di Viviana Peretti da Otanche - Colombia
Mondo e Missione/Aprile 2007
Racconta la leggenda che la principessa Tena pianse per l’abbandono di un cacique e le sue lacrime si congelarono nelle montagne sotto forma di verdi smeraldi, pietre preziose che quotidianamente «stregano» migliaia di persone nel mondo. In Colombia, la sfortunata principessa ha fatto la fortuna della gente del Boyacà occidentale, una delle più belle e fertili regioni di questo strano Paese sudamericano. Nonché delle più ricche di «gocce verdi».
Da Bogotà si arriva ad Otanche dopo sei ore di jeep, due su una «comoda» provinciale, il resto su una pista sterrata che si snoda tra colline di banani e caffé. Otanche è famosa per il complesso smeraldifero di Coscuez, che da sempre compete con Muzo, altro centro boyacense i cui smeraldi sono apprezzati d esportati in tutti i mercati del mondo. Secondo Jean Claude Michelou, direttore dell’Associazione internazionale delle gemme colorate, «le miniere di Muzo e Coscuez producono il 45 per cento degli smeraldi presenti sul mercato mondiale». Tuttavia, attualmente, il settore conosce una profonda crisi e le esportazioni sono inaspettatamente crollate. Tra le molteplici ragioni, la principale è rappresentata dal fatto che molti commercianti colombiani sono soliti iniettare delle resine all’interno delle pietre, alfine di correggerne gli errori e aumentarne così il valore. Ma con il tempo gli smeraldi ritoccati svelano l’inganno... C’è da dire però che il mercato nero continua ancora a foraggiare abbondantemente il settore.
Il complesso minerario circonda il villaggio di Otanche e sfama le dodicimila anime che ci vivono. Quasi tutta l’economia legale della regione, infatti, ruota intorno all’estrazione delle pietre, che vengono successivamente tagliate e commercializzate a Bogotà. In parallelo, però, fiorisce anche la coltivazione della coca. Secondo le Nazioni Unite, nella regione ci sono 359 ettari seminati con la planta maldita. Il governo ha promesso incentivi ai campesinos affinché piantino cacao, ma sinora si è trattato solo di promesse.
Tutta la zona è controllata dai patrones, concessionari delle miniere che sostituiscono lo Stato su tutti i fronti. Con i loro eserciti privati garantiscono la sicurezza e per riciclare i dollari del narcotraffico costruiscono case, scuole, chiese e ambulatori... Qualunque problema d’ordine pubblico si gestisce come se fosse un affare privato. Dal 1946 lo Stato colombiano si limita solo a concedere gli appalti per lo sfruttamento delle miniere, senza esercitare nessun tipo d’autorità nella regione. Nel villaggio esiste una stazione di polizia, ma in giro non si vede neppure l’ombra di un poliziotto. Si vocifera che siano barricati nel commissariato.
I politici colombiani arrivano da queste parti solo in periodo d’elezioni. Vengono a stringere mani e a dare pacche sulle spalle. Arrivano in cerca di voti o, meglio ancora, a comprare voti. «Sbarcano e organizzano pranzi pubblici, macellando vacche nella piazza principale, affinché le persone si ricordino di loro nelle urne», racconta David, giovane minatore nato ad Otanche. E aggiunge: «Arrivano su fuoristrada tappezzati di manifesti e carichi di sacchi di riso e zucchero». Promettono alla gente d’investire in infrastrutture e ai pezzi grossi locali di continuare a chiudere un occhio sui loro traffici illegali. Ma solo nel secondo caso mantengono le promesse. Così questi signorotti continuano a spadroneggiare nell’assoluta latitanza di uno Stato che continua a definirsi la più antica democrazia latinoamericana.
Otanche è il feudo di Vìctor Carranza, conosciuto a livello internazionale come lo «zar degli smeraldi», e accusato dalla giustizia colombiana di paramilitarismo e sequestro estorsivo nella Costa Atlantica e negli Llanos, le immense pianure orientali al confine col Venezuela. Secondo l’accusa, tra il 1984 e il 1989, Carranza ha formato e finanziato gruppi paramilitari nelle regioni di Muzo e Coscuez. L’idea di don Vìctor, come lo chiamano i suoi uomini, era impedire all’estinto cartello della droga di Medellìn d’impadronirsi dei migliori giacimenti smeraldiferi del Paese. Pablo Escobar, infatti, aveva messo gli occhi sull’affare degli smeraldi per poter riciclare i dollari che provenivano dalla vendita della cocaina. Lo «zar» ha vinto la battaglia e nel 1990 è stato incluso nell’esclusiva lista di miliardari che pubblica la rivista Forbes, con una fortuna stimata in mille milioni di dollari.
Dal 1998 Carranza ha affrontato tre processi, dai quali è sempre uscito vittorioso. L’ultimo gli è costato tre anni di carcere ma, dopo un’estenuante battaglia giudiziaria, è stato assolto ancora una volta. Oggi vive nella zona e, oltre a frequentare le miniere di sua proprietà per scegliere le pietre migliori da vendere all’estero, si dedica alla promozione turistica della regione, organizzando, tra le altre cose, un concorso di bellezza che assegna l’altisonante titolo di Miss Esmeraldas. Ennesimo inno all’ipocrisia e alla frivolezza in un territorio dove il 72 per cento della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Triste primato uguagliato solo dalla regione più povera della Colombia: il Chocò, sulla costa pacifica.
Quando Carranza è alle prese con tribunali e centri penitenziari, a farne le veci è il suo luogotenente, don Darìo, un quarantenne molto disponibile che somiglia sfacciatamente a Pablo Escobar: stessa stazza, stesso sorriso assassino, stessi baffetti insignificanti e undici figli sparsi nella regione, oltre a una fedina penale che farebbe impallidire anche il killer più sanguinario. Ha in gestione alcune miniere e, in più, secondo molti, controlla la produzione ed esportazione della polvere bianca.
I «mammasantissima» e le loro guardie del corpo, detti pàjaros (picciotti), vanno in giro con tanto di pistola e due caricatori alla cintola. Nella zona tutti hanno il ferro (la rivoltella) e lo usano al calar delle tenebre. La colonna sonora di Otanche, infatti, non è la salsa come nel resto del Paese, bensì il rumore di spari e raffiche di mitra che profanano la pace notturna. Così può capitare di alzarsi all’alba e incontrare la proprietaria dell’albergo che toglie le macchie di sangue dalla soglia di casa. Lo fa come se spolverasse, con una naturalezza che lascia senza parole. Gli spari, però, non sono una prerogativa solo notturna. Spesso, infatti, jeep e Bmw blindati attraversano le polverose strade del villaggio, smuovendo l’afa pomeridiana con colpi in aria per celebrare l’arrivo a destinazione di un carico di cocaina. Se non fosse così verdeggiante e non mancassero stivali e speroni, potrebbe sembrare il Far West, con omaccioni cinti da cinturoni portati con falsa disinvoltura su pantaloncini da mercatino delle pulci e ciabatte da mare. Su tutti spicca per eleganza «EI Divino», un giovane che da anni gestisce diverse miniere e sfoggia i suoi gioielli anche in piscina. infatti, non è raro vederlo a bordo vasca, con addosso la fondina impermeabile, dove ripone la sua Browning con impugnatura di madreperla e due immancabili caricatori. Pare che abbia fatto fortuna come minatore. E uno dei pochi a poter raccontare il mistero e la magia d’iniziare come umile picconatore per poi trovarsi a gestire miniere e mercato della droga. La stessa parabola di Vìctor Carranza: inizi da minatore di Guateque, piccolo villaggio boyacense, per arrivare ad essere lo «zar degli smeraldi».
La maggior parte di coloro che scendono anche duemila metri sotto terra per dodici lunghe ore, alle prese con dinamite e temperature superiori ai quaranta gradi, sono i poveri, i tanti disperati figli del pueblo colombiano. Ciascuno sopporta, abbassa la testa e tira avanti come può nella speranza d’arrivare un giorno a incontrare la pietra che cambierà la propria sorte e quella della propria famiglia. Una famiglia spesso lontana, dalla quale si ritorna più spesso malati che vincitori. O che a volte vive nelle tante piccole baraccopoli che circondano le miniere, catapecchie sospese in aria sui pendii delle montagne. E così i figli finiscono col fare il lavoro dei padri, accarezzando il sogno che prima o poi arrivi la suerte, la fortuna, mentre le mogli si danno da fare, setacciando il materiale portato in superficie, nella speranza di recuperare qualche briciola verde, qualche morrallita, come vengono chiamate le lacrime di poco valore. Anche se può sembrare assurdo, per molti essere minatore è un privilegio e bisogna lottare per diventarlo. «Qui è molto difficile entrare e ci si riesce solo con la raccomandazione di un patròn, senza la quale è impossibile anche solo avvicinarsi a una miniera», spiega Agustìn Mendoza, mentre confessa che il suo incubo ricorrente è di perdere il lavoro.
