Torino, terzo mondo
di Gad Lerner
da Nigrizia gennaio 2008
Scrivo sotto l'impressione del mio incontro con gli operai dell'acciaieria ThyssenKrupp di Torino, colpiti da un incidente sul lavoro che gli ha portato via quattro colleghi (e altri tre stanno lottando per sopravvivere). Un incidente che nessuno potrà mai addebitare a fatalità, dopo le loro testimonianze sull'incuria, il lassismo e la rinuncia a una seria attività di manutenzione e prevenzione. Già, perché lo stabilimento torinese di corso Regina Margherita era destinato a prossima chiusura, essendo stato raggiunto un accordo che concentra a Terni le attività italiane della multinazionale.
Voi mi potreste chiedere: «E cosa c'entra la nostra rivista Nigrizia con la tragedia degli operai di Torino?». Vi risponderei: c'entra, eccome, perché quella che fu la capitale della classe operaia italiana ha percepito sulla sua pelle nel dicembre 2007 cosa voglia dire essere trattati da Terzo mondo.
Lo stabilimento sta per essere smantellato? E allora, perché .bisognerebbe dedicare soldi e lavoro alla sua manutenzione? Tanto gli operai che ci lavorano non sono mica i "nostri", si trovano all'estero rispetto alla casa madre della multinazionale (Dusseldorf, Germania). Un trattamento "asiatico", mi viene da dire. Occhio non vede, cuore non duole. Man mano che ci si allontana dalla sede centrale, viene considerato naturale che si allenti la vigilanza sulle condizioni di lavoro e la correttezza delle relazioni sindacali.
Solo che, di solito, questo lo tolleriamo perché riguarda lavoratori africani, cinesi, indiani, vietnamiti... Stavolta è toccato ai torinesi, facendoci piangere al fianco delle loro famiglie. Gente di una dignità straordinaria. Volti e storie di un'Italia retrocessa e umiliata dalla falsa idea di una società luccicante in cui l'acciaio, certo, serve. Ma tanto lo facciamo produrre a debita distanza.
Naturalmente, la dignità e la rabbia degli operai italiani della ThyssenKrupp non sono diverse da quelle dei loro omologhi dagli occhi a mandorla o dalla pelle scura che lavorano per stipendi nettamente inferiori e senza uno straccio di protezione antinfortunistica. Ma, si sa, il relativismo lo si combatte solo quando ci fa comodo.
Con il risultato che ora succede l'esatto contrario: anche gli operai italiani tendenzialmente diventano Terzo mondo. Le loro buste paga non crescono da anni. Gli infortuni sul lavoro aumentano. La fatica fisica viene accettata come destino d'infelicità.
FRONTIERE SENZA PACE KIVU, LA PROVINCIA INSTABILE
di Francesco Meneghetti
da Italia Caritas dicembre 2007/gennaio 2008
Le guerre nella Repubblica democratica del Congo hanno causato, nell'ultimo decennio, 4 milioni di morti. Ma la lunga transizione e le elezioni della seconda metà 2006 hanno diffuso la pace in quasi tutto il paese. Anche il golpe tentato a marzo dall' ex capo ribelle Jean-Pierre Bemba è un ricordo lontano. Democrazia e sviluppo del paese guidato dal presidente Joseph Kabila sono sostenuti a livello internazionale dai governi dei paesi avanzati (accordi per investimenti economici e commerciali) e dall'Onu (la missione cui Monuc contribuisce alla transazione verso l'unità nazionale, monitorando la restituzione delle armi da parte della popolazione e dei gruppi ribelli, l'inserimento sociale degli ex bambini e adulti soldato, l'integrazione dei miliziani nell'esercito regolare).
L'unica delle undici province congolesi in cui si vivono ancora forti tensioni è il Nord-Kivu, anticamente indipendente, ricchissima di risorse minerarie e molto fertile, con una composizione etnica e un'organizzazione socio-economica molto simile a quella del piccolo e limitrofo Ruanda, col quale le relazioni politiche e commerciali sono forti. Nel Nord - Kivu da qualche mese si assiste nuovamente a combattimenti pesanti tra i circa 5 mila miliziani fedeli al generale dissidente e filo ruandese Laurent Nkunda e l'esercito regolare (Fardc), che ha dispiegato circa 30 mila militari con il sostegno logistico dell'Onu. Indipendentemente dalle ragioni politiche, la presenza di militari nei villaggi provoca insicurezza tra la popolazione: abbandono dei campi, estorsioni di alimentari e animali, violenze sessuali su ragazze e arruolamento forzato di ragazzini. Circa quest'ultimo tema - prioritario per l'azione di Caritas Italiana in Africa - il rappresentante speciale per i conflitti armati dell'Onu, signora Radhika Coomaraswamy, riferisce che sono già centinaia i bambini arruolati e presto potrebbero diventare migliaia. Intanto i campi profughi di Mugugna, Rutshuru e Kiwanga e quelli in Uganda contano decine di migliaia di nuovi sfollati interni, assistiti anche da Caritas.
Omicidi di carattere etnico
Il quadro del conflitto è complesso e mutevole. Difficile fare previsioni, a causa delle controverse alleanze internazionali e locali. Per esempio si registra nuovamente l'attivismo militare di gruppi armati stranieri (tra essi il Fdlr, Forze democratiche di liberazione del Ruanda), mentre il 27 ottobre si è arreso ai caschi blu Onu Kibamba Kasereka, capo delle forze patriottiche Mayi Mayi (partigiani filo-Kinshasa, tornati protagonisti dei combattimenti contro le milizie di Nkunda). I segnali positivi e negativi si alternano: oggi fonti ufficiali segnalano la deposizione delle armi e il processo di integrazione di centinaia di ribelli di Nkunda, domani l'arruolamento di altrettanti uomini e bambini.
Intanto i fatti di cronaca locale a Goma, capoluogo del Kivu, fanno registrare un' escalation di omicidi di carattere etnico ai danni di persone con ruoli sociali ed economici di rilievo (compreso, sembra, il tentato omicidio ai danni del vescovo, monsignor Faustin Ngabu, a fine ottobre) e il diffuso brigantaggio notturno, che impone ogni sera il coprifuoco alle 18. Si teme inoltre che l'ingente ingresso di armi pesanti, via terra e via aerea, contribuisca a inasprire il conflitto. Non va dimenticato che il Nord-Kivu rappresenta una zona cuscinetto di fondamentale importanza per il vicino e popolatissimo Ruanda, che guarda al Kivu per le sue risorse minerarie e alimentari, oltre che come sbocco residenziale per la sua popolazione. La pace, in Congo, rimane una missione impossibile?
Le esistenze che si perdono nel "mare asciutto" della Libia
di Francesco Spagnolo
da Italia Caritas – dicembre 2007/gennaio 2008
Per l'Italia, la Libia è generalmente intesa come l'altra sponda di uno stesso mare, il "casello d'ingresso" di un flusso immigratorio costante e incontrollabile, che ha nelle nostre coste il punto di arrivo. Nelle parole di monsignor Giovanni Martinelli, vescovo di Tripoli, la Libia torna invece ad essere descritta con una luce diversa. Forse perché il vescovo in quella terra c'è pure nato...
Monsignor Martinelli descrive una Libia che è molto di più di quello che normalmente si conosce. A partire dal suo ruolo di importante partner commerciale per l'Italia, tramite la presenza della compagnia petrolifera Eni. Ma apre uno squarcio anche sui fenomeni di oggi: immigrazione incontrollata da altri paesi e droga tra i giovani, problemi simili a quelli che deve affrontare un paese sviluppato.
La Chiesa cattolica libica, anche tramite la sua Caritas, è impegnata in questi due ambiti con altrettanti progetti. Lavora sul problema della tossicodipendenza tra i giovani, in crescita negli ultimi armi per via di una certa agiatezza delle ultime generazioni, che spesso sconfina nella noia. L’obiettivo, in questo caso, è far prendere coscienza alla società libica di questa realtà, per poterla prevenire.
L’altro progetto riguarda la questione dell'accoglienza dei tanti immigrati che, provenienti dall'Africa subsahariana, passano le frontiere libiche. Frontiere, a dire il vero, invisibili, ben marcate solo sulle carte geografiche, ma che nella realtà del deserto del Sahara hanno la definitezza che possono avere le dune di sabbia. Un "mare asciutto", in cui non si sa bene quanti congolesi, eritrei o nigeriani sono morti, nel tentativo di arrivare nelle città o sulle coste libiche, per cercare un lavoro o una sistemazione, oppure (ma non necessariamente) per proseguire il viaggio verso l'Europa.
Statistiche precise purtroppo non esistono, anche a causa dell' atteggiamento del governo libico, che su questo argomento tende a essere elusivo. Si sa comunque che in Libia molti immigrati (principalmente pakistani e filippini) arrivano come regolari per lavorare. Altri invece rimangono clandestini, più o meno tollerati dalle autorità locali, che chiudono un occhio se la presenza rimane discreta e non pone problemi di ordine pubblico.
