglese che si occupa, presso il ministero della difesa, della promozione e della vendita di armi costruite in Gran Bretagna) «il più promettente tra i mercati militari emergenti». Tanto che Londra si è offerta di addestrare l’esercito di Gheddafi. E anche l’Italia, in passato fornitore privilegiato della Libia, cerca di non perdere colpi. Il 3 agosto, ad esempio, Alenia Aermacchi ha annunciato un contratto di 3 milioni di euro per rimettere in condizioni di volo 12 addestratori ad elica libici SF-260.

La fine di un tabù. E un rientro da protagonista nello scacchiere internazionale per l’uomo forte di Tripoli, isolato per anni dalla comunità internazionale. La bomba diplomatica, disinnescata da Gheddafi con la liberazione delle infermiere, ha portato, poi, altri frutti. Raccolti dall’albero europeo. Bruxelles, infatti, ha pagato 500 milioni di euro a Tripoli come risarcimento danni per la morte dei bambini. Il Colonnello ha ottenuto poi la garanzia di disposizioni di favore per l’esportazione in Europa di prodotti libici e l’impegno a finanziare una serie di progetti nei settori delle infrastrutture stradali. Dalla Bulgaria, infine, è arrivato il condono del debito, pari a 57 milioni di dollari.

PER GIORGIO LA COERENZA È TUTTO, MA VUOLE DIVENTARE CONSULENTE

Di Ettore Sutti
Italia Caritas/Luglio-Agosto 2007

Giorgio ha quasi 50 anni e la faccia di uno che sa esattamente quello che vuole. Lui è fatto così. E non lo manda a dire. «Mai lavorato in vita mia — spiega -, non ho nemmeno una marchetta da lavoratore dipendente. Perché la coerenza è tutto. Il mio lavoro era la rapina: dentro e fuori le carceri, sperando sempre di fare il colpo che ti sistema. Però, alla fine, è la vita che ti sistema. E ti concia anche per le feste. Ora sono qui, alla mia età, che cerco di costruirmi un futuro».

La bocca di Giorgio si increspa in qualcosa che assomiglia vagamente a un sorriso. L’aria da duro gli è rimasta, anche perché dopo quattro anni passati in carcere a Milano — tre gli sono stati condonati grazie all’indulto — diventa difficile lasciarsi andare completamente. Il sorriso è quello di una persona che ci sta provando davvero, a rifarsi una vita normale, lasciandosi alle spalle l’ingombrante passato. «Una volta uscito — racconta — il vero problema era trovare un posto dove dormire. Dopo quattro anni passati dentro e senza una famiglia è difficile trovare qualcuno che ancora si ricorda di te». Dopo alcuni giorni presso amici, Giorgio si è rivolto a Spin (Sportello di orientamento e counselling, attivato dall’Ufficio di esecuzione penale esterno, in collaborazione con diverse associazioni del territorio), che lo ha indirizzato al progetto di accoglienza abitativa temporanea e di accompagnamento socio-educativo “Un tetto per tutti: alternative al cielo a scacchi”, che vede protagonista anche Caritas Ambrosiana.

«In tempi normali - spiegano gli operatori di un “Un tetto per tutti” - impostiamo un approfondito screening delle persone indirizzateci, per capire se possiedono le caratteristiche per prendere parte a un progetto che, oltre alla condivisione degli spazi in alcuni appartamenti, prevede la presenza costante di un tutor a cui appoggiarsi, ma anche a cui rendere conto. In seguito all’emergenza post-indulto, abbiamo dovuto accelerare i tempi». Perché l’indulto ha sì svuotato le carceri, ma ha rischiato di lasciare sulla strada, abbandonate a se stesse, migliaia di persone. A Milano, per fortuna, la mobilitazione comune di enti locali e privato sociale ha consentito di potenziare o partorire progetti di accoglienza, che hanno funzionato da rete protettiva per molti “indultati”.

Una ripulita, una bella cravatta

Quanto a Giorgio, quando ha avuto accesso al progetto, non solo aveva già attivato tutti i canali di assistenza esistenti a Milano, ma addirittura era riuscito a trovarsi un lavoro tagliato su misura per lui. «Mi è sempre piaciuto stare in mezzo alla gente - racconta - e non ho difficoltà a farmi nuove amicizie. Quando ho scoperto che cercavano venditori per servizi alla persona, lavoro che prevede il contatto umano, mi sono presentato subito. Una ripulita, una bella cravatta, tanta faccia tosta e il lavoro era mio. Nessuna sicurezza, provvigioni basse ma, almeno, avevo la possibilità di dimostrare che qualcosa valgo ancora».