A Otanche l’attività di scavo non s’interrompe mai e la montagna non sa cosa sia il riposo, così come non lo sanno i tanti minatori e guaqueros che s’alternano durante l’intera giornata, con turni dall’alba al tramonto e dal tramonto all’alba, in condizioni di lavoro estreme, con calore e umidità folli, respirando continuamente polvere. Quella maledetta polvere che s’attacca ai polmoni e li fa invecchiare rapidamente, quando non provoca la morte per tumore o silicosi.
Rolando è uno dei tanti sopravvissuti a questo destino di sofferenza e morte. Ha 28 anni e non appena maggiorenne ha deciso di lasciare la sua città natale, Chiquinquirà, a quattro ore dalle miniere, per tentare la sorte e magari rientrare da vincitore. E’ quasi scappato di casa inseguendo il sogno delle miniere e della ricchezza facile e veloce. Una volta a Otanche, però, si è scontrato con le dure condizioni di lavoro nelle miniere, con turni che sembravano non finire mai, con la stanchezza fisica e mentale e con l’assenza di prospettive. «Ho provato la fame e la disperazione di non poter mangiare nient’altro che pane e acqua zuccherata perché spesso, dopo dodici ore di lavoro, non avevo neppure tremila pesos (circa un euro - ndr) per un pasto», dice senza nostalgia. Si è scontrato anche con l’avidità degli appaltatori dei tunnel, ai quali vanno tutte le pietre estratte, se non si fa in tempo ad ingoiarle prima. Finché un giorno un’infezione gli ha provocato piaghe immonde che non si rimarginavano mai e per curarsi ha dovuto - provvidenzialmente - lasciare la vita da minatore... Oggi è avvocato: «Devo la vita alla malattia e ai miei che mi hanno riaccolto senza troppe domande», riconosce Rolando con un nodo in gola.
Secondo monsignor Luis Felipe Sànchez, vescovo di Chiquinquirà, «i contadini preferiscono lavorare anni nelle miniere, convinti che prima o poi diventeranno ricchi, invece di coltivare la terra fertile. E se si dedicano all’agricoltura in genere coltivano coca, perché i e tradizionali prodotti locali - arance e banane - permettono guadagni irrisori, mentre la coca rende molto di più». Negli anni Ottanta, l’apparente tranquillità della regione si è rotta. Mentre le miniere producevano a pieno ritmo, qualcosa che oggi è soltanto un ricordo, è scoppiato uno scontro tra faide senza precedenti, conosciuto come Guerra verde, che ha lasciato sul terreno 3.500 vittime. Le ritorsioni sono arrivate sino al mercato bogotano degli smeraldi, dove si sparava come sul set di un film western. La guerra è finita nel 1990 con un accordo di pace promosso dalla Chiesa e firmato da Carranza e altri leader degli smeraldi.
Una minaccia oggi è rappresentata dai guerriglieri delle Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (Farc), che da diversi anni cercano d’infiltrarsi nella regione per mettere le mani sul mercato delle pietre e sul più redditizio traffico della droga.
E’ come essere sempre in attesa che la polveriera sulla quale ci si trova seduti esploda.
I DIFFICILI SENTIERI DELLA LIBERTÀ
di Attilio Giordano
L’Ancora aprile 2007
Il rapimento e la liberazione del collega Daniele Mastrogiacomo è stato l’ultimo episodio che invita a riflettere su queste nuove guerre al terrorismo, ma pure sullo spaesamento dei giornalisti, sempre più stretti tra il dovere di raccontare quello che accade e il nuovo ruolo di merce di scambio.
Comprensibilmente, in seguito all’ennesimo rapimento - che in tutti noi evoca orrore e terrori - si riapre una questione apparentemente estranea: è giusto stare in Afghanistan con i nostri soldati? È giusto stare nelle altre venti e più missioni militari nel mondo? Nel confuso e ideologico dibattito in corso si dimenticano un paio di cose che chi ha visto l’Afghanistan dal vero sa benissimo.
La prima: l’Italia è a Kabul e a Herat con una missione che le Nazioni Unite hanno affidato alla Nato. L’Italia può uscirne solo teoricamente. O meglio: può uscirne praticamente, ma mettendo a repentaglio non i suoi rapporti con l’America, ma con le Nazioni Unite. Secondo: anche ammettendo - ed io lo credo - che i bombardamenti americani in Afghanistan siano stati dettati da ragioni diverse da quelle dichiarate, non si può scordare che a Kabul, fino al novembre 2001, c’era un regime molto vicino al terrorismo che fece crollare il World Trade Center e colpì altri obiettivi negli Stati Uniti.
Se Saddam Hussein non c’entrava affatto, ed è pacifico, non lo stesso si può dire dei Taliban che ospitavano Bin Laden. E comunque: se oggi le forze dell’Onu abbandonassero l’Afghanistan non verrebbero meno a un’arrogante invasione.
Semplicemente, lascerebbero quel Paese in mano a bande criminali e selvagge che ne farebbero un campo di battaglia.
La posizione bellicosa americana - e di parte della politica italiana - è assurda quanto quella strenuamente pacifista che ci vorrebbe fuori dalle regole dell’Onu e cinici rispetto alla sorte dei poveri afgani.
L’aspetto più fastidioso - magari mentre un collega rischia la vita - è proprio questo dell’approccio di parte della nostra politica: così indifferente e faziosa, così ignorante della realtà, aggrappata a strumenti ideologici vecchi e irritanti. Si può discutere di queste cose avendo mente solo a un governo da mettere in difficoltà o a elettori da accontentare nei loro sentimenti più irrazionali?
In Afghanistan la libertà non è l’addio degli occidentali. Perché prima, durante decenni di storia, lasciati liberi, gli afgani, quelli tra loro che hanno armi e fanatismo da vendere, gestivano una Società enormemente ingiusta, priva di pietà, dove si uccidevano le donne con poco più rispetto di quanto non se ne usasse per gli animali, dove l’istruzione equivaleva al peccato, dove i poveri erano miseri e i contadini miserrimi schiavi dei signori della guerra e del loro oppio. Non c’era molto di buono in quella società guastata già dai tempi dell’invasione sovietica, quando gli americani finanziavano i “gloriosi taliban” contro il nemico comunista.
In questo pantano, in un certo senso, l’errore americano (e tanti morti che ha determinato) è stato entrare in un meccanismo senza uscita: si possono - adesso - lasciare le cose come le si è trovate? Si può abbandonare tutto all’ingiustizia dopo aver sprecato fiumi di parole sulla democrazia importata? Il Grande Gioco dei grandi strateghi è andato a picchiare in qualcosa di ostile e sconosciuto, in nessun modo gestibile. Una trappola. Dentro, c’è finito anche un giornalista onesto che ha fatto il suo lavoro a dispetto di tante difficoltà, con il rischio della vita, ma pure di diventare un’arma impropria.
E due disgraziati afgani, con i quali ho passato un mese anch’io, interprete e autista, che avevo ereditato proprio da Daniele Mastrogiacomo.
RD CONGOIL’ANALISI DI PADRE MARTIN EKWA - TRE LEVE PER LO SVILUPPO
François Misser da Kinshasa
Nigrizia/Maggio 2007
Padre Martin Ekwa, vicino all’arcivescovo di Kisangani, mons. Laurent Monsengwo, è un gesuita che ha dedicato gran parte della sua lunga vita alla formazione spirituale e professionale della classe dirigente congolese. E lo ha fatto sempre con un ruolo di primo piano: responsabile dell’insegnamento cattolico dal 1960; dal 1984 alla testa del Centro cristiano d’azione per i dirigenti e i quadri d’impresa nella Repubblica democratica del Congo (Cadicec). Uomini politici, imprenditori, diplomatici e religiosi considerano questo ottuagenario, ancora in gamba, come un saggio e un osservatore accorto, benevolo ma anche esigente nei confronti della storia del paese e del suo sviluppo.
Sorprendentemente, relativizza la parola “crisi”. «Invece di parlare di crisi, mi chiedo se non si debba parlare di evoluzione, di tentativi infruttuosi», esordisce padre Ekwa, sottolineando che all’indipendenza (30 giugno 1960) c’erano ben pochi quadri dirigenti congolesi. Non c’era un solo medico o un avvocato. Lo stesso primo ministro del primo governo congolese, Patrice Lumumba, aveva fatto solo due anni di scuola secondaria superiore. E questo stato di cose non ha facilitato il rapporto con i belgi nella fase post-coloniale. Dopo l’assassinio di Lumumba, Mobutu Sese Seko, prima capo di stato maggiore dell’esercito e poi presidente, ha monopolizzato il potere per un trentennio. Mobutu ha potuto beneficiare di una grande indulgenza, sia all’interno che all’esterno del paese, essendo considerato, in piena guerra fredda, un bastione contro l’espansione del comunismo in Africa. «Io stesso ero d’accordo con questa impostazione», riconosce il gesuita.