Convertirsi a un amore
È con questi, soprattutto, che la Chiesa cattolica lavora, insieme agli operatori di altre confessioni religiose, soprattutto delle chiese protestanti, nell'offrire accoglienza e uno sbocco regolare. Si opera innanzitutto cercando di insegnare un lavoro ai clandestini, che in alcuni casi tendono o a stabilirsi in tibia o a tornare nei paesi d'origine, se le condizioni lo permettono. «L’immigrazione è una preoccupazione che sta nel mio cuore e desidero che anche la Chiesa Italiana sia attenta a questa realtà, per la quale comunque fa già tanto - dichiara monsignore Martinelli -. Mi auguro che dall'Italia si guardi alla Libia in positivo, perché quello che già c'è di buono possa crescere, attraverso le cooperazioni economiche, ma anche tramite piccoli segni di amicizia e solidarietà».
Ma tutto questo come si intreccia con il tema del dialogo tra le religioni, che in un paese arabo e musulmano come la tibia è all' ordine del giorno? Monsignor Martinelli spiega di una presenza cristiana, e cattolica in particolare, assolutamente minoritaria nel paese nordafricano, il quale tuttavia è anche esente da forme religiose integraIiste. Anzi, a livello di istituzioni pubbliche e spirituali il dialogo con le piccole chiese cristiane è cercato e incentivato, soprattutto per quanto riguarda un certo confronto dottrinale e la collaborazione concreta su alcuni problemi comuni. «Guardo con una certa positività - conclude il vescovo - il popolo libico. Nello spiegare la mia presenza in quel territorio a maggioranza musulmana, richiamo sempre l'immagine dell'incontro di San Francesco con il sultano. Vorrei sempre vivere questa dimensione di apertura, di amicizia, di convivialità con il mondo arabo, perché più che il convertirci a una fede, conta il convertirci tutti a un amore. Ecco, dovremmo essere capaci di aiutare anche la Libia a crescere in questa testimonianza dell'amore».
L’Africa che non arriva al miraggio d’oltremare
di Umberto Fabris
da Italia Caritas – dicembre 2007/gennaio 2008
Tamanrasset è una città di recente costruzione, dominata dal massiccio dell'Hoggar, che incombe su di essa con i suoi fiabeschi paesaggi lunari di deserto di pietra. Nel 1966 contava meno di tremila abitanti, oggi ne ha quasi centomila. È città commerciale e meta irresistibile per i turisti. È soprattutto un punto di incontro, nel sud dell'Algeria, delle piste che arrivano da Mali e Niger: qui si dà appuntamento l'Africa del Sahel, nell'attesa e nella speranza che si apra una porta verso il nord. Poco visibili, migliaia di camerunesi e malesi, congolesi e ivoriani, sopravvivono trovando rifugio nelle rocce vicino alla città algerina. Il deserto è attraversato e vinto, l'Europa sembra più vicina e a portata di mano.
Molti dei migranti sperano in un lavoro che permetta poi di proseguire il viaggio verso la frontiera marocchina seguendo l'asse sud-nord (cioè passando per Algeri, via In Salah e Ghardaia) o il meno frequentato sud-nord-ovest (attraverso Orano, passando per Adrar e Béchar). Poi, una volta in Marocco, non resta che attraversare lo stretto di Gibilterra.
Questi sventurati cominciano a esistere per i governi e l'opinione pubblica europei quando sbarcano sulle coste italiane o spagnole, o quando i loro "barconi della morte" spariscono nel mare; prima, però, uomini e donne e bambini affrontano autentici itinerari della disperazione, percorsi irti di ostacoli e di difficoltà inenarrabili, in cui il sogno si trasforma spesso in fallimento, in incubo, in tragedia.
Una trentina di nazionalità
Quando giungono in Algeria, hanno già percorso migliaia e migliaia di chilometri e attraversato fino a otto paesi diversi via terra, utilizzando vari mezzi di trasporto: barca o piroga, autobus, taxi, camion. Gli itinerari variano a seconda del paese di provenienza, ma tutte le strade, prima di entrare nel grande paese del Maghreb, convergono verso due città: Gao in Mali e Arlit in Niger. Da qui il passaggio verso Tamanrasset.
I viaggi durano da un minimo di quindici giorni a più anni, e non è solo la distanza a determinarne la durata: l'elemento decisivo è quello economico. Sono rari i casi di chi parte con i mezzi sufficienti per coprire la distanza in una sola volta, e quando si viaggia in famiglia le cose si complicano ancora di più. Il popolo dei migranti subsahariani convoglia in Algeria una trentina di nazionalità: i più numerosi sono nigerini, maliani, camerunesi, nigeriani. Ma quanti sono? Difficile dirlo: le stime ufficiali sono approssimative e di accesso pressoché impossibile, anche se il fenomeno è sempre più oggetto di studio. Secondo il Cisp (Comitato internazionale per lo sviluppo dei popoli), ong che lavora in Algeria dal 1996 a un progetto in questo settore, sarebbero più di centomila all'anno le persone che arrivano nel Maghreb dai paesi a sud del Sahara. Il vecchio continente rimane l'eldorado, ma le frontiere europee sono sempre più invalicabili e tanti emigrati finiscono per scegliere di rimanere in Algeria, che non è più soltanto uno scalo (così come a est Libia e Tunisia e a ovest le Isole Canarie) in direzione Marocco e poi Spagna. Sono i giovani sotto i 30 anni che non rinunciano alla traversata del Mediterraneo, mentre le incognite e i rischi del viaggio dissuadono i più adulti, che spesso hanno con sé moglie e figli.
Nei confronti dei migranti, poco a poco si è operato un cambiamento di attitudine da parte delle autorità algerine, passate da una sorta di passività poco amica a una repressione poliziesca più o meno dura a seconda del periodo. Il cambiamento non è estraneo alle ferme sollecitazioni dell'Unione europea, che sembra decisa a fare dei paesi del Maghreb il terreno di repressione di ogni tentativo di passaggio dall'altra parte del Mediterraneo. Così il flusso migratorio risulta ulteriormente rallentato, a causa dei controlli più severi, e ciò spinge a cercare sempre nuove piste clandestine, meno esposte, ma più pericolose e costose. Anche rastrellamenti e rimpatri forzati sono sempre più frequenti: per i migranti che raggiungono Algeri, spesso dopo diversi mesi dal loro arrivo nel paese, è aumentato sensibilmente il rischio di essere rimandati al punto di partenza.
Il rallentamento del flusso migratorio, inoltre, lo rende più visibile e concorre a dare l'impressione di un aumento del numero dei migranti clandestini subsahariani in transito. Tale quadro può essere applicato, con qualche distinzione, anche agli altri paesi del Maghreb, che si sono poco a poco trasformati in paesi di immigrazione. Tutto ciò aggrava le difficoltà della popolazione migrante: sfruttamento dei pochi uomini che trovano un lavoro per sopravvivere; precario stato di salute fisico e molte volte psichico; ricorso a espedienti e illeciti per garantirsi la sopravvivenza (traffici e falsificazioni di documenti e biglietti, prostituzione, spaccio e consumo di droghe, ecc); gravi difficoltà di integrazione con la popolazione locale a causa di relazioni spesso conflittuali e atteggiamenti razzisti.
Il desiderio di rientrare
Tra coloro che si occupano dei migranti, ci sono anche la chiesa protestante e la chiesa cattolica (in essa la Caritas) algerine, che hanno dato vita all'associazione ecumenica Rencontre et Developpement ("Incontro e sviluppo"), presieduta da un Padre bianco olandese, Jan Heuft, con presidenti onorari monsignor Henri Teissier, arcivescovo di Algeri, e il reverendo Hugh Johnson, pastore delle Chiese protestanti d'Algeria. L’obiettivo dell'associazione è aiutare i molti clandestini che arrivano con mille bisogni, talvolta in condizioni fisiche o con situazioni familiari compromesse, che richiedono interventi tempestivi. Un giovane padre bianco italiano, Paolo Maccario, per conto dell'associazione ha realizzato nel 2003 un rapporto-inchiesta sulle migrazioni clandestine subsahariane attraverso l'Algeria. Si è trattato di una prima base di studio di un fenomeno la cui evoluzione va verso l'aggravamento. “All'origine - vi si legge - ci sono fattori di ordine economico, legati alla povertà, e di ordine politico, legati ai conflitti armati interetnici, alle persecuzioni etniche e religiose. (..) Il sistema dei visti per accedere in Europa e la creazione dello spazio Schengen hanno contribuito allo sviluppo di organizzazioni migratorie clandestine, soprattutto in Algeria e Marocco. Esse rappresentano ormai, per i candidati all' emigrazione, la sola possibilità di realizzare il loro progetto”.