Dopo qualche tempo però, Giorgio, d’accordo con il tutor di “Un tetto per tutti” e quello del Celav, centro per l’inserimento lavorativo del comune di Milano, ha deciso di lasciare l’incarico per lavorare su stesso. «Sono tornato a scuola — conclude Giorgio — per poter diventare davvero autonomo. Sto sgobbando parecchio per diventare un vero consulente. Ho fatto richiesta per una casa popolare, se non succederanno terremoti in graduatoria il prossimo anno potrei avere un “buco” tutto mio. E pensare che fino allo scorso settembre ero ancora chiuso in un cella...».

Muri Contro” foto dentro

“Muri Contro” è il titolo della mostra organizzata ad aprile dalla Sesta Opera San Fedele e dalla Fondazione culturale San Fedele di Milano. Nata attorno al corso di fotografia tenutosi a settembre-ottobre 2006 nel carcere milanese di San Vittore da Gigliola Foschi, storico e critico della fotografia, e da Andrea Dall’Asta, la mostra ha permesso a un piccolo gruppo di detenuti di riflettere su come i diversi conflitti che li abitano possano prendere corpo nella forma di un muro.

Reportage dal paese centroamericano
BANCHE E TRAFFICI NEL PAESE DEL CANALE

di Claudia CaramantiMC Luglio Agosto 2007

Abbondanza di farfalle, alberi e fiori: questo il significato di Panamá, nome indigeno del piccolo paese situato in posizione strategica tra il nord e il sud America. Un luogo speciale, dove è avvenuto l’incontro non soltanto di culture indigene ma anche di specie animali e vegetali.

La popolazione di Panamá comprende, oltre alla maggioranza di mestizos, un 10% di origine cinese, una comunità nera che vive sulla costa caraibica e alcune tribù indie.

La capitale, che è stata la prima città fondata da europei sull’oceano Pacifico, si presenta come una moderna metropoli con un grosso nucleo di alti edifici in cemento, parchi, monumenti e chiese. Famoso centro finanziario internazionale, accoglie circa 400 banche, dove pare venga riciclato il denaro proveniente dal traffico della droga. I colombiani sono coinvolti in numerose attività, dagli alberghi ai casinò, ma soprattutto nell’impresa edile, in forte espansione in città e anche sulle coste del pacifico, dove sorgono centri turistici per i nordamericani in vacanza.

Tutti i complessi di lusso sono protetti da muri e guardie armate, ma il filo spinato e le inferriate alle finestre le notiamo anche sulle modeste case dei quartieri poveri. Questa è una costante nei paesi dell’America Latina, che dimostra quanto gravi siano i problemi della violenza metropolitana.

Dell’antica città fondata dagli spagnoli nel 1519 (come avamposto per i traffici con le ricche colonie del Pacifico) rimane un complesso di ruderi circondato dalla foresta e dal mare, che durante la marea si ritira lasciando un vasto spazio fangoso. I vascelli carichi dell’oro peruviano si fermavano al largo e il prezioso carico veniva immagazzinato sull’isola di Perico, una delle 4 che chiudono il golfo e che ora sono unite da una strada costruita con il materiale estratto dal canale. La città, ricca di palazzi e conventi ma non protetta da mura,  venne rasa al suolo dal pirata Morgan nel secolo successivo. Gli spagnoli ricostruirono la città dall’altra parte della baia, in posizione più difendibile e oggi è un gioiello di architettura coloniale, in via di restauro. In uno dei palazzi più belli, costruito dai francesi a fine ‘800, visiteremo il museo del Canale di Panamá, dedicato alla sua tormentata storia, dai primi progetti fatti dai francesi, fino alla sua realizzazione da parte degli statunitensi, avvenuta tra il 1903 e il 1914, anno dell’apertura.

Il canale delle Americhe: una risorsa contesa

Ci imbarchiamo sul battello che da Gamboa percorre il canale e attraversa le chiuse che permettono alle navi di scendere dal lago Gatun, un invaso artificiale riempito dalle acque del rio Chagres, al livello del Pacifico. Navighiamo seguiti da un grosso bastimento, in un contesto naturale di fitte foreste. I lavori di mantenimento e allargamento del canale continuano senza sosta per rendere più agevole il passaggio delle navi, che a volte devono attendere giorni per passare. ll nuovo progetto di allargamento del canale, del costo di 5,25 miliardi di dollari, sarà anche finanziato dai cinesi, interessati all’espansione del loro commercio. Una terza corsia sarà costruita con chiuse più grandi, in grado di contenere i giganteschi cargo da 12.000 containers, che superano le misure Panamax (con questa sigla si indicano le navi le cui dimensioni permettono il passaggio attraverso le chiuse del canale di Panamá, ndr).

Prima di uscire in mare aperto passiamo sotto il ponte delle due Americhe, percorso dalla Panamericana (la strada che parte dall’Alaska e corre per migliaia di chilometri fino a raggiungere i fiordi cileni) presso il quale i cinesi hanno costruito un monumento in memoria dei connazionali morti durante i lavori di costruzione del canale. La metà dei 45.000 lavoratori, reclutati in tutto il mondo, anche tra i neri delle colonie caraibiche, morirono per incidenti e malattie, febbre gialla e malaria.