Detto ciò, dall’indipendenza il paese ha vissuto un declino continuo. Sono stati formati dirigenti ma non imprenditori. Del resto, mancava l’idea stessa di impresa: padre Ekwa ricorda che il primo direttore della fabbrica di birra Bralima è stato un fattorino.
Nel 1972 arrivò la “zairizzazione”, voluta da Mobutu. Una scelta che comportò anche la nazionalizzazione delle imprese straniere e le cui conseguenze si fanno sentire anche oggi. Analizza Ekwa: «Non siamo stati saggi. Abbiamo detto ai belgi: “Andatevene. Siamo in grado di fare tutto da soli”. Non era così... Sono state messe a condurre le imprese persone con una formazione universitaria, ma prive del sostegno di qualcuno con un’esperienza consolidata. Il sistema politico era dittatoriale e anarchico, nel senso che nessuno comandava. Quello che contava non era la competenza, ma essere in buoni rapporti con i capi politici o appartenere alla loro etnia. Così il sistema si è avvitato su sé stesso».
E ancora: «Si è soffocata l’università per paura che potesse diventare un pericolo per il potere. A dirigerla sono state nominate solo persone fedeli a Mobutu. Perfino nell’università cattolica si è seguito questo criterio, come spiego nel libro L’École trahie (“La scuola tradita”, Cadicec, Kinshasa, 2004). Così Mobutu ha, di fatto, statalizzato tutto il sistema scolastico, lo stato si è dichiarato proprietario di ogni scuola e si è assunto il compito di nominare anche i direttori dei collegi. Più tardi, di fronte a una reazione dei genitori, sono sorte le scuole convenzionate. Ma c’è voluta una capacità di resistenza straordinaria per salvaguardare l’autonomia dei collegi cattolici. Da parte dei protestanti, la resistenza è stata più debole, ma bisogna dire che quest’ultimi erano attivi soprattutto in ambito ospedaliero».
Come spiega che Mobutu, che pure aveva studiato, non. avesse compreso che era un errore affidare la direzione di imprese a quadri senza esperienza?
Ci si può anche chiedere perché il Belgio abbia atteso così a lungo prima di dare un’adeguata formazione ai congolesi. Poi, quando si è deciso, l’ha fatto senza convinzione. E perché non c’erano contatti umani tra colonizzati e colonizzatori? A Kinshasa, dalle 18.00, nessun nero poteva attraversare il Boulevard 30 Giugno. Le due comunità erano del tutto separate.
Oggi gli imprenditori sembrano darle ragione, quando parlano di fallimento del sistema formativo-educativo. Si lamentano che molti giovani diplomati arrivano senza competenze sul mercato del lavoro. Ci sono stati molti “anni bianchi”, cioè con le scuole chiuse, e talvolta i professori per sopravvivere fanno commercio di diplomi...
È chiaro che in un sistema scolastico così malconcio solo i più brillanti se la possono cavare e uscire con qualche competenza. Però mi chiedo: dove sono le imprese che prendono i giovani e insegnano loro un mestiere? Questo paese ha 60 milioni di abitanti. Si è fortunati, se si trovano 100mila persone con una discreta formazione intellettuale. La massa è enorme e coloro che devono far da locomotiva sono pochi.
Gli uomini d’affari congolesi sembrano essere più commercianti che veri imprenditori che trasformano il prodotto. Manca un’etica del lavoro e del profitto. Com’è l’homo oeconomicus congolese?
I nostri avi non avevano idea di che cosa fosse un’impresa. E ciò è valido per l’insieme dei paesi africani. Anche oggi, il più delle volte, chi lavora ha la mentalità del funzionario, dell’impiegato, non è integrato nell’economia moderna. Certo poi bisogna anche interrogarsi sull’etica d’impresa di certi stranieri che sbarcano qui da noi.
Insisto. I congolesi sembrano non possedere il senso del risparmio. Ciò è dovuto al clima, al fatto che non c’è mai freddo e dunque non ci sono granai, come sostengono alcuni sociologi?
Non bisogna generalizzate. Sono originario della regione di Idiofa, a 140 km da Kikwit, e li ci sono i granai. E’ vero che la gente della foresta, per esempio, nell’Equateur, vive di raccolta e di caccia. Ma sono altre le questioni da prendere in considerazione. Abbiamo degli avvocati e dei medici intellettualmente preparati e brillanti che però, spesso, non sono in grado di gestire compiutamente un ufficio o un ambulatorio. Ecco: ci sarebbe bisogno di formazione in questo campo. Del resto, il paese è sempre stato fuori dai circuiti dell’economia moderna.
Non nascondo che questa situazione ci crea molti problemi. Guardiamo al sistema bancario. Dove sono le banche nell’Rd Congo? Dove sono i congolesi esperti di questo settore? Si dirà che lo stato deve mettere ordine, ma è un giro di parole. Da dove viene lo stato?
Tuttavia, sembra esserci un disordine tipicamente congolese, anche se l’Rd Congo non è stata la sola a essere colonizzata...
Ci sono storie diverse. Kenya e Nigeria, per esempio, hanno avuto contatti con l’Occidente ben prima di noi. L’Università MerleauPonty a Dakar è stata creata nel 1932, quella di Kinshasa nel 1954. I primi collaboratori delle piantagioni della Unilever (multinazionale anglo-olandese) sono stati nigeriani e ghaneani. In definitiva, tra belgi e congolesi non c’è ma stata una transizione, un passaggio di consegne. Ma può anche darsi che, all’indomani dell’indipendenza, se il Congo fosse stato diviso in sei paesi, oggi vivremmo una situazione molto migliore.
In ogni caso, ho fiducia nel futuro: abbiamo istituzioni legittime, espresse dal popolo, e questo è fantastico; al governo ci sono giovani e politici di lungo corso. La corruzione non mi preoccupa. L’importante è che, per esercitare il potere, si debba essere eletti e non nominati. Dopo queste elezioni, c’è stato chi ha ricevuto una bella lezione di umiltà.
Le elezioni hanno visto emergere nuove personalità, ma ancora molti dei soliti noti gestiscono Io stato. Com’è possibile fare una nuova politica in queste condizioni?
Mobutu ha preso il potere trentenne. Oggi il presidente Kabila e Kamitatu, uno dei ministri di punta, hanno più o meno quell’età. Nello stesso tempo, ci sono sulla scena uomini che hanno una certa esperienza nell’ambito delle attività economiche, gli stessi che negli anni ‘90 contestarono a Mobutu la sua gestione dello stato e dell’economia. E c’è, è vero, un primo ministro, Antoine Gizenga, un po’ avanti con gli anni. Ma sulla sua onestà e capacità sono pronto a scommettere.
LAICITÀ NELL’ISLAM
di Mostafa EI Ayoubi
Giornalista
Nigrizia/Aprile 2007
In una realtà multiculturale, multietnica e multireligiosa come quella europea, la laicità occupa una posizione centrale nel dibattito politico e culturale. Ma laicità è una nozione che si presta a interpretazioni diverse e, a volte, anche approssimative. Spesso si fa confusione tra laicità e laicismo: la prima fa riferimento alla separazione tra la sfera religiosa e quella politica; il secondo è una forma di ideologia che nega alla religione una sua importante funzione socio-culturale.
Nell’odierna Europa, la distinzione tra il politico e il religioso, tra il razionale e il dogmatico, tra lo stato e la chiesa, è più che mai fondamentale per garantire la realizzazione di un modello di società equa e solidale in cui lo stato laico svolge un ruolo di “facilitatore” dei rapporti tra i diversi gruppi sociali che condividono lo spazio pubblico e di “vigile” nell’assicurare uguali diritti e doveri per tutti i suoi cittadini, senza distinzione di genere, di religione e di cultura.
In Italia vivono 3,5 milioni di immigrati, che costituiscono ormai diverse minoranze religiose e culturali. Ciononostante, pare che nell’ambito del mondo politico non si abbia la consapevolezza che la laicità sia un elemento determinante per costruire una società plurale rispettosa delle varie tradizioni religiose. La laicità dello stato viene sbandierata solo quando un sikh pretende di non portare il casco per guidare il motorino, perché usa il turbante (considerato un simbolo religioso), o quando una donna musulmana pretende d’indossare il burka per strada. Ma quando si tratta di disparità di trattamento tra cittadini che professano fedi diverse — ricordiamo che il rapporto tra lo stato e le minoranze religiose fa riferimento alla legge del 1929 sui culti ammessi —, la bandiera della laicità viene spesso abbassata.
Ovviamente, la laicità rimane una questione aperta non solo per lo stato italiano, ma anche per le minoranze religiose, che, a nome della laicità, rivendicano il diritto di professare liberamente la loro fede, a volte in maniera pretestuosa, come nei casi del sikh e della musulmana sopraindicati.
Che rapporto hanno, ad esempio, i musulmani che vivono in Europa con il principio della laicità? Cosa pensano circa la separazione tra la sfera religiosa e quella politica?
Spesso viene chiesto ai musulmani: «Com’è che voi venite in Europa a rivendicare la laicità dello stato, mentre da voi non vi è una separazione tra stato e chiesa?». A questa domanda — posta male — molti rispondono in modo errato: «Noi siamo laici, perché non abbiamo né chiesa né clero».