A Tamanrasset molti migranti incrociano i Piccoli Fratelli di Gesù, minuscola presenza cristiana stabile, composta da una comunità di religiose e una manciata di laici, che vegliano sui luoghi dove visse e morì Charles de Foucauld. Martine, Piccola Sorella del Sacro Cuore, racconta di incontri quotidiani, in un clima che sembra di permanente emergenza: «Continuiamo a incontrare persone che arrivano dal sud: alcuni prendono coscienza di essere stati truffati da reti di "passatori" nei loro paesi di origine, arrivano da noi perché non sanno più come andare avanti. Soprattutto, continuiamo a incrociare quelli che sono rispediti indietro. Magari dopo essere stati in prigione per anni in Marocco o in Algeria, o essere stati abbandonati al confine con il Mali, alla frontiera di Tinzaouaten, che ha reputazione di inferno: alcuni, che non sanno dove andare e non hanno i soldi per tornare a Tamanrasset, disperati saltano sui camion, a volte a prezzo della vita. Quelli che hanno i soldi viaggiano in 25 in media su una jeep, sfidando le piste clandestine e gli imbrogli dell'autista. A volte cadono dalle macchine e devono farsi a piedi fino a trenta chilometri, prima di arrivare qui.. .».
A Tamanrasset, l'incubo dei migranti continua. Le condizioni di vita sono di estrema insicurezza. La prima, grande paura è farsi prendere dalla polizia: così ci si rende sempre più invisibili. «Basta che nei rifugi sul limitare del deserto uno di loro gridi nella notte, per paura di un animale - prosegue Sorella Martine -, che tutti fuggono allarmati, credendo che arrivi la polizia, e molti si feriscono sulle pietre. A piccoli gruppi alcuni vengono a pregare con noi, se la messa è celebrata in pieno giorno, ma la sera non rischiano. Oppure li vediamo vicino a un muretto, dove si radunano sperando che qualcuno li ingaggi per un nuovo lavoro, ma di colpo si sparpagliano, quando passa la macchina della polizia.. .». Da affrontare, poi, c'è una realtà quotidiana ai limiti della sopravvivenza. Per mesi, talvolta per anni: «Una volta in pieno inverno, nel corso di un'uscita nel deserto, ho scoperto una dozzina di senegalesi. Ero sconvolta: uomini persi come su un'isola, che da un anno si trovavano in quel posto, senza potere né proseguire né tornare indietro. Qualche tempo dopo la polizia è passata a distruggere e a bruciare il loro accampamento di miseria».
Di fronte a tante immani difficoltà, alcuni migranti manifestano il desiderio di rientrare in patria. Rencontre e Développement favorisce questi ritorni (176 nel 2006). Tamanrasset è l'ultima tappa in terra d'Algeria. Nel dicembre 2006 l'associazione vi ha organizzato un incontro, invitando diversi gruppi che operano a favore dei migranti. È stata un' occasione di dialogo, in vista di una migliore collaborazione, con realtà associative e missionarie operanti anche nei paesi di provenienza dei migranti. Così Rencontre et Développement ha cominciato a progettare l'erogazione di piccoli finanziamenti, a cui possono accedere i rimpatriati in Congo, Ciad, Togo e Camerun, per realizzare microprogetti di sviluppo. La strada che conduceva verso il miraggio Europa può concludersi dove era partita. E non è detto, dopo tanto soffrire, che sia una sconfitta.
Creare cultura e reti per vincere il lamento
di Liberato Canadà
da Italia Caritas – dicembre 2007/gennaio 2008
Sviluppo locale? Per parlame, a proposito della Basilicata, così come del mezzogiorno d'Italia, cuore del Mediterraneo, bisogna partire da un semplice ma radicale rovesciamento. E cioè smettere di chiedere cosa l'Italia e l'Europa possono fare per il sud e la Basilicata, per chiedersi invece cosa la Basilicata e il mezzogiorno possono fare per l'Italia e per l'Europa.
Sul mezzogiorno d'Italia (compresa la Basilicata) esercitano ancora una forte influenza alcune dinamiche storiche, in primo luogo quel processo di emarginazione del Mediterraneo, iniziato con lo spostamento del cuore della storia moderna prima verso il nord Europa, poi verso l'ovest lungo le grandi rotte oceaniche. Bisogna pertanto partire dal presupposto che se non si investe sul Mediterraneo non ci potrà essere sviluppo nel mezzogiorno, e neanche in Basilicata. Senza una politica estera coraggiosa, senza colpire al cuore quell'antica marginalità, sarà molto difficile rimuovere le barriere tra il sud dell'Italia e la normalità del paese, per poi moltiplicare tutte le buone esperienze esistenti nel mezzogiorno e in Basilicata, che sono tante, numerose e significative.
Il settentrione d'Italia è composto da regioni che si sentono nel cuore dell'Europa. Si può pensare davvero di affrontare con successo quella che una volta veniva definita "questione meridionale", se non si costruisce una grande area di sviluppo euromediterranea, in territori segnati da una distanza ben superiore dal centro del continente?
Il "sudditoso" vive e vegeta
La Basilicata e i mezzogiorni d'Italia erano meno lontani dal resto d'Europa con i Borboni, nel Settecento e nel primo Ottocento. Eppure non si tratta di dipingere un quadro a tinte fosche della Basilicata; piuttosto, occorre esaltarne l'irrimediabile diversità, pur confrontandosi con le patologie e la durezza dei problemi, ma evitando di alimentare una brutta malattia che perdura nel mezzogiorno d'Italia, quindi anche in Basilicata. Occorre, in altri termini, cancellare la parola "sud", perché evoca sudditanza e subalternità. E il subalterno non fa, ma aspetta che si faccia; non è causa del suo bene e del suo male, ma solo effetto dell'azione e del pensiero altrui; non decide, ma è deciso. Il "suddito so", sia in maniera individuale che in forma collettiva, vive e vegeta nella comunità dei sudditi: sconta su di sé il peso antico di dominazioni, di un colonialismo politico e religioso, economico e tecnologico.
Di alibi giustificativi ce ne sarebbero a bizzeffe: l'emigrazione degli anni Sessanta e quella più recente del 2006, la povertà, le dinamiche del processo unitario dell'Italia (e poi di quello europeo), l'assenza di infrastrutture sociali e materiali... Ma l'atteggiamento di sudditanza è un sonnifero, produce paralisi, quantomeno lentezza. In Basilicata alcune iniziative, amministrative ed economiche, sono state rese possibili dalle emergenze (sisma, alluvioni, frane), che spesso diventano condizione strutturata, modalità sociale di comportamento, incapace di progettare e programmare azioni di sviluppo. La lentezza, stancante e asfissiante, produce depressione e accidia, generando il lamento. Una delle principali manifestazioni della sudditanza; un atteggiamento che ha contaminato parti sociali, economiche, religiose e politiche, persino educative; una posa che contraddistingue i professionisti del meridionalismo, il quale arruola quanti giustificano l'inerzia dolente e fatalista, attribuendola a fattori esterni.
Arginare l'inclinazione alla lagna, stimolando e promuovendo iniziativa, creatività, scelte educative e culturali capaci di far emergere un pensiero aperto al Mediterraneo, all'Italia, all'Europa: è questa la leva strategica per poter parlare di sviluppo, non nelle intenzioni ma in azioni prive di ambiguità e di demagogia.
Paninoteche, non librerie
Gli ostacoli allo sviluppo sono insomma anzitutto culturali. Ma la Basilicata è culturalmente arretrata? Guardando alla fioritura delle idee e al fervore delle intelligenze, alle forme di espressione vitale costituite dalla cultura locale e dalla tradizione popolare e folcloristica, si può dire che la regione non è spenta. C'è vivacità, magari meno cultura civica, ma certo un vivo reticolo di solidarietà familiare e comunitaria, che deriva anche da valori e radici cristiane. Si può dire che esista un familismo virtuoso, che consente di ammortizzare disoccupazione, miseria e squilibri sociali dove esistono. Permane inoltre una memoria condivisa, fatta di linguaggi, retaggi e paesaggi comuni.
Se per cultura invece si intende l'elaborazione intellettuale dei dotti e l'azione di una classe dirigente, allora si notano le arretratezze. Invece di teatri, librerie, circoli culturali e sociali, quasi ovunque sono nate negli ultimi anni banche, gioiellerie, paninoteche. A riprova del fatto che i soldi (in Basilicata nelle banche sono depositate ingenti somme di denaro) dove ci sono non portano automaticamente cultura. Inoltre nel mezzogiorno d'Italia, e soprattutto in Basilicata, non esistono media (tv e giornali) di dimensione nazionale che parlino all'Italia; la Basilicata non è vista, non è letta. Come l'intero mezzogiorno d'Italia, è sottorappresentata; il baricentro della politica, dell'economia e dei media è spostato nel settentrione d'Italia, cuore d'Europa.