Gli emberá del Darién: da cacciatori a guide

A Panamá la Panamericana si ferma davanti a una foresta impenetrabile. Una regione selvaggia, il Darién, percorsa da canali, paludi, montagne, fiumi e cascate, abitata dagli indigeni e conosciuta solo da narcotrafficanti e guerriglieri colombiani. Il Tapòn del Darién è un tappo che chiude ogni comunicazione via terra tra nord e sud America. Chi vuole  raggiungere la Colombia, deve prendere l’aereo. Il Darién è anche una preziosa riserva della biosfera, la più vasta area protetta del Centro America con una biodiversità eccezionale. Alcune tribù di indigeni emberá, che vivevano isolati in questa regione (conducendo una vita durissima, data l’impossibilità di commerciare i loro prodotti) una trentina di anni fa chiesero di essere trasferiti a Panamá. La difficoltà di inserimento in un contesto urbano spinse il loro capo (cachique) a chiedere al governo di potersi installare nella regione del fiume Chagres, ricca di foreste e acqua, lo stesso fiume che fornisce l’acqua al canale. Gli emberá continuarono a condurre così la loro vita di cacciatori, con arco e frecce, vivendo anche grazie alla pesca, alla semina di yucca, fagioli e mais e a qualche animale da cortile. Da quando il Chagres è diventato parco protetto tutto questo è interdetto, per cui sono stati aiutati dal governo a prepararsi ad accogliere i turisti curiosi di avvicinare le popolazioni indigene.

Ora la loro vita sta cambiando, hanno scuole primarie e sanità, ma cercano di mantenere il più possibile le tradizioni. Anche noi facciamo l’esperienza emberá, risalendo il fiume sulle loro primitive imbarcazioni, guidate da uomini seminudi, col perizoma rosso. Veniamo ospitati in un villaggio di case costruite su palafitte, condividendo il pranzo con le loro famiglie. Parlando col capo villaggio, vengo a sapere che suo nonno era quell’Emiliano che lasciò il Darién per lavorare nel cantiere del Canale. La sua storia sta scritta nel museo di Panamá: era uno degli indigeni che lavorò alla costruzione delle canoe espandé (a un solo albero) usate durante i lavori. Fu lui che negli anni ‘70 scelse di trasferire la tribù in questa regione, sul sito dove sorgeva una base scientifica americana. Morì in questo villaggio a 96 anni.

L’artigianato che viene offerto in vendita è molto raffinato. Si tratta di lavori in un legno pregiato, il cocobolo, preziosi intagli in avorio vegetale, dato dalla noce di una specie di palma. Lavorando una rafia molto soffice e lucida, tinta con colori vegetali, gli emberá fanno un tipo di cesteria e di maschere molto belle. Queste sono usate dagli chamán (il personaggio più importante, che sovrintende alla salute della tribù) per le guarigioni. Nel villaggio vi è la scuola, costruita dagli indigeni sulla base della struttura donata dal governo. Nascoste dagli alberi sono due chiese protestanti, frequentate dagli abitanti, che comunque rimangono animisti. Nella foresta dove tutto è sacro si trovano cibo e medicamenti e il botanico è un personaggio importante, di supporto allo chamán.

La nomina a chamán viene fatta nei primissimi anni di vita di un bambino. Segni premonitori lo indicano come il futuro chamán del villaggio, sin dalla nascita. La luna piena, un terremoto, un avvenimento speciale durante la gestazione, il modo in cui è venuto alla luce, i primi movimenti. Sovente il fanciullo tenta di rifiutare questo ruolo impegnativo, vorrebbe essere un bambino normale, come tutti. Dopo una lunga, impegnativa preparazione, a 15 anni viene mandato nella foresta, dove dovrà passare 5 anni solo e nudo. Si unirà profondamente alla natura, utilizzando le conoscenze acquisite dagli anziani, approfondendole e vivendo in stretta comunicazione con il mondo selvaggio.

I kuna di San Blas: una società patriarcale

Hanno dovuto fare guerra al governo, negli anni ’20, per ottenere l’autonomia della loro Comarca (distretto). I kuna sono indigeni  provenienti dalla Colombia che trovarono rifugio nei secoli scorsi sulla sottile striscia di terra che si affaccia sul mare dei Caraibi e sulle isole che gli spagnoli chiamarono di San Blas.