Per cercare di decifrare il rapporto che i musulmani hanno con la laicità, bisogna tornare indietro nella storia. I primi contatti risalgono all’epoca del colonialismo: attraverso la colonizzazione dei paesi islamici il concetto della laicità entrò nel dibattito islamico e fu recepito come un modello mediante il quale gli occidentali intendevano delegittimare l’islam. In seguito, nel periodo post-indipendenza, il riferimento a un certo tipo di secolarizzazione e laicità non fu un’esperienza fondamentalmente democratica. In paesi come la Turchia, la Siria, l’Iraq e la Tunisia, l’organizzazione del potere era basata sulla separazione della sfera politica da quella religiosa. Eppure, l’esperienza dell’applicazione della laicità in questi paesi islamici non ha portato alla loro democratizzazione. Di conseguenza, nell’immaginario collettivo islamico prevale una rappresentazione negativa del concetto di laicità. Ciò vale anche per molti immigrati musulmani di prima generazione che oggi vivono in Occidente.
Ad ogni modo, l’approccio alla laicità cambia da una realtà islamica a un’altra: vi sono musulmani che la rifiutano, altri che si adattano e altri che, in un ambito secolarizzato, cercano di rileggere le proprie fonti religiose e interpretarle in un contesto laico.
Tra i più ostili alla laicità vi sono i salafìti, una corrente fondamentalista che non fa nessuna distinzione tra religione e stato. Il loro approccio al Corano è esclusivamente letteralista: «Siate obbedienti a Dio, al suo profeta e a coloro, tra di voi, che hanno autorità». I più rappresentativi di questa corrente sono i wahabiti (Arabia Saudita), che, in sostanza, dicono che non si fa politica e non si contesta un potere islamico.
Vi è un altro movimento salafìta che cerca di ricavare dalla religione tutto ciò che è politico. Sono i jihadisti: per loro il Corano è la fonte di organizzazione del potere politico e, quindi, non ci può essere una distinzione tra la sfera religiosa e quella politica.
Nell’ambito delle realtà riformiste islamiche, la laicità è generalmente accettata. Molti dicono che per vivere in un contesto politico e culturale che impone la laicità bisogna “conformarsi” attraverso una rilettura del Corano e della Sunna (consuetudine, modo di comportarsi, regola di interpretazione e di comportamento che i musulmani traggono dalle tradizioni relative a Maometto). Tuttavia, l’affacciarsi sulla scena socio-politica europea di musulmani di terza e quarta generazione sembra favorire la nascita di una nuova scuola di pensiero riformista, che vuole interagire con la laicità non in maniera passiva (cioè adattandosi), ma costruendo un dialogo critico dinamico di fecondazione reciproca. Ciò potrebbe favorire la nascita di un islam europeo, che riconosca alla laicità il suo valore e la sua importanza.
I risultati ufficiali del referendum costituzionale del 26 marzo dicono che i “sì” hanno ottenuto il 75,9% e che ha votato il 27,1% degli aventi diritto. Dato, questo secondo, contestato da molti osservatori e da due importanti organizzazioni non governative, che hanno parlato di una partecipazione al voto non superiore al 5% dell’elettorato.
Tutto è stato fatto molto in fretta. È del dicembre scorso il primo annuncio da parte del presidente Hosni Mubarak dell’intenzione di riformare la costituzione del 1971. È seguito un breve dibattito in parlamento, boicottato dalle opposizioni. Una settimana dopo la chiusura del dibattito, si è andati a votare. A nulla sono valse le proteste e le manifestazioni di molti cittadini, né la cauta presa di distanza del Dipartimento di stato americano. Il rais ha preferito incassare quanto prima la garanzia di poter governare con poteri sempre più forti, senza più contravvenire alla costituzione.
Mubarak ha giustificato il suo progetto — e la sua fretta — parlando dell’assoluta necessità di «favorire la partecipazione popolare» e di «porre fine a ogni riferimento all’era “socialista”», di nasseriana memoria, già morta e sepolta da tempo.
La verità è che, con i 34 articoli modificati, è stata ridisegnata la mappa del potere, con nuovi ed estesi limiti alle libertà politiche e civili. È stata, innanzitutto, introdotta la proibizione di qualunque partito e di qualunque attività politica a contenuto religioso. Inoltre, solo i partiti politici con almeno il 3% dei seggi in parlamento hanno il diritto di esprimere un proprio candidato alla presidenza della repubblica. Due disposizioni unanimemente lette come misure contro i Fratelli Musulmani, la più radicata forza politica e il maggior schieramento di opposizione in parlamento (con 88 candidati indipendenti, sparsi nei diversi partiti). In pratica, i Fratelli non potranno mai avere quel riconoscimento ufficiale che aspettano da decenni; in particolare, non potranno avanzare una loro candidatura alla presidenza, quando il rais deciderà di andare in pensione. Le presidenziali sono nel 2011, ma non è scontato che Mubarak (79 anni), al potere dal 1981, esca di scena.
In ogni caso, non si ripeterà più il caso (avvertito dal regime come “scandalo”) di giudici che, nel corso di scrutini elettorali, osano denunciare irregolarità: una delle modifiche apportate al testo costituzionale trasferisce il compito di sorvegliare la regolarità delle operazioni di voto dai giudici a una commissione indipendente, nominata dal governo.
Nella storia egiziana, le elezioni non sono mai state trasparenti. D’ora in poi, la loro “opacità”, ai fini di perpetuare il regime, è assicurata. E questo attenua di molto la portata degli emendamenti che trasferiscono una modesta parte dei poteri del presidente al primo ministro e alle due camere del parlamento. In mancanza di trasparenza, in caso di elezione, tutto si risolverà in una ridistribuzione di funzioni all’interno del medesimo sistema di potere.
L’aspetto più preoccupante della riforma è la sospensione di alcune garanzie individuali e l’estensione dei poteri del presidente in caso di minacce di terrorismo (art. 179). Il rais potrà deferire a tribunali (anche militari) qualunque civile sospettato di questo crimine. Come già in buona parte dei paesi occidentali, anche in Egitto la lotta al terrorismo diventa il grimaldello con cui scardinare le libertà individuali. Libertà che già godono una pessima salute nel paese, anche grazie allo stato di emergenza che Mubarak mantiene ininterrottamente dal 1981.
Dunque, si prevedono ulteriori giri di vite e, forse, la trasformazione dell’Egitto in uno stato di polizia.
Vita Pastorale n. 2 2007
La civiltà europea è in declino e ne nasce un’altra. Fiorisce un nuovo mondo cui gli Europei diventano estranei. Qual è la ragione di questa crisi che sembra inarrestabile e pare destinata a cancellare una civiltà e una cultura durate almeno tremila anni?
Anzitutto, declina l’etica che aveva guidato gli Europei nel lungo itinerario della loro storia, ma è in crisi anche la giustizia, insieme a un diritto che ha orientato la storia del mondo almeno dai tempi di Giustiniano. Ma l’Europa mostra la sua crisi anche attraverso la diffusione capillare della pornografia e di altri fattori di disgregazione sociale, come la crisi della famiglia e l’impoverimento psicologico e ideale delle classi giovanili. Tutto questo e legato al tramonto di un’immagine del mondo a cominciare dall’identità cristiana che si trasferisce in altri continenti. La scuola non aiuta a rispondere a queste sfide e si trasforma in una specie di sistema di diseducazione obbligatoria. Insomma, non prepara i ragazzi alla vita, mentre l’università contribuisce al collasso dell’identità europea.
Ma assistiamo anche alla crisi dell’identità economica, al tramonto dell’imprenditorialità e del binomio religione e sviluppo, mentre un massiccio flusso migratorio – d’altronde necessario – favorisce la perdita di identità. Contribuiscono anche il consumismo, il declino dei sindacati, la diffusione della cultura del rifiuto del lavoro e delle ferie. La politica coagula e gestisce il declino perchè l’Europa usa una politica antica inadatta a un mondo così diverso; inoltre la cosiddetta cultura progressista non - esiste quasi più. Ma l’Europa - declina anche perché logorata da altri fattori che la distinguono dal passato: i media;il rumore assordante da cui è dominata giorno e notte, la nuova immagine della morte, la nuova moda, l’artificio di una cultura lontana dall’individuo medio. Di qui una sorta di auto-genocidio, espressione anche del declino delle natalità e della diffusione di una marea di anziani che preparano il collasso o forse la fine dell’Europa. Ma come fare per superare tutto questo?