Con altre parole, si può dire che in Basilicata si è seccato l'albero delle élite, la pianta che produce classe dirigente. In passato erano i notabili, il clero, gli agrari; poi è arrivata la borghesia statale, decorosa e rispettabile: la maestra, il maresciallo, il segretario comunale, l'impiegato alle poste o alle ferrovie. Oggi, declinate le precedenti classi dirigenti e tramontato il ceto cresciuto all'ombra dei partiti, chi emerge lo fa per proprio conto, indipendentemente e individualmente. Il tessuto delle relazioni sociali è sfilacciato, quello civico è debole, e all'orizzonte non si vede una classe dirigente in formazione, impiantata in un terreno culturale originale e meridionale.
Parlare di sviluppo, in Basilicata oggi, significa dunque promuovere e favorire le connessioni (che mancano) tra soggetti (della cultura, della società, dell'imprenditoria) attivi e creativi; ovvero favorire e promuovere connessioni per dare vita a reti fatte non di rapporti subalterni, ma virtuosi. Fatte anche da una buona politica, oltre che da una libera mediazione culturale, da una sana e competente imprenditoria.
In Basilicata, come nel resto del mezzogiorno, chi riuscirà a riconnettere questi rapporti virtuosi potrà guidare processi di sviluppo locale autentici, duraturi e rispettosi delle persone e delle comunità locali. Non c'è altra strada, per voltare la pagina della sudditanza e del lamento.
VINCE IL PROFITTO, PERDE LA SALUTE
di Roberto Topino e Rosanna Novara
da Missioni Consolata - dicembre 2007
Secondo un rapporto di Greenpeace del 1992, si calcola che ogni anno vengano immesse nella biosfera almeno 250.000.000 di tonnellate di prodotti organici, di cui 2.000.000 di tonnellate sono di pesticidi, cioè veri e propri veleni elaborati per liberare le colture da infestanti e parassiti sia animali, che vegetali.
L'inquinamento da pesticidi è molto particolare perché, a differenza di tutte le altre forme d'inquinamento, non è accidentale o conseguente ad attività industriali o agricole, ma è voluto, cioè si tratta di sostanze immesse volontariamente nell'ecosistema, spesso senza seguire alcun criterio di rispetto e di salvaguardia dell'ambiente. Inoltre i pesticidi sono sempre sicuramente dotati di attività biologica, poiché appositamente pensati per l'eliminazione di forme di vita considerate nocive, ma non sempre sono selettivi, potendo colpire anche specie utili, nonché l'uomo. L'uso massiccio di queste sostanze è molto aumentato dopo la seconda guerra mondiale, dal momento che in Europa la popolazione era esausta per il conflitto e carente di risorse alimentari. Ciò ha determinato lo sviluppo di un'agricoltura di tipo industriale, il cui fine è la produttività ad ogni costo, anche quello della perdita della salute e della biodiversità e della distruzione di interi ecosistemi. Non dimentichiamo poi la necessità di riconvertire la produzione di alcune industrie chimiche, che sono passate di colpo dalla produzione di agenti chimici a scopo bellico a quella di pesticidi e/o di farmaci. Ne sono esempio la Monsanto, produttrice in passato dell'agente Orange, il terribile defoliante a base di diossina usato nella guerra del Vietnam (per il quale tuttora si contano le vittime) ed attuale produttrice di pesticidi e di sementi Ogm nonché la Bayer, produttrice in passato dell'iprite (gas vescicante, utilizzato nella prima guerra mondiale) ed attualmente anch'essa produttrice di pesticidi e di farmaci. Le due multinazionali citate, insieme con Aventis CropSciences (recentemente acquisita dalla Bayer), BASF, Dow Agrosciences e Du Pont fanno parte del GCPF o Global Crop Protection Federation (www.croplife.org), che raggruppa produttori di pesticidi europei, statunitensi e giapponesi. Peraltro esistono anche dei pesticidi, recentemente messi in commercio, definiti «generici», cioè non brevettati e prodotti dalla Cina, dall'India e da alcuni paesi dell'America Latina, oltre che dalle multinazionali appartenenti al GCPF. Questi pesticidi sono prodotti con vecchie tecnologie, per cui sono venduti ad un prezzo inferiore di quello degli altri e sono acquistati preferibilmente dai paesi in via di sviluppo.
L'avvelenamento del Sud del mondo
In linea di massima, l'80% dei pesticidi prodotti viene impiegato nel mondo occidentale, dove prevale l'agricoltura di tipo industriale, mentre nei paesi in via di sviluppo vengono impiegati in misura del 20% circa. Tuttavia, secondo un rapporto della Fao del 2001 (Giacarta, maggio 2001), dove si legge che ogni anno 25.000.000 di persone al mondo vengono avvelenate dai pesticidi, l'80% dei casi di avvelenamento si rileva nei paesi in via di sviluppo, dove i controlli sanitari e legislativi spesso non vengono effettuati. In tali paesi quasi mai vengono rispettate le norme di sicurezza per la distribuzione dei pesticidi, come l'uso di appositi schermi, di maschere respiratorie, di tute impermeabili, di guanti e di stivali di gomma. A ciò si aggiungono l'analfabetismo, la mancanza totale d'informazioni sanitarie e le errate abitudini, come quella di conservare i pesticidi vicino alle abitazioni e magari alla portata dei bambini.
Il rapporto Fao inoltre ha preso in considerazione l'uso dei pesticidi proibiti, cioè quelli vietati in quasi tutti i paesi industrializzati, ma liberamente venduti nei paesi in via di sviluppo. Tra questi composti, al primo posto troviamo il parathion metile, un organofosforico classificato dall'Oms come estremamente pericoloso. Tale composto viene prodotto in Thailandia con 200 nomi diversi, tra cui quello di Folidol (marchio Bayer). Il punto di smista mento dei pesticidi proibiti, secondo il rapporto Fao, è il sud-est asiatico: il 73% delle importazioni thailandesi è di prodotti, che l'Oms ha giudicato come estremamente tossici, mentre l'84% dei pesticidi usati in Cambogia è nocivo per la salute al punto che l'88% dei contadini cambogiani risulta essere stato vittima di avvelenamenti. Mentre nel mondo occidentale le patologie correlabili alla presenza di pesticidi nell'ambiente e nei cibi sono soprattutto dovute agli effetti a lungo termine di questi composti, nei paesi in via di sviluppo si ha la quasi totalità dei casi di avvelenamento, stimati intorno al milione di episodi accidentali e due milioni di avvelenamento colposo, di cui 220.000 casi mortali.
Le banane ai pesticidi: lo scandalo Nemagon
Emblematico è il caso dell'intossicazione da Nemagon (o Fumazone), che nella nomenclatura chimica è il dibromo-cloro-propano o DBCP. Si tratta di un pesticida, che è stato utilizzato nelle piantagioni di banane, per eliminare un microscopico verme parassita, la cui presenza impediva l'esportazione delle banane negli Usa. Inoltre al DBCP è stata attribuita la proprietà di fertilizzante, in quanto sia la pianta che le stesse banane crescevano più velocemente e miglioravano il loro aspetto. Per questi motivi, questo prodotto è stato a lungo usato dalle multinazionali americane della frutta, come dai produttori nazionali nelle piantagioni di banane di Nicaragua, Costa Rica, Honduras e di altre nazioni. Nel 1977 alcuni ricercatori della Occidental Petroleum di Lathrop (California) si resero conto che il DBCP causava sterilità nei lavoratori di questa installazione e ciò provocò l'immediata proibizione del suo utilizzo dapprima in California e poi in tutti gli Usa. La sua produzione, però, non venne proibita e tanto meno la sua esportazione nei paesi del Terzo Mondo, cioè in America Latina, nei Caraibi, in Asia, in Africa, ovunque le multinazionali delle banane avevano i loro investimenti. Successivamente la United States Environmental Protection Agency ritirò negli Usa la registrazione della marca del DBCP, poiché era risultato che questa sostanza ha proprietà cancerogene, mutagene e teratogene per gli esseri umani, essendo in grado di provocare uno spettro molto ampio di forme di cancro, nonché malformazioni congenite, aborti prematuri, oligospermia ed azoospermia; inoltre è una sostanza persistente per anni nell'ambiente e capace di provocare inquinamento dell'aria, dell'acqua e del suolo. La Costa Rica proibì l'uso del Nemagon nel 1978, ma poiché i distributori avevano grandi scorte di questo prodotto, esso venne rivenduto al Nicaragua ed all'Honduras, dove non esistevano leggi che lo proibivano. Negli anni '70 e '80, la Standard Fruit Company e la Dole Fruit Company, insieme con impresari bananeros nicaraguensi, cominciarono ad applicare il Nemagon nelle piantagioni di banane dell'Ovest del Nicaragua, specialmente nel Dipartimento di Chinandega, nonostante tale sostanza fosse vietata negli Usa. Attualmente in Nicaragua si sono già ammalati migliaia di lavoratori, a causa del Nemagon. Molti di loro, nel marzo 2005, si sono ritrovati a Managua, dopo una marcia di 11 giorni, in cui qualcuno è morto, per raggiungere la Procura per la difesa dei diritti umani (Pddh), nel tentativo di ricevere dal governo il riconoscimento della violazione dei diritti umani nei loro confronti. Questi lavoratori si accamparono per otto mesi a Managua, in una zona che venne denominata «Ciudadela del Nemagon», in circa 5.000 (Giorgio Trucchi, PeaceReporter). ln un'intervista rilasciata da Victorino Espinales Reyes, presidente della Fondazione dei lavoratori delle bananeras, egli afferma che, fino agli anni '60, il Nemagon veniva immesso nel suolo con grosse siringhe, ma successivamente, a partire dagli anni '70, in corrispondenza dei nuovi investimenti delle multinazionali, la sua distribuzione venne fatta con cannoni d'irrigazione, capaci di spararlo fino a 80 metri di distanza. In breve tempo, il pesticida uccise non solo i parassiti delle banane, ma anche le altre forme di vita presenti nelle piantagioni, tra cui rospi, uccelli, ecc. Nessuno peraltro avvertì i lavoratori dei rischi a cui erano esposti ed intere famiglie vennero a contatto con il Nemagon: i padri, che lavoravano nelle piantagioni, le mogli, che portavano i pasti ed i bimbi, che vi giocavano, nonché le donne, che lavoravano nell'impacchetta mento delle banane. Inoltre venne contaminata l'acqua dei pozzi ed è emerso che gli stessi tubi, che nottetempo venivano utilizzati per fare scorrere il pesticida, di giorno venivano utilizzati per distribuire l'acqua potabile ai contadini, che ora lottano da 14 anni per ottenere indennizzi, cure mediche e la possibilità d'intentare una causa legale contro le multinazionali. Si calcola che, in questa nazione, almeno 20.000 persone dovrebbero essere sottoposte ad accertamenti medici completi. Le imprese multinazionali Usa produttrici del Nemagon sono la Shell Oil Company e la Dow Chemical Company, mentre le distributrici nel Nicaragua sono state la Standard Fruit Company e la Dole Fruit Company. Analoghi investimenti ha effettuato la Del Monte in Costa Rica e in Guatemala, dove i suoi pesticidi hanno inquinato fiumi e terreni e dove sono state perpetrate intimidazioni verso i sindacalisti bananieri. Nel 2001, la Chiquita ha invece firmato un contratto, in cui si impegna a rispettare i diritti dei lavoratori e dell'ambiente.