Piccoli di statura ma molto forti e determinati, hanno un loro governo autonomo e cercano con fermezza di mantenere i loro costumi e le tradizioni. La società dei kuna è matriarcale, anche l’eredità passa per via femminile. Quando una ragazza si sposa è il marito a trasferirsi nella casa dei suoceri e in caso di divorzio deve andarsene. Le donne sono molto laboriose e forti come i loro uomini e oggi riescono a guadagnare denaro dalla vendita dei molas, ricami tradizionali usati per decorare le loro camicette. Sono intagli e applicazioni in stoffa colorata, dal disegno naturalistico ma anche geometrico, molto raffinato, stilizzato e simile a un labirinto, in cui si riescono ad identificare forme di uccelli, animali, angeli...

Le isole abitate sono solo 40 su circa 400. Ogni villaggio ha il suo sahila, eletto dal popolo, che dirime le controversie, convoca le assemblee e in alcuni giorni chiama all’alba gli uomini al lavoro nei campi di terraferma. I kuna si sono finora difesi molto bene dall’aggressione del turismo di massa. La terra non si vende, gli operatori stranieri non sono accettati e chi vuole godere della magnifica natura delle loro isole  deve pagare una tassa alla famiglia che li ospita e adattarsi ad abitare strutture molto semplici. Ci fermiamo alcuni giorni in un’isola abitata da circa trecento persone e dormiamo nell’unico albergo, una modesta capanna, uguale alle loro, fatta di legno e bambù, con leggeri tramezzi che separano le camere.

Con una imbarcazione scavata nel tronco di un albero e munita di motore ogni mattina raggiungiamo altre isole, piccole lingue di sabbia corallina coperte da palmeti. Alcune disabitate, altre abitate da una sola famiglia, cui dobbiamo un dollaro per il permesso di sostare, bagnarsi e ammirare i coralli e i pesci colorati.

Durante questo soggiorno, a stretto contatto con la gente dell’isola, abbiamo tempo per capire che le cose stanno lentamente cambiando anche per i kuna.

Le paure (giustificate) del pastore Attilio

Ne abbiamo conferma parlando con Attilio, pastore della Iglesia de Christo che mi riceve nella sua chiesa, una tettoia con vista mare, con le panche e il leggio, accanto alla capanna della scuola biblica e al recinto dove grugniscono i maiali coi loro piccoli. Attilio è nato qui, 42 anni fa. Da ragazzino era rimasto affascinato dal racconto delle scritture fatto dai missionari americani giunti sull’isola. Nella loro tradizione religiosa, i kuna hanno sempre creduto in un unico Dio creatore e in un profeta inviato per annunciare la buona novella, per cui la parola del Vangelo venne accolta bene.

Era un ragazzo studioso e dopo le elementari fu mandato a Panamá a frequentare il liceo, poi in seminario per approfondire lo studio che più lo interessava. La sua chiesa lo inviò poi in alcune regioni del paese (Bocas del Toro, Chiriguì, Veraguas) per un periodo di formazione durato un anno e mezzo.

Da 19 anni Attilio regge questa parrocchia, abita una casa come le altre, una capanna con il tetto di paglia, dove si trovano il fornello e le amache per dormire. La moglie è una donna bella e gentile, di cui posso ammirare il lavoro preciso e raffinato del ricamo delle sue camicette, ben superiore come qualità ai pezzi che ho visto in vendita presso altre case del villaggio.

«I giovani non hanno più voglia di lavorare - ci spiega Attilio -. Un tempo le barche andavano solo a remi o a vela e gli uomini lavoravano la terra che abbiamo sulla costa, piantavano manioca, yucca, fagioli e banane. Oggi a lavorare sono rimasti solo i più anziani, tra i quali è comune il vizio dell’alcool». Attilio crede che molti si avvicinino alla chiesa solo per farsi aiutare, specialmente con i missionari battisti, arrivati da due anni dagli Usa con molto denaro. «Noi della Iglesia de Christo ci aiutiamo in caso di bisogno, ma io ci tengo ad avere fedeli con una fede sincera», insiste Attilio. Pare che anche la figura del sahila si sia sbiadita. Nessuno vuole avere la responsabilità che comporta la posizione di capo villaggio. «Abbiamo dovuto ripiegare su una persona di poco valore, che ama troppo bere e la vita comoda. D’altra parte nessuno voleva accettare l’incarico».

Oggi gli studenti migliori delle elementari sono mandati a studiare a Città di Panamá, dove trovano alloggio in casa di parenti, nelle periferie della capitale, pericolose per la delinquenza.

Passeggiando per la via Central, la più commerciale e animata, avevamo notato molte donne kuna in costume, con le braccia e le gambe fasciate da file di perline colorate, il fazzoletto rosso e giallo in capo e l’anello d’oro al naso. Vengono in città per comprare i tessuti per i loro «molas», ma anche per guadagnare qualcosa in più e mantenere i figli agli studi.

Anche Attilio ha due dei suoi 4 figli a Panamá e deve ammettere che il suo mondo, quello che ha sempre cercato di preservare e difendere, è destinato prima o poi a scomparire.

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