Anzitutto sarebbe necessario accelerare l’unificazione economica e politica, per rendere compatta un’economia che sarebbe ancora ,la maggiore del pianeta; bisognerebbe dare un colpo d’ala alla natalità, perché senza natalità è difficile che si abbiano sviluppo e conservazione dell’identità europea. E’ anche necessario un sistema di valori e di ideali che garantirono il primato dell’Europa per molti secoli. E’ anche necessario orientare la produzione industriale a livelli tecnologici e di qualità più elevati e riformare radicalmente la scuola. Ma come può un’Europa senza valori, laici o religiosi, senza identità, raccogliere la sfida del resto del mondo, visto che la civiltà europea ha avuto, come le altre, una nascita, una gioventù, una maturità, dopo di che è appassita e forse sta morendo? E’ possibile che sia vicina l’ora della nostra scomparsa dallo scenario mondiale o forse l’Europa può dare vita a un’altra civiltà diversa da quella che sta morendo? Per l’Europa è ormai la ventiquattresima ora, ma possiamo ancora salvarci prendendo coscienza della catastrofe che ci minaccia.
Lei ha dato a un suo libro di molti anni fa il titolo L’eclissi del sacro nella società industriale,e ora intitola questo ultimo libro, L’eclissi dell’Europa. Perché?
“Credo che quell’eclissi dei valori, della religione, dei principi morali su cui si reggeva l’Europa abbia preparato questa eclissi. Di qui, l’analogia nel titolo.
Ma queste due considerazioni sono abbastanza generiche. In pratica, in concreto, quali sono i fattori che secondo lei provocano questa grande eclissi dell’identità europea?
“L’Europa è stata per secoli il centro del mondo. Gli europei avevano dei grandi ideali e le diverse regioni dell’Europa, allora dette Stati nazionali, hanno dato vita alle grandi rivoluzioni culturali, alla nascita delle nuove civiltà, come ad esempio è accaduto con la fine dell’impero romano e l’avvento del cristianesimo, con il Rinascimento, con la rivoluzione liberale e la rivoluzione industriale. In seguito, la crisi morale e soprattutto due guerre mondiali hanno messo in crisi l’Europa. Mi pare fosse lord Mountbatten che, firmando l’indipendenza dell’India, disse: “Questa è la fine del primato dell’uomo bianco”. Difatti, in pochi decenni, sono spariti gli imperi coloniali che avevano permesso all’Europa di dominare il mondo».
Ma in concreto?
«In concreto le guerre, il progresso tecnico-scientifico si sono accompagnati alla crisi della scuola, a quella del cristianesimo che in questi ultimi decenni è emigrato fuori dell’Europa, un continente ormai scettico, edonista, senza ideali, impegnato nel vivere il suo piccolo mondo giorno dopo giorno».
Le conseguenze di tutto questo?
“Questo continente di spensierati edonisti, forse condotti su nuovi sentieri della vita delle grandi guerre, ha visto il collasso della famiglia, la crisi della natalità, e si è visto, quindi, travolto dall’impeto delle più giovani generazioni di Paesi come l’India e la Cina. In questo periodo, mentre la presenza demografica del nostro continente declina, anche il primato economico viene messo in crisi dal trasferirsi in Asia del centro del mondo”.
Che è accaduto dei valori un tempo dominanti in questo continente?
«Le chiese, un tempo affollate, si sono svuotate. Si è verificata quella che molti chiamano la rivoluzione pornografica, che ha visto la penetrazione capillare della pornografia nella società e nella cultura europea. Parlo della famosa pornonotte che vede nudi femminili, e ultimamente anche maschili, e legioni di lesbiche esibirsi in una miriade di televisioni, trasformando lentamente, anche da questo punto di vista, la società europea. Inoltre, il consumismo capillare, che consente d’altronde il funzionamento del sistema, perché chi guadagna consuma e permette al sistema di produrre, distrugge il complesso dei valori, trasformando gli europei in pigri consumatori di beni, servizi, messaggi culturali, ecc. Come ha detto a suo tempo Oscar Wilde: “Noi ormai conosciamo il prezzo di tutto e il valore di niente”».
In conclusione?
«Stiamo dunque assistendo alla drammatica eclissi di una civiltà, di un popolo, di quel popolo europeo che è stato il principale artefice della storia del mondo. Oggi l’Europa è un continente in declino, assediato da decine di milioni di individui che probabilmente, dato che tra l’altro ne abbiamo bisogno, finiranno per travolgerci».
La sua visione è catastrofica. Ma c’è qualche speranza?
“Nel mio libro alla fine faccio alcune considerazioni, su cui non mi soffermo, che danno un profilo di quello che gli europei dovrebbero fare per ritrovare se stessi, per ridare all’Europa il primato perduto persino nel mondo scientifico. Infatti non dimentichiamo che un secolo fa i premi Nobel erano quasi tutti europei e ora quasi nessuno. Dobbiamo dunque, ripensare la maniera di vivere. di lavorare. di dare un significato alla vita. E’ un’impresa quasi impossibile, ma io ho ancora qualche speranza e per questa ragione, parlo di eclissi e non di fine. Mi sostiene l’ottimismo della volontà pur nel pessimismo della ragione”.
Poligamia, questione aperta
di Mostafa El Ayoubi
Nigrizia marzo 2007
Ogni volta che si parla del diritto alla libertà di culto per i musulmani in Italia, scatta l’allarme poligamia. Ed è quello che è avvenuto, puntualmente, all’inizio di quest’anno, quando la Commissione affari costituzionali ha iniziato una serie di audizioni con esperti ed esponenti delle comunità di fedi, per sentire il loro parere sulla proposta di legge Boato-Spini, sulla libertà religiosa. Gli scettici dicono che questa legge, se venisse approvata, favorirebbe la diffusione della poligamia: i musulmani che vivono nel nostro paese potrebbero, grazie a essa, ricorrere al matrimonio religioso invece che a quello civile. E siccome quello islamico consente la poligamia, un musulmano, anche in Italia, potrebbe avere quattro mogli, cosa assolutamente inammissibile.
I media spesso riportano dichiarazioni di esperti e di uomini politici che affermano che i musulmani rivendicano, in nome della libertà religiosa, il diritto di essere poligami e invitano quindi lo stato alla prudenza e a non dispensare diritti religiosi e a stipulare facili Intese. Tuttavia, bisogna riconoscere, a prescindere dal caso islam, che in Italia ci si basa ancora sulla legge “facciata” del 1929/30, relativa ai “culti ammessi”, per regolamentare le attività culturali delle minoranze religiose. Una legge obsoleta, che non tiene conto del radicale cambiamento dell’assetto culturale e religioso del paese dove convivono comunità di fedi di origine immigrata diverse (induisti, buddhisti, sikh, ortodossi, bahai, etc); una legge quadro, quindi, è diventata indispensabile per i nuovi cittadini, che potranno praticare liberamente le loro fedi, nel rispetto della legge, ovviamente.
In Italia la poligamia è vietata, questo lo sanno molto bene anche i musulmani. Infatti, nelle bozze d’Intesa, presentate in passato da alcune organizzazioni islamiche (Ucoii e Coreis), non vi è alcun accenno a questa prassi.
Ora, al di là dell’uso strumentale che si fa di tale questione, rimane il fatto che il matrimonio poligamico è una realtà che non può essere sottaciuta da chi pratica la fede islamica. Cosa pensano realmente i musulmani che vivono in Italia della poligamia? Quando si dice, «Noi non rivendichiamo il diritto alla poligamia», significa un semplice adeguarsi alla legge oppure si è ormai convinti che si tratti di una prassi che discrimina le donne e come tale vada abolita?
Polemiche ideologiche sterili a parte, il dibattito aperto sulla questione poligamia è comunque salutare per la comunità islamica, che ha il dovere di interrogare la propria tradizione religiosa e reinterpretare le sue fonti per rendere giustizia al mondo femminile, oggi fortemente discriminato.
Lo spirito della norma sulla poligamia, quando fu istituita più di 1.400 anni fa, fu quello di fornire una soluzione etica, pratica e umana per le vedove e gli orfani in seguito a eventi imprevisti che la comunità deve affrontare, come ad esempio la guerra. Ciò spiega perché il versetto che parla della poligamia fu rivelato subito dopo la battaglia di Uhud, scatenata dai potenti della Mecca contro la nascente comunità islamica, durante la quale molti musulmani persero la vita, lasciando nel bisogno moglie e figli.
Il matrimonio poligamico, tuttavia, è vincolato da condizioni chiare: la donna non può essere obbligata a diventare la seconda moglie; la prima moglie che non accetta la poligamia ha il diritto di chiedere il divorzio.
Ciò nonostante, l’approccio letterale agli insegnamenti del Corano, adottato dai teologi in alcune culture islamiche conservatrici (per esempio, il divieto di guidare la macchina per le donne in Arabia Saudita), riflette l’influenza di alcune culture tradizionaliste conservatrici e non corrisponde allo spirito delle norme religiose.
È vero che la religione interviene nei modelli che regolano i rapporti uomini-donne. Ma è altresì vero che essa evolve anche in funzione di questi rapporti. Ovvero, i dogmi religiosi s’interpretano e si vivono in funzione dei rapporti uomo-donna.