La strage di Bophal (ma non furono i terroristi)
Considerando i disastri ambientali con migliaia di vittime causati dai pesticidi, come non ricordare la strage di Bophal del 1984, quando 40 tonnellate di un composto gassoso, l'isotiocianato di metile, un ingrediente del pesticida Sevin, prodotto dalla Union Carbide, vennero liberate nell'aria, a seguito di un'esplosione nella fabbrica, che lo produceva? Morirono subito 3.017 persone e 12.000 negli anni successivi. Tuttora i sopravvissuti, affetti da danni polmonari, oculari, renali e cutanei, aspettano un risarcimento di 555 dollari, mentre alle famiglie di coloro che sono morti durante l'incidente spettano 2.200 dollari ed a quelle degli altri morti non è stato riconosciuto alcun risarcimento. La Union Carbide ha lasciato la fabbrica così come l'esplosione l'ha ridotta. I componenti tossici rimasti sono filtrati nelle falde freatiche, che forniscono acqua ad una vasta zona, aumentando il numero delle vittime (cfr. Missioni Consolata, dicembre 2006, pago 25).
C'è poi un altro grave problema riguardante i paesi in via di sviluppo e cioè quello dello stoccaggio in queste aree di un ingente quantitativo di pesticidi messi al bando per la loro nocività. Secondo la Fao, in Etiopia, Botswana, Mali, Marocco e Tanzania sarebbero state accumulate tonnellate di pesticidi, mentre la rivista Le Scienze parla anche di Moldavia, Ucraina, buona parte dell'America Latina, dell'Asia e dell'Africa. Spesso i pesticidi sono accumulati in contenitori deteriorati, che lasciano fuoriuscire il loro contenuto; quest'ultimo talvolta, a seguito delle pessime condizioni di stoccaggio e del tempo trascorso, ha subito trasformazioni chimiche, che lo hanno reso ancora più tossico. Spesso lo stoccaggio è avvenuto in un magazzino o in una capanna al centro del villaggio, vicino alle abitazioni, dove pascolano gli animali da cortile e dove giocano i bambini. Non esistono peraltro dei dettagliati inventari di ciò, che è stato stoccato. I pesticidi sono giunti nei paesi del Terzo Mondo a seguito di donazioni, oppure sono stati acquistati per timore d'invasioni parassitarie ed il loro stoccaggio approssimativo ha portato all'inquinamento di aria, acqua e suolo.
Le acque italiane: ricche di 119 pesticidi
E a casa nostra le cose come vanno? A seguito di un monitoraggio effettuato nel triennio 2003-2005 daIl' Apat (Agenzia per la protezione dell'ambiente e servizi tecnici) risulta che nelle acque italiane sono stati trovati 119 pesticidi diversi, di cui 112 nelle acque superficiali e 48 in quelle profonde. Consideriamo che in Italia, in agricoltura, ne vengono utilizzate circa 150.000 tonnellate all'anno. Nelle acque superficiali i residui di pesticidi sono stati trovati nel 47% dei campioni prelevati (27,9% dei casi con concentrazioni superiori a quelle stabilite dalla legge per le acque potabili); nelle acque profonde sono state osservate contaminazioni nel 24,8% dei casi, con il 7,7% di sforamento dei limiti di legge. Gli erbicidi sono fra le sostanze più frequentemente rinvenute; è particolarmente critica la contaminazione da terbutilazina, diffusa in tutta l'area padano-veneta, ma anche in qualche regione del centro-sud. Oltre a questa è particolarmente significativa la presenza di bentazone, un erbicida usato nelle risaie e quella dell'atrazina (ad un ventennio dal suo divieto), a causa sia di un largo uso nel passato, che della sua persistenza nel tempo. Le conseguenze di questa situazione non hanno tardato a manifestarsi. In un'intervista apparsa il 25 maggio 2007 su La Stampa, il prof. Pileri, ematologo e docente dell'Università di Torino, ha affermato che in Piemonte sono in drammatico aumento i casi di linfoma non-Hodgkin, rispetto alle altre regioni, e la causa di ciò sarebbe da ascriversi proprio alla presenza di pesticidi, come si evince da uno studio condotto dal prof. Vineis, epidemiologo della stessa Università, il quale ha dimostrato che il fattore di rischio nella zona delle risaie è doppio, rispetto alle altre zone.
Ogm e pesticidi: le stesse multinazionali
Un altro aspetto da esaminare è quello della correlazione tra gli OGM, cioè gli Organismi geneticamente modificati, e l'uso dei pesticidi. Dei 44 milioni di ettari coltivati attualmente nel mondo ad Ogm, il 97% consiste in piante modificate per soli due caratteri, cioè la resistenza ai diserbanti e quella agli insetti; in particolare, le piante interessate sono la soia, il mais, la patata, il cotone e la colza. Aumentare la resistenza di queste piante all'erbicida, che serve ad eliminare le piante infestanti, significa avere una garanzia di vendita dell'erbicida stesso ed infatti le ditte, che producono gli Ogm, producono anche i pesticidi, come la Monsanto. Bisogna inoltre tenere presente che le multinazionali considerano come «infestanti», per le monocolture dell'agricoltura industriale, delle piante che invece fanno parte del patrimonio culturale delle popolazioni locali e sono adoperate da secoli per molteplici usi, tra cui spesso quelli alimentare e farmaceutico.
L'eliminazione delle piante infestanti con diserbante e la coltivazione di monocolture, spesso Ogm, porta inesorabilmente alla perdita della biodiversità. lnfatti, attualmente, nella maggior parte delle regioni, dove è praticata l'agricoltura industriale, si coltivano solo quelle poche varietà di piante, che rispondono bene all'impiego dei prodotti chimici e si stima che, in pochi anni, si sia passati da molte migliaia di specie vegetabili coltivabili a qualche centinaio.