I musulmani devono aprire una riflessione seria sul concetto di poligamia e sulla questione femminile nell’islam. Tra di loro c’è ancora chi ritiene che la poligamia sia un dogma immutabile. Nonostante il radicale cambiamento sociale e culturale delle società islamiche, ancora oggi l’uomo, in teoria, può sposare quattro mogli (salvo in alcuni paesi islamici) e può anche ripudiarle a suo piacimento. Ciò avviene, ahimè, anche in Europa, dove si verificano regolarmente casi di matrimoni non conformi alle leggi in vigore ed episodi di ripudio da parte del marito, consentiti paradossalmente dallo stato.
In Francia, ad esempio, sono previste convenzioni con l’Algeria (1964) e il Marocco (1981) in materia di matrimonio, per le quali un matrimonio tra coppie marocchine o algerine, anche se vivono stabilmente in Francia, è regolato da leggi dei loro paesi di origine, cosicché un algerino che vuole divorziare va in Algeria, ripudia la moglie, consegna il certificato di divorzio alle autorità competenti francesi e il gioco è fatto!
Quindi, forse, è anche il caso che l’Europa s’interroghi su tali questioni e dia delle risposte che tengano conto delle pari opportunità e della tutela della donna ed evitare di barattare i loro diritti in cambio di concessioni economiche e geopolitiche.
CHI COMANDA IN INTERNET?
di GianMarco Schiesaro
MC febbraio 2007
Il mito dell’anarchia di internet
È alquanto strano pensare che internet debba essere, in qualche modo, «governata». Per molto tempo ci è stato presentato il modello di una rete decentrata, un insieme di nodi privi di un centro e di una periferia. Ma l'idea di un'internet egalitaria nella struttura, capace di sfuggire a controlli e pressioni esterne, non è che un mito. In realtà, internet è gestita in modo tutt’altro che anarchico e si sta rivelando sempre di più il terreno di scontro di grossi interessi di potere.
Sono ormai all’ordine del giorno gli episodi di censura di moltissimi governi autoritari del Sud del mondo, così come le velate ingerenze di molte democrazie occidentali. Anche in seguito a questi attacchi, è cresciuta la voglia di costruire una forma di auto-governo della rete, capace di eludere queste minacce. Una sorta di potere della società civile telematica, incaricato del compito di fare della Rete uno spazio privo di confini nazionali.
Già oggi l’articolazione mondiale di internet non è un territorio in balia di se stesso e privo di controllo: vi sono diversi organismi che, ciascuno con compiti distinti, ne controllano il funzionamento. Quest’ultimo si esplica in almeno tre campi fondamentali: il possesso delle infrastrutture, il controllo tecnico- amministrativo e quello politico - economico. Nel caso delle infrastrutture, ormai la distribuzione è avvenuta sull’intero territorio mondiale (anche se non equamente, come sappiamo); mentre, nel caso del controllo tecnico-amministrativo, le questioni in gioco non sono realmente vitali. Diverso, e gravido di conseguenze, è il caso del controllo politico-economico, che si realizza nella gestione dei domini sul web.
Il dominio è alla base stessa del funzionamento della Rete: si tratta di un semplice indirizzo elettronico, che identifica un gruppo di computer collegati in rete. Un territorio virtuale ma carico di connotazioni proprie dei territori reali: un dominio ha la possibilità di essere identificato con un indirizzo e di vedersi attribuito un valore economico e politico. Non è indifferente possedere un nome di dominio piuttosto che un altro: alcuni domini permettono di sviluppare attività economiche e di fungere da riferimento per attività sociali, altri invece scompaiono rapidamente nella grande massa di domini esistenti. Da tempo i domini sul web scarseggiano e molte nuove imprese possono rimanere escluse per l’impossibilità di sfruttare indirizzi facilmente individuabili. Per comprendere, invece, la grande valenza politica del nome di dominio, si pensi alle polemiche generate, qualche anno fa, dalla decisione di assegnare il suffisso .ps, ai siti della Palestina, assegnando così ai territori occupati un’indipendenza nel cyberspazio che ancora non avevano ottenuto nel mondo fisico.
Tutto il potere di «Icann»
Chi gestisce la struttura di indirizzamento di internet detiene un formidabile potere sull’economia e sulle risorse strategiche mondiali. Icann (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers) è l'istituzione che presiede alla registrazione dei domini, ed è il custode unico della tecnologia che consente il collegamento fra un indirizzo web e il sito ad esso appartenente. Icann può essere paragonata a una torre di controllo virtuale, in grado di indirizzare i computer, indicando loro la strada da percorrere per raggiungere una determinata pagina web. Naturalmente, se smettesse di funzionare, si precipiterebbe in una situazione simile a quella di un aeroporto la cui torre di controllo avesse spento i radar. Chi detiene il controllo di quei codici possiede, insomma, un potere di vita o di morte sull’intera Rete: non è poco per un ente nato da pochi anni e di cui molti ignorano perfino l’esistenza.
Icann, che nacque con la pretesa di essere pienamente rappresentativa di tutti i centri di interesse e degli utenti internet, allo stato attuale non offre garanzie di democraticità. Con sede nella California, formalmente operante per contratto con il governo americano, sottoposta a una amministrazione burocratica e composta da membri fortemente condizionati da poche grandi aziende, non ha finora garantito alcuna trasparenza sulle sue decisioni, assunte quasi esclusivamente a porte chiuse.
Nel 2000 Icann accettò di indire le prime elezioni mondiali di internet, aperte a tutti gli utenti della Rete, con lo scopo di eleggere i membri del proprio Consiglio direttivo. In Africa, Asia e Sud America la vittoria spettò a tre candidati proposti dalla stessa Icann, mentre in Europa e nell'America del Nord, dove il dibattito attorno a quelle elezioni fu meno blindato, si affermarono due candidati di «opposizione». La sola presenza di due consiglieri particolarmente critici verso il gruppo dirigente di Icann fu sufficiente perché il processo democratico venisse annullato e fossero ufficialmente cancellati i seggi di rappresentanza concessi alla società civile. La decisione suscitò ovviamente un vespaio di proteste mentre le dimissioni del presidente Icann, nel giugno 2002, gettavano l'istituzione nel caos più completo.
Nelle mani degli Stati Uniti
Oggi, dopo una lunga stasi, la comunità internazionale è tornata a discutere del futuro di Icann, tentando di disegnare un futuro un po' più roseo per la democrazia nella rete. Il governo statunitense, preoccupato per il riaccendersi del dibattito, si è posto in posizione di attacco e, per tutto il 2006, si sono moltiplicate minacce e ammonimenti, da parte di suoi esponenti, «a togliere le mani da Icann, parte integrante degli interessi nazionali statunitensi». Per contro, un gruppo di paesi influenti, tra cui Brasile, Sud Africa, India e Cina stanno premendo per assegnare le delicate competenze di Icann a un organismo super partes, ad esempio le Nazioni Unite (in particolare l'Unione Internazionale delle Telecomunicazioni). Questa soluzione, tuttavia, non convince molti, soprattutto in Europa. Da una parte ci sono dubbi fondati circa il fatto che un’istituzione dell’Onu possa essere più snella e meno burocratica dell'attuale Icann. Dall’altra vi è il timore che i governi nazionali possano prendere il sopravvento nella gestione di una risorsa che, finora, avevano potuto controllare soltanto parzialmente. A tutti appare più che evidente il tentativo, da parte della Cina, di impadronirsi della stanza dei bottoni, che le consentirebbe una censura ancor più rigida e capillare della propria rete internet.
PER UNA TECNOLOGIA DAL VOLTO UMANO
di GianMarco Schiesaro
MC Febbraio 2007
Gli indios ashaninka vivono in una regione remota dello stato di Acre (Brasile), ai confini con il Perù. Per loro è il canto a scandire l’esistenza, accompagnato da strumenti rudimentali come flauti di canna e tamburi di pelle. La loro vita quotidiana si snoda lontano dai riflettori della modernità e scorre sui binari tranquilli della tradizione: pochi sarebbero disposti a scommettere che questo popolo sperduto possa nutrire il benché minimo interesse nei confronti delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. La realtà, tuttavia, non cessa di riservare sorprese: gli ashaninka hanno inciso un Cd e hanno diffuso la loro musica proprio su internet, vendendo online la loro realizzazione. E così un altro popolo, tra quelli fino a questo momento relegati ai margini della cosiddetta civiltà, ha fatto il proprio ingresso nella società dell’informazione.
Questa commistione di tradizione e modernità non deve stupire: internet sembra rappresentare un luogo di incontro privilegiato tra gli indios e le associazioni che tutelano le culture indigene. Per rendersene conto è sufficiente visitare il portale «Native Web» (www.nativeweb.org), un ricco canale di accesso alle risorse in rete dedicate alle culture indigene.
Se l’episodio degli indios ashaninka è tutto sommato marginale, circoscritto com’è a un ambito un po’ atipico e a una fascia di popolazione limitata, altrettanto non si può dire del progetto Global Forest Watch (www.globalforestwatch.org), che si ripromette addirittura di monitorare le risorse forestali del mondo intero.
Global Forest Watch, creato dal «World Resources Institute», è una rete mondiale di gruppi forestali locali, in contatto tra di loro grazie ad internet ed equipaggiati con strumenti software avanzati. La grafica satellitare si unisce a una raccolta dettagliata di dati sul campo, con l’obiettivo di confrontare le attuali pratiche forestali con gli standard stabiliti dalle organizzazioni internazionali.
Questi ed altri sistemi di telerilevamento, via satellite e via internet, consentono di fare l’inventario delle risorse terrestri, di prevedere i raccolti e di migliorare l’utilizzo dei terreni nei paesi in via di sviluppo, magari anticipando i segni premonitori di cataclismi naturali.
SE LA SALUTE VIAGGIA SU INTERNET
È confortante sapere che le tecnologie possano influire sui processi di inclusione sociale o fronteggiare i guasti ecologici sempre in agguato. Lo sviluppo umano è però una realtà più vasta e complessa. Per cominciare, si potrebbe obiettare che esistono bisogni ben più urgenti: la salute, per esempio.
Per la maggior parte degli operatori sanitari dei paesi del Sud l’accesso all’informazione è un problema: i testi per la formazione sono spesso antiquati e l’informazione sui farmaci più recenti o sui trattamenti preventivi è limitata. I medici si sentono isolati perché non hanno la possibilità di chiedere un consulto nell’emettere la loro diagnosi.
La rete satellitare HealthNet (www.healthnet.org), creata nel 1989, offre servizi e strumenti a circa 4.000 operatori sanitari in più di 30 paesi del mondo. Un esempio ci può aiutare a comprendere di quali servizi si tratta.
In un remoto villaggio dell’Africa equatoriale alcune infermiere adoperano una telecamera digitale per acquisire le immagini di alcuni alimenti, scaricarle su un computer portatile e portarle da un medico affinché le esamini. Nel caso in cui questi debba valutarle ulteriormente, può spedirle via internet in Gran Bretagna, dove vengono sottoposte allo studio di specialisti di tutto il mondo. Oggi un software di compressione permette di ridurre enormemente un’immagine a raggi X senza perdita di informazione, e di spedirla senza difficoltà attraverso qualsiasi rete esistente di telecomunicazioni.
Qualche interrogativo comincia timidamente ad affacciarsi. È saggio spendere tante risorse per una struttura vasta e imponente quale HealthNet? «L’Africa non ha bisogno di tecnologie sofisticate» sostiene Maria Musoke, esperta di informazione medica in un progetto ugandese. Maria ha ottenuto ottimi risultati, nella prevenzione della mortalità infantile, grazie all’uso di semplici walkie-talkie. La telemedicina - sostiene Maria - è un’applicazione dal grande potenziale, ma i costi attuali ne fanno uno strumento irrealistico. Per spezzare l’isolamento dei medici africani, il vero problema di questo continente, basterebbe un semplice computer, dotato di una connessione internet e collocato nella maggior parte dei centri sanitari.
LA «GRAAMEN PHONE»: PICCOLO È BELLO
I progetti faraonici di grandi reti continentali, le immagini patinate di giovani africani intenti a navigare in internet compiacciono certamente i governi, i diplomatici e gli editori di riviste di massa. Sono però di dubbia utilità per la popolazione locale. L’autentico successo arride più frequentemente ai progetti di piccole dimensioni, fondati su tecnologie accessibili e facilmente replicabili. «Piccolo è bello», scriveva Schumacher qualche decennio fa, ma la sua lezione è valida ancora oggi.
Dopo l’assegnazione del premio Nobel per la pace 2006 a Muhammed Yunus, inventore del microcredito, tutti conoscono la sua creatura: la Graamen Bank, la «banca dei poveri». Meno conosciuta, probabilmente, è la sorella Graamen Phone, la «compagnia telefonica dei poveri», che ha esteso il modello del microcredito alla telefonia rurale del Bangladesh. Beneficiario, in questo caso, è un imprenditore locale, solitamente una donna, cui viene prestato il denaro per acquistare un telefono cellulare, destinato ad essere utilizzato dai suoi compaesani. La domanda di questo servizio di comunicazione è davvero elevata. Sappiamo che, a causa della debolezza del mercato del lavoro locale, molti sono costretti a emigrare e i telefoni costituiscono un prezioso canale per mantenere legami sociali e familiari, oltre che per garantire il flusso delle rimesse verso le famiglie.
Non è tutto: per comprare e vendere i beni prodotti sono necessari frequenti viaggi verso i mercati delle località centrali di una regione. Il servizio telefonico permette a molti di consultare i propri contatti nelle città e di ottenere da loro le informazioni relative ai prezzi di mercato, rompendo il monopolio dell’informazione che appartiene ai mediatori e riducendo i rischi di sfruttamento. Le chiamate telefoniche possono sostituire un viaggio in città, che ai contadini costerebbe dieci volte più di una chiamata, e li aiutano a ottenere prezzi più equi per i loro raccolti.
L’esempio ci insegna che non sempre le tecnologie migliori sono le più avanzate o quelle di ultima generazione. Saper integrare antico e moderno, facendo coesistere vecchie e nuove tecnologie, è uno degli ingredienti fondamentali di una iniziativa di successo.
CARA, VECCHIA RADIO
Nella comunità di Kothmale, un’area di ben 350.000 persone dello Sri Lanka, si è realizzata un’originale fusione del mezzo radiofonico con quello telematico. La «Kothmale Community Radio» (www.kothmale.org) trasmette quotidianamente un programma di un’ora, basato sulle semplici domande degli ascoltatori, cui si provvede a dare risposta con l’aiuto di internet. A questo scopo, è stato anche implementato un database contenente le informazioni più richieste; mentre alcuni punti di accesso internet comunitari vengono utilizzati come portali per effettuare trasmissioni dal vivo dall’interno della comunità.
La «radio comunitaria» ha una storia molto lunga: essa è stata impiegata per raggiungere fasce di popolazione ampie, soprattutto quelle non alfabetizzate o quelle che vivono in aree con scarse infrastrutture. Il vantaggio delle radio è quello di avere un costo alquanto basso e di essere disponibili anche quando manca l’energia elettrica, per esempio alimentate da batterie solari.
È un peccato che esperienze simili a quella di Kothmale non si siano replicate in gran numero nel continente africano, dove la radio è lo strumento di gran lunga più utilizzato e la telefonia mobile è ben più che una promessa, grazie a una configurazione geografica favorevole (i cellulari privilegiano i territori pianeggianti) e al carattere di oralità della cultura africana.
Questi esempi gettano una luce nuova sul rapporto controverso tra nuove tecnologie e paesi in via di sviluppo. Troppo spesso il nostro immaginario si è nutrito di immagini deformate: pensiamo alle raffigurazioni di villaggi in cui un personal computer, che spunta nel mezzo delle capanne, viene venerato da un gruppo di indigeni straniti, che non ne capisce la funzione. Si potrebbero aggiungere molti altri stereotipi simili a questo: essi hanno purtroppo grande peso nella pubblicistica, ma scarso riscontro nella realtà.
«VENDO CAPRE»: SU INTERNET
Qualche anno fa, un esperto della Banca mondiale si è recato in Etiopia per parlare di e-business e ha esordito dicendo: «Immagino che nessuno di voi sappia che cosa sia un sito internet». Un tale ha alzato la mano e a sorpresa ha replicato: «Io lo so. Vendo capre su internet... Ci sono molti tassisti etiopi a Chicago, New York e Washington. La tradizione vuole che regalino delle capre alle loro famiglie rimaste in Etiopia e così io gliele vendo da un cybercaffè...».
Questo aneddoto, tratto da un gustoso libro di Sergio Carbone e Maurizio Guandalini (intitolato appunto Vendo capre su Internet) serve a smentire un luogo comune tra i più radicati: che le comunità povere delle aree rurali abbiano bisogni «primitivi» e che le loro società siano autosufficienti e chiuse. Al contrario, nella maggioranza dei casi, sono popolate di piccoli imprenditori e di cooperative locali, che hanno bisogno di informazioni sullo stato del mercato, sui prezzi correnti e sulla previsione di domanda per i loro prodotti e servizi: dai prodotti agricoli all’artigianato, dalle risorse naturali al turismo. C’è bisogno di frequentare i mercati per accaparrarsi potenziali clienti, di comunicare con altri partner per concludere accordi, organizzare i trasporti, ecc… Senza dimenticare che, affinché delle imprese concorrenziali si possano sviluppare nelle zone rurali, è necessario accedere ai servizi governativi e disporre di informazioni in merito alle imposte e alle sovvenzioni. Privi di conoscenze rilevanti e della capacità di comunicazione necessaria per analizzarle e condividerle, i piccoli produttori rischiano di rimanere alla mercé del mercato mondiale.
Se volessimo ricavare una lezione, potremmo sintetizzarla così: i poveri non hanno strettamente bisogno di computer, ma di informazione. Un’informazione che abbia senso per la loro vita quotidiana e che, grazie anche a tecnologie semplici e accessibili, li renda capaci di gestire autonomamente i propri processi di sviluppo. Sapranno ricordarsene i tecnocrati dello sviluppo?