La biodiversità uccisa dall' agricoltura industriale
Purtroppo, l'agricoltura industriale non tiene conto della specificità dei metodi di coltivazione, relativi alle varie zone agroclimatiche, che privilegiano le specie, che si adattano meglio alle caratteristiche ambientali. Ad esempio, le monocolture di riso e di grano hanno spesso sostituito quelle di miglio, di leguminose e di semi oleosi. In pratica l'agricoltura industriale porta all'estinzione di diverse specie coltivabili, per introdurre colture uniformi, che si adattano perfettamente alle esigenze dell'industria chimica, anziché a quelle dell'ecosistema. lnoltre, per fare fronte alle pressioni ed ai tempi del mercato globale, spesso gli scienziati tendono a sviluppare o ad adattare le colture, selezionando un gene principale, rendendolo resistente. Purtroppo, le varietà dotate di un solo gene resistente rappresentano un facile bersaglio per i parassiti e per le malattie delle piante, che si ritrovano a dovere superare un solo ostacolo; ci troviamo infatti davanti ad ecosistemi estremamente semplificati. Nelle aree coltivate meccanicamente cresce una sola specie vegetale, con corredo genetico omogeneo; pochi esemplari di un insetto, che si nutre di questa pianta, se il ciclo vitale dell'insetto è rapido, sono in grado, in poco tempo, di generare una popolazione infestante, capace di distruggere l'intera area coltivata. A questo punto la risposta più immediata diventa l'utilizzo di un insetticida, che per i primi anni solitamente funziona bene, ma in seguito si ripresenta l'infestazione tal quale a prima. Cosa è successo? Si è drammaticamente passati dalla perdita della biodiversità al fenomeno della resistenza ai pesticidi, con la necessità di produrre nuove e più potenti molecole. Ma come può essere avvenuto?
Più pesticidi, più resistenza, più danni
La risposta sta nel fatto che l'insetticida sparso nei campi ha eliminato non solo la specie infestante, ma anche le altre specie animali, che la predavano o la parassitavano, regolandone la crescita. La specie infestante, per un certo tempo, è effettivamente scesa ad un numero quasi insignificante d'individui, ma si tratta purtroppo d'individui, che hanno sviluppato la capacità di tollerare certe dosi d'insetticida. È persino possibile che la scomparsa dei predatori, dovuta ai pesticidi, abbia permesso una smisurata moltiplicazione di specie prima tenute sotto controllo biologico, per cui «non dannose» per l'agricoltura, facendole diventare «dannose». E così, grazie alla produzione di molecole di pesticidi sempre più nuove, siamo riusciti a selezionare delle varietà d'insetti sempre più resistenti. Basti pensare che nel 1970 le specie di insetti resistenti agli insetticidi erano 224, mentre nel 1980 erano già 428.
Consideriamo poi che l'adattamento ad un pesticida da parte delle specie predatrici di una specie infestante è sempre più lento di quello della specie predata. Le specie più complesse e collocate più in alto nella catena alimentare, infatti, sono più vulnerabili, hanno tempi più lunghi di riproduzione e quindi minore elasticità. lnoltre i predatori, divorando grandi quantità d'insetti contaminati, accumulano il veleno nel loro corpo, soprattutto negli organi filtranti come il fegato, in quantità sempre maggiore, manmano che si sale lungo la catena alimentare. Un esempio di questo processo è fornito da una ricerca effettuata nel lago Michigan, dove è stata diffusa la dose minima di 0,012 ppm di un doroderivato, un insetticida per le zanzare. Nel plancton è stata trovata, dopo qualche tempo, una concentrazione di 0,5 ppm; nei piccoli pesci si è arrivati a 4 ppm ed a 10 ppm nei pesci di grossa taglia. Negli uccelli, che si nutrivano di questi pesci, si è arrivati a 2.000 ppm (sic!). A proposito, l'uomo è al vertice della catena alimentare.
La sperimentazione e la «dose letale 50»
Oltre a tutto ciò, l'agricoltura industriale comporta un inquinamento ed uno spreco delle risorse idriche. Si calcola che le colture soggette a trattamenti chimici richiedano una quantità d'acqua fra le cinque e le dieci volte superiore a quella delle coltivazioni tradizionali. L'impiego dei fertilizzanti chimici non solo richiede una maggiore irrigazione, ma comporta anche un minore apporto di componenti organici, il che riduce la capacità di trattenere l'acqua del suolo. L'irrigazione intensiva porta anche alla formazione di acquitrini ed alla salinizzazione, quando i sali del terreno emergono e si depositano in superficie. Secondo la scienziata indiana Vandana Shiva, un'agricoltura di questo tipo sta provocando un grave processo di erosione e di perdita di fertilità del suolo.
C'è poi da considerare un aspetto veramente inquietante riguardante i metodi di sperimentazione dei pesticidi, adottati dalle aziende produttrici. L'EPA (Environmental Protection Agency, Usa) è stata al centro di polemiche, per avere accettato di visionare 24 studi commissionati dalle case produttrici dei pesticidi, per verificarne gli effetti sull'uomo. Pare che ad alcuni volontari siano state somministrate delle capsule di pesticidi da ingerire, per più giorni consecutivi, mentre altri sono stati chiusi in camere, dove era stato immesso un gas lacrimogeno usato nella prima guerra mondiale, il chlorpicrin. Il tutto per 15 dollari l' ora. I partecipanti all'esperimento furono reclutati fra le fasce più deboli della popolazione ed inoltre, in alcuni casi, il compenso era subordinato al portare a termine l'esperimento stesso. Il presidente Clinton bloccò la possibilità di visionare i risultati di questi studi, giudicati eticamente scorretti, ma anche inutili per un miglioramento dei prodotti sia dal punto di vista umano, che ecologico, poiché i test tendevano a dimostrare una superiore soglia di tolleranza. Il presidente Bush eliminò il divieto emanato dall'amministrazione Clinton, tuttavia due deputati democratici, nel giugno 2005,denunciarono la vicenda, che attualmente attende una risoluzione da parte del Congresso.
Tra le aziende, che commissionarono questi studi c'è la Bayer. ln Germania si è formato il gruppo Coalition Against Bayer Diseases (www.cgbnetwork.org),che ha portato la prova che la compagnia non ha ottenuto il pieno consenso dei soggetti informati, poiché essi non erano a conoscenza o non avevano compreso i rischi e gli obiettivi degli esperimenti. È comunque interessante esaminare le conclusioni, a cui sono giunti gli studiosi della Bayer, dopo questi esperimenti; secondo loro i dolori addominali, la nausea, la tosse e le eruzioni cutanee dei soggetti partecipanti alla sperimentazione con azinfos-metile, per quasi un mese, sono attribuibili a malattie virali o alla dieta.
Un grosso limite di molti studi di laboratorio sui pesticidi è comunque quello di tenere conto solo della tossicità acuta di queste sostanze, valutabile con il parametro della DL50 o «dose letale 50», che corrisponde alla quantità di sostanza sufficiente a provocare la morte nel 50% degli animali da laboratorio trattati. Tali studi non prendono mai in considerazione gli effetti dei pesticidi sul lungo periodo, quindi il loro potere mutageno, cancerogeno e teratogeno. Inoltre i pesticidi vengono studiati singolarmente, senza tenere conto degli effetti dovuti alla loro possibile compresenza in una stessa zona, con conseguente sinergismo.
Senza pesticidi si può: la lotta biologica
Ciò che lascia veramente perplessi è la ormai diffusa mentalità che l'uso dei pesticidi sia diventato una condicio sine qua non, una necessità irrinunciabile per le coltivazioni. Ci siamo forse dimenticati che in natura esistono da sempre le specie predatrici e che, grazie ad un insieme di strategie integrate, è possibile sfruttarle in una lotta biologica agli infestanti, senza dovere ricorrere alla chimica? È possibile, ad esempio, una lotta di tipo microbiologico, grazie a specie batteriche, che non hanno mai manifestato alcun potere patogeno verso i vertebrati o le piante, come il Bacillus thuringensis, che produce una tossina larvicida. Oppure è possibile impedire gli accoppiamenti, grazie all'uso di feromoni sessuali, che determinano confusione o distrazione negli insetti. Possono essere diffusi artropodi predatori o parassitoidi, cioè nemici di quelli dannosi delle piante coltivate, in particolare gli entomofagi. Si possono effettuare lanci con mezzi aerei o meccanici di insetti ooparassitoidi (piccolissimi imenotteri del genere trichogramma, che distruggono le uova dei loro ospiti). Questi insetti «limitatori delle nascite» sono guidati da messaggi olfattivi verso le uova o altri stadi dell'artropode dannoso, riducendo le sue popolazioni senza effetti collaterali nocivi per l'ambiente. Per la produzione di ortofrutta di qualità elevata è possibile ricorrere all'allevamento di diverse specie di pronubi, che favoriscono un aumento delle qualità organolettiche dei prodotti ed inoltre possono essere sfruttati nella lotta microbiologica. Infatti, molte specie di pronubi, ad esempio il bombo, possono essere sfruttate come vettori di microrganismi (funghi, batteri e virus) ad azione antagonista per le specie patogene delle piante. In Canada, per esempio, sono state impiegate sia le api, che il B.impatiens per la diffusione di un fungo microscopico, il Gliocladium roseum, per la lotta alla muffa grigia delle fragole e del lampone. In Italia si è sperimentata la disseminazione di T.harzianum da parte dei bombi, per la lotta alla botrite del pomodoro.
Dalle mele ai pelati, i consumatori sotto assedio
E noi, come consumatori, cosa possiamo fare? Come già detto, è meglio informarsi sulla provenienza dei prodotti ortofrutticoli, dando la preferenza ai prodotti nazionali e di stagione, oppure a quelli del commercio equo e solidale, che ci consentono di evitare il giro delle multinazionali e di assicurare ai piccoli produttori locali un pagamento equo dei loro prodotti. È bene poi porre una particolare attenzione ai prodotti made in China, poiché è risultato da un'indagine che il 47% di questi prodotti contiene tracce di pesticidi superiori ai limiti di legge. In Cina la produzione di pesticidi è, secondo Federico Rampini (L'impero di Cindia), triplicata in cinque anni ed in questo settore dilaga la contraffazione, con il 40% dei pesticidi venduti con un marchio falso. Il ministero della Sanità cinese ha stimato che ogni anno i casi d'intossicazione da pesticidi sono circa 120.000. Non dimentichiamo poi che i campi ed i fiumi cinesi sono tra i più inquinati al mondo, per cui all'effetto dei pesticidi si assomma quello dell'inquinamento. Quindi attenzione alle mele Fuji o ai pomodori, che finiscono in Italia nelle scatole di pelati, magari con il marchio italiano contraffatto.
GLOSSARIO ESSENZIALE
ARTROPODl:sono gli animali più largamente diffusi sia nelle acque, che nelle terre emerse. Derivano per evoluzione dagli Anellidi (vermi), da cui si distinguono per la presenza di zampe per la deambulazione e/o di ali per il volo. In entrambi i casi si tratta di modificazioni dei parapodi, cioè delle prominenze laterali dei segmenti degli Anellidi.
BOMBUS IMPATIENS: eccellente insetto impollinatore, soprattutto per i mirtilli. Viene allevato e commercializzato per l'agricoltura.
BOTRITE: principale avversità delle coltivazioni in serra, in particolare di pomodori, fragole, peperoni, melanzane. Si presenta sotto forma di muffa grigia.
ENTOMOFAGO: che si ciba di insetti.
FEROMONI: sostanze ad azione ormonale, che permettono una comunicazione chimica tra individui diversi, appartenenti ad una stessa società (ad es. le api). Mediante queste molecole, che spesso svolgono una funzione di richiamo sessuale, si può ottenere la coordinazione di alcuni caratteri fisiologici tra individui diversi.
IMENOTTERl: ordine d'insetti (almeno 100.000 specie) con apparato boccale masticatore e/o lambente particolarmente sviluppato e con 4 ali membranose, che in qualche caso mancano. Può essere presente un aculeo (modificazione dell'ovopositore), annesso ad una ghiandola velenifera.
IPRITE: solfuro β-β'-dicloroetilico. È un liquido ad elevato punto di ebollizione, irritante e vescicante, che rimane a lungo nel terreno. Fu usato per la prima volta, sotto forma di gas vescicante a Ypres, da cui il nome, durante la prima guerra mondiale (luglio 1917).
LINFOMI NON-HODGKIN: tumori maligni degli organi linfoidi, tra i quali è compresa la leucemia linfatica cronica, caratterizzata, come altre varianti, dall'invasione del sangue periferico da parte di cellule proliferanti. Si distinguono dai linfomi di Hodgkin (linfogranuloma maligno), che nascono nei linfonodi, per poi assumere un carattere sistemico e la capacità di estendersi a tutto il sistema linfatico.
OOPARASSITOIDE: che parassita le uova.
PPM: parti per milione.
PRONUBO: insetto impollinatore, che favorisce la riproduzione delle piante.
TRICHODERMA HARZIANUM:agente eziologico di patologie dei funghi coltivati, in particolare di una muffa verde dell'ordine dei Deuteomiceti o funghi imperfetti, chiamati così perché presentano solo la forma di riproduzione asessuata.
Potenziare la scuola pubblica, compito per tutti i cristiani
di Maria Cristina Bartolomeidocente di filosofia e teologada Jesus – dicembre 2007
Il diritto-dovere di frequentare la scuola esteso a tutti, poveri e ricchi, uomini e donne, e in particolare a tutti i bambini, è, nella storia dell'umanità, un fatto relativamente recente e ben lungi dall'essere realizzato ovunque nel mondo. Per molti secoli l'educazione è stata un privilegio dei ricchi e, anche tra essi, l'istruzione un privilegio dei maschi, mentre solo in rari casi le donne vi avevano accesso.
La catechesi, divenuta da un certo punto in poi insegnamento catechistico, è stata a lungo per moltissimi analfabeti l'unica possibilità di apprendimento ed educazione. Cambiata la struttura sociale e accresciutasi la sensibilità per l'iniquità e le conseguenze nefaste della miseria culturale, alle famiglie religiose già dedite alla formazione dei giovani delle classi alte, si sono aggiunte molte congregazioni votate all'istruzione degli appartenenti agli strati sociali svantaggiati ed emarginati.
Oggi, nei Paesi avanzati, la situazione è cambiata e gli Stati si riconoscono il diritto-dovere di provvedere a offrire a tutti i cittadini adeguati percorsi scolastici. La scuola per tutti e di tutti è occasione non solo di apprendimento, ma di socializzazione, di incontro con l'altro, col diverso. Ed è palestra di democrazia, tolleranza, libertà, quando docenti e discenti portatori di orientamenti ideali legittimamente diversi (purché non imposti né confliggenti coi valori costituzionali) si "riconoscano" a vicenda.
In tale nuova situazione, la sollecitudine cristiana per l'educazione dei giovani può attuarsi più liberamente in altri modi, giacché non vi sono più carenze strutturali cui supplire. Le scuole confessionali non debbono perciò sparire e così le scuole con peculiari orientamenti pedagogici (montessoriane, steineriane, straniere ecc.). Ma dovrebbe essere chiaro che l'esistenza della scuola promossa dallo Stato è anche il presupposto che consente ad alcuni di fare libere opzioni diverse, senza l'onere di garantire il servizio a tutti. Anche e proprio chi propone una diversa offerta formativa dovrebbe avere a cuore che la scuola di tutti sia potenziata e di qualità, invece di pensarsi in concorrenza con essa.
«Per la popolazione non tedesca dell'Est non ci può essere una scuola superiore alla scuola elementare di quattro classi. L'obiettivo di questa scuola dev'essere soltanto: saper contare al massimo fino a cinquecento; saper scrivere il nome; l'assimilazione di una dottrina secondo cui è un comandamento divino obbedire, essere onesti, diligenti e buoni. La lettura non la ritengo una cosa necessaria. All'infuori di questa scuola non ci dev'essere all'Est nessun'altra scuola. [...] Dopo una coerente applicazione di queste misure nel corso dei prossimi dieci anni, ciò che rimarrà della popolazione del governatorato generale sarà inevitabilmente una popolazione scadente. Questa popolazione sarà a disposizione come popolo di lavoratori senza capi, e offrirà ogni anno lavoratori fluttuanti e fissi per particolari esigenze di lavoro (strade, cave di pietra, costruzioni)». Si tratta di un brano di un promemoria di Himmler del 1940 (cfr. Sebastian Haffner, Hitler. Appunti per una spiegazione, tr. it., Garzanti, Milano 2002, p. 140): un testo che, al negativo, ben illustra che cosa sia in gioco nelle scelte scolastiche.
In anni recenti in Italia venne lanciato per la scuola lo slogan delle tre "i": inglese, informatica, impresa. Un programma da brivido: una scuola ridotta ad addestramento tecnico per il lavoro; un luogo dove imparare ad adeguarsi e non, invece, prima di tutto, a pensare, criticamente, a essere creativi, capaci di novità. Stranamente, il mondo cattolico, che pure riconosce nell'educazione dei giovani un tema decisivo, non ha reagito in modo vibrato. Invece che le tre "i", la scuola dovrebbe proporre "attenzione, creatività, iniziativa". La psicologia attuale differenzia l'apprendere per imitazione, passivamente accettando modelli - il che non forma la mente e la libertà interiore - dall'apprendere per esperienza, il muovere dalle emozioni verso il pensiero: qualunque scuola lo promuova, serve l'uomo e il suo essere immagine di Dio. Le migliori scuole del mondo per l'infanzia sono a Reggio Emilia, ispirate dal "metodo Malaguzzi", che punta all'ascolto e alla libera espressione del bambino, con l'effetto anche di ridurre le tendenze violente. Già sant'Agostino nel De magistro (un dialogo col figlio Adeodato) mette in luce che le parole altrui possono spingere a imparare, ma decisivo è il maestro interiore: il proprio intelletto e la propria coscienza, in cui i credenti vedono trasparire la luce divina.