MENO GIGANTISMO, PIÙ FIDUCIA E CONTATTO
Contare sullo sviluppo umano comporta avere fiducia nelle capacità delle comunità. Richiede tempo e pazienza, spesso in contrasto con l’immediatezza e il «bruciare le tappe» tipiche della società dell’informazione; richiede analisi e comprensione, che si acquisiscono con l’esperienza e il contatto diretto, più che quello mediato dallo strumento tecnologico.
Purtroppo questa consapevolezza non è per nulla diffusa nella comunità internazionale che, con una disinvoltura ormai eccessiva, si rivolge a internet e alle tecnologie dell’informazione nel tentativo di caricare di significato progetti di sviluppo altrimenti poco significativi, in una qualsiasi realtà del Sud del mondo.
Dalle «cittadelle digitali» pianificate nei ghetti di Soweto e nell’isola di Mauritius ai «villaggi solari» (così chiamati perché dotati di computer alimentati da energia solare) realizzati in Honduras, la visione dominante nella comunità internazionale è affetta da gigantismo. Si ritiene che un programma tecnologico debba necessariamente funzionare su larga scala, raggiungendo decine di migliaia di comunità rurali, superando l’orbita limitata dei programmi di sviluppo convenzionali. E naturalmente, protagoniste di tali programmi sono quasi sempre le grandi multinazionali tecnologiche, le uniche che dispongano dei mezzi per erogare servizi a migliaia di utenti contemporaneamente. Perché - è la domanda ricorrente - non incoraggiarle a fornire esse stesse i beni di consumo e i servizi di base, secondo i bisogni e il budget delle comunità povere?
Il ragionamento spiana la strada all'ingresso in massa del mondo del business, invitato a percorrere una nuova eccitante missione: quella di trasformare gradualmente (a volte in maniera diretta e a volte in partnership con i governi o le reti di Ong) i poveri in «clienti», destinati come tali a pagare servizi finalizzati (almeno teoricamente) a migliorare la qualità della loro vita e ad aumentare la produttività delle loro attività.
Questo tipo di interventi è di solito condito da una fastidiosa dose di retorica e da un'assoluta mancanza di senso critico, frequente ogni volta che ci si riferisce a internet. Il senso di ottimismo, uno sviluppo fatto piovere dall’alto e la convinzione di neutralità della tecnologia non sono certo le premesse migliori per sviluppare una riflessione matura. In un’epoca in cui alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione si è giunti ad attribuire un valore quasi salvifico, ci si chiede se abbia ancora senso discutere le finalità che dovrebbero guidare il loro impiego e l’impatto prodotto sulle fasce più deboli della popolazione.
Opportunità e pericoli per l'«homo technologicus»
di Paolo MoviolaDossier MC febbraio 2007
Qualche settimana fa, ho ricevuto dall’Angola, via posta elettronica, un video del dottor Nando Campanella, il medico che a suo tempo vinse il nostro «Premio Carlo Urbani» e che oggi lavora in Africa per l’Organizzazione mondiale della sanità (http://www.afro.who.int/). Nando è un esperto di telemedicina e, ovunque vada a lavorare, cerca di coniugare le sue conoscenze mediche con quelle tecnologiche. L’e-mail è uno strumento che ha rivoluzionato il modo di comunicare, abbattendo le distanze e il tempo (ma quasi sempre anche la poesia). Personalmente, non riesco più a fare a meno, anche perché la posta elettronica è ormai diventata indispensabile per il mio lavoro. Tuttavia, vivo senza telefonino. Una cosa, questa, talmente inusuale che, quando lo confesso, nessuno mi crede.
Verso le nuove tecnologie ho un rapporto di accettazione, ma allo stesso tempo di sospetto. Ad esempio, in quanto ambientalista (convinto), mi infastidisce molto vedere i prodotti tecnologici durare sempre meno, non tanto perché non funzionino più quanto perché vengono superati da altri più aggiornati e di cui - come ci fanno credere pubblicità martellanti ed invadenti - sembra non si possa fare a meno. Purtroppo, computer, telefonini, videoregistratori, televisori, stampanti e quant’altro si trasformano in rifiuti altamente inquinanti e di difficile smaltimento. In media, in Europa ogni cittadino produce 20 (venti!) chilogrammi di spazzatura elettronica all’anno. La direttiva europea (http://europa.eu/) sui «Rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche» (Raee), in inglese Waste from electrical and electronic equipment (Weee), non sembra essere adeguata all’entità del problema. Gli europei (con gli italiani nelle primissime posizioni) cambiano il proprio cellulare in media ogni 15 mesi. Quanti di essi sanno che i telefonini contengono cassiterite e tantalio (coltan) e che, per avere questi metalli, nella martoriata Repubblica del Congo si combatte, si sfrutta, si commette ogni genere di violenza?
Quando si viaggia nel Sud del mondo si incontrano sempre più spesso internet cafè. Dunque, la tecnologia arriva veramente ovunque? Lascio la risposta a Geneviève Makaping, antropologa del Camerun, che al Convegno di Mani Tese (http://www.manitese.it) ha tristemente sintetizzato la situazione: «In Africa i miei nipotini hanno il telefonino ma nessuno li chiama. Hanno la parabola satellitare ma la usano per scegliere il paese in cui emigrare. Le ragazze vanno nei tanti internet cafè per contattare uomini che le portino in Europa, dove finiscono sulle strade a prostituirsi». Quella della professoressa Makaping è una provocazione, anche se non troppo lontana dalla realtà. Vale la pena di ricordare che l’analisi svolta da The Economist (http://www.economist.com), la bibbia del capitalismo mondiale, sulle nuove tecnologie informatiche e della comunicazione nei paesi poveri arrivava a questa conclusione: «Un computer non serve se non hai cibo, non hai elettricità e non sai leggere. (...) La telefonia mobile è la tecnologia con il più grande impatto sullo sviluppo» (10 marzo 2005).
Altro problema delle nuove tecnologie è la loro invasività. Oggi si diffondono i microchip polifunzionali che si impiantano sotto pelle (come il Rfid, Radio frequency identification, che identifica automaticamente e a distanza persone, animali e oggetti). E domani che sarà? Ecco perché sono d’accordo con le preoccupazioni espresse dal professor Umberto Galimberti («Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica», Feltrinelli 2000): «Non c’è più nessuno che sia in grado di controllare la tecnica, ma è la tecnica a divorare gli uomini, compresi quelli che hanno il potere di immettere nel circuito le informazioni. Essi infatti devono tener conto dei gusti degli utenti e questi gusti a loro volta sono indotti dal mezzo. Insomma nel conflitto tra uomo e macchina perde sempre l’uomo».
Un altro filosofo, il francese Jean Baudrillard, non vede affatto bene questa invasione della tecnologia: «La peculiarità dell’essere vivente è di non arrivare al limite delle sue possibilità, mentre l’oggetto tecnico fa il contrario: esaurisce le sue possibilità e le dispiega a dispetto di tutto, anche dell’uomo, determinando più o meno a lungo termine la sua scomparsa. (...) Non c’è analogia più bella, per illustrare questo passaggio all’egemonico, della fotografia diventata digitale, liberata nello stesso tempo dal negativo e dal mondo reale. I due passaggi, naturalmente su scale diverse, hanno conseguenze incalcolabili. Significano la fine di una presenza singolare dell’oggetto, visto che può essere costruito digitalmente. Fine del momento singolare dell’atto fotografico, perché l’immagine può essere immediatamente cancellata o ricomposta. Fine della testimonianza irrefutabile del negativo».
Ogni fine anno Time, il noto settimanale Usa (http://www.time.com), sceglie il personaggio che, a suo dire, più ha segnato l’anno appena concluso.
La copertina dell’ultimo numero del 2006 raffigurava un computer a schermo piatto su cui si riflette l’immagine del lettore, perché «L’uomo dell’anno sei tu. Sì, sei proprio tu. Tu controlli l’era dell’informazione. Benvenuto nel tuo mondo». Insomma, l’anonimo utente di internet sarebbe il cuore della «nuova democrazia digitale». L’enfasi di Time arrivava a tal punto da titolare un articolo: Power To The People, Potere al popolo. Ironia della sorte, proprio nei giorni dell’uscita di questo numero si scopriva che i servizi segreti degli Stati Uniti potranno mettere il naso nelle e-mail e nelle transazioni delle carte di credito dei passeggeri europei che vanno negli Stati Uniti. Ad ulteriore conferma dell’ambiguità delle nuove tecnologie e della pericolosità di una loro adozione acritica.
Non è certo, infine, se la scelta del settimanale Time sia stata completamente autonoma o piuttosto influenzata da interessi commerciali. Questo è forse il punto centrale della questione: dove finisce l’utilità di una nuova tecnologia e dove inizia il consumismo ingiustificabile e insostenibile?