Australia: la spiritualità ecclettica della Generation Y preoccupa la Chiesa
di Stefano Girola
da Jesus – dicembre 2007
Meno della metà dei membri della "generazione Y" (nati fra il 1976 e il 1990) si identificano in una religione tradizionale e sono convinti della propria fede in Dio. È questo uno dei dati principali contenuti in un importante studio presentato a Melboume nel mese di ottobre. Il libro The Spirit of Generation Y: Young people's Spirituality in a changing Australia è il risultato di un progetto durato tre anni e condotto da un team di studiosi dell'Australian Catholic University, la Monash University e la Christian Research Association. Circa 1.300 membri della generazione Y sono stati intervistati e i dati così ottenuti sono stati confrontati con quelli fomiti da un campione di giovani della generazione X ( 1961-1975) e della generazione del "baby boom" (1946-1960). Si tratta indubbiamente dello studio più sistematico mai condotto sulla visione del mondo, i valori, la fede e l'appartenenza religiosa degli adolescenti e dei ventenni australiani. Una ricerca che ha suscitato ampio interesse, anche in vista della prossima Giornata mondiale della gioventù, che si terrà a Sidney nel luglio del 2008.
Per quanto riguarda la fede, il 48% degli intervistati crede in Dio, contro il 20% di non credenti e il 32% di insicuri. Fra i cristiani, solo il 19% frequenta la parrocchia almeno una volta al mese. Fra i giovani che non credono in Dio, circa il 17% segue una spiritualità «eclettica», aderendo a più culti New Age, esoterici o orientali (incluse credenze nella reincarnazione, negli spiriti, nell'astrologia e nei tarocchi). Più del 30% degli intervistati sono stati invece classificati come «umanisti»: sostituiscono la fede in Dio con la fiducia nell'esperienza umana, nella ragione e nelle spiegazioni scientifiche.
Se alcuni dei dati raccolti hanno confermato tendenze ormai evidenti nella vita delle chiese australiane, come il costante calo dei credenti e dei praticanti, altri risultati sono più sorprendenti. È stata smentita per esempio l'opinione comune che il declino nell'adesione al cristianesimo sia legato a una crescente popolarità delle spiritualità alternative. Lo studio non ha evidenziato una particolare "sete di spiritualità" nei teenagers australiani. Secondo Andrew Singleton, della Monash University, «forze sociali come la secolarizzazione, il consumismo capitalista e l'individualismo hanno un notevole impatto nel modellare la religiosità e la spiritualità della generazione Y. Per questi giovani le credenze religiose e spirituali riflettono delle scelte di vita del tutto personali e non sono affatto necessarie».
Ha sorpreso anche la scoperta che non vi sono differenze significative fra le ragazze e i ragazzi. Un dato che preoccupa il cardinale di Sidney George Pell, che ha ricordato come «generazioni di bambini in Australia hanno ricevuto la fede grazie all'esempio delle proprie madri. È difficile immaginare che molte ragazze della generazione Y svolgeranno ancora quel ruolo cruciale quando diventeranno madri a loro volta».
Il presidente dell'Ecuador: il mio socialismo deriva dal Vangelo
da Jesus – dicembre 2007
Chiude il suo intervento all'incontro di Sant'Egidio "Uomini e religioni" citando monsignor Leonidas Proaño, il vescovo degli indios ecuadoregni: “La verità si dice a parole, si realizza con l'azione. Nessuna doppiezza, nessun inganno, perché se aspiriamo a essere liberi, dobbiamo diventare schiavi della verità”. Rafael Correa Delgado, presidente della Repubblica dell'Ecuador, interviene il 21 ottobre al Teatro San Carlo di Napoli. Economista, master a Lovanio e dottorato negli Stati Uniti, 44 anni, rivendica il suo essere socialista e cattolico. Eletto nel novembre del 2006, la sua linea politica ha avuto una conferma plebiscitaria il 30 settembre, quando 9 milioni di ecuadoriani hanno eletto i I30 membri dell'Assemblea costituente. Un impegno - la riscrittura della Costituzione - che Correa ha assunto all'inizio del suo mandato per “andare oltre il dogma neoliberale e le democrazie di plastilina che sottomettono le società alle illusioni del mercato”.
I ripetuti interventi in materia di rapporti con le compagnie petrolifere (costrette oggi a pagare tributi molto più alti allo Stato e tutti gli arretrati accumulati, pena la cessazione dei contratti per lo sfruttamento del greggio) fanno di Correa uno degli astri nascenti della politica latinoamericana. Proprio in riferimento alla futura Costituzione, in un paio di messaggi la Conferenza episcopale ecuadoriana ha espresso l'auspicio che “metta fine alle irregolarità verificatesi negli ultimi anni e possa fornire il binario per le riforme di cui il Paese ha bisogno”. E, il 27 ottobre, ricevendo il nuovo ambasciatore dell'Ecuador presso la Santa Sede, il Papa gli ha chiesto che la nuova carta “contempli le più ampie garanzie per la libertà religiosa”.
In occasione dell'incontro di Napoli abbiamo chiesto al presidente Rafael Correa Delgado quali sono le sue attese rispetto all'azione della Chiesa in America latina e in Ecuador.
“La Chiesa in America latina”, ci ha risposto, “deve ritornare alla questione sociale. Mi piacerebbe moltissimo che risorgesse la Teologia della liberazione, che nasce dalla dottrina sociale della Chiesa. Una teologia completamente legata al Vangelo ma "coinvolta" con la realtà. Non possiamo dimenticare grandi preti, vescovi della Teologia della liberazione che erano esempio di santità, come monsignor Proano o dom Helder Câmara. L'America latina vive questo paradosso: è considerata la regione più cristiana del mondo, ma allo stesso tempo quella con maggior disuguaglianze, con le più profonde differenze e le più dolorose forme di povertà Per questo la Chiesa deve tornare con forza, alla denuncia delle ingiustizie. O siamo cristlanl e denunciamo queste iniquità, o scegliamo di stare dalla parte dell'iniquità ma non ci diciamo cristiani”.
Lei si dichiara cattolico, e di fatto esiste una collaborazione tra la Chiesa e la sua amministrazione. Che cosa manca?
“Dom Helder Câmara diceva: “Quando do da mangiare ai poveri mi chiamano santo, quando parlo delle cause della povertà mi chiamano comunista”. Negli ultimi anni la Chiesa ha assunto una prassi assistenzialista – carità verso i poveri, verso le vittime del sistema – ma è come se avesse smesso di chiedere perché ci sono i poveri e si preoccupasse solo di dare loro da mangiare. Invece ritengo che la Chiesa debba essere più capace di mettere in discussione, di denunciare con forza l'ideologia individualista, che ha rotto la coesione sociale e ha trasformato in merci anche i diritti fondamentali”.
C'è compatibilità tra vangelo e socialismo del XXI secolo?
“Assolutamente si. Non c'è un socialismo, ma ce ne sono de. Uno è quello cristiano, nato nel XX secolo, un socialismo che nega il materialismo dialettico e la lotta violenta, ma si basa sul Vangelo, afferma la supremazia del lavoro sul capitale, persegue la giustizia sociale, sottolinea l'importanza dell'azione collettiva. Il socialismo del XXI secolo è plurale, e uno dei suoi principi è che non esiste un modello, non esistono manuali, e ogni Paese deve rispondere alle proprie specificità. Il socialismo del Venezuela è diverso da quello del Cile e da quello dell'Ecuador. L'azione del nostro governo è anche ispirata a fonti cristiane ed il mio pensiero economico e sociale si fonda in buona parte sulla dottrina sociale della Chiesa. Direi che è un socialismo che si fonda sul Vangelo”.
Pietro Scoppola, figlio modello del Vaticano Il
di Paolo Giuntella
scrittore e giornalista
da Jesus – dicembre 2007
Figlio del Concilio Vaticano II, uomo libero che non aveva paura; uomo di profonda fede che ha sempre legato il suo nome con il destino della nazione, che ha coniugato la libertà del pensiero con la fedeltà, serenamente impegnato, docilmente inquieto” Nelle parole del cardinal Silvestrini pronunciate al funerale di Pietro Scoppola c'è un bel ritratto di questa grande anima che ha traversato la vita politica, civile, culturale, ma anche la vita ecclesiale, del nostro Paese. La Grazia e la Libertà sono il suo ultimo messaggio spirituale. Credere nella Grazia coniugata alla libertà. La presenza divina e la condizione umana.
Storico autorevole e conosciuto ben oltre i confini italiani, Pietro Scoppola, giovanissimo, è stato tra i precursori della ricerca storiografica critica del Movimento cattolico in Italia. Celebri i suoi primi studi sul Modernismo. Poi i libri della prima maturità, su Chiesa e Stato in Italia e Chiesa e fascismo. Infine tutti i libri della sua piena maturità che coincidono anche con il suo progressivo impegno civile e politico: La proposta politica di De Gasperi, La "nuova cristianità" perduta, La Repubblica dei partiti, La Costituzione contesa, La democrazia dei cristiani, La coscienza e il potere, che raccoglie tutti i suoi articoli su Repubblica. Ma tutti attendiamo il suo inedito, il suo testamento spirituale, illustrato agli amici in conversazioni indimenticabili, dedicato sopprattutto alla spiritualità.
Scoppola ha realizzato un'invenzione molto importante a metà degli anni '70, 'onda del Concilio e della prima, grave, crisi della Democrazia cristiana: la Lega democratica, intorno a sé il meglio della cultura cattolico-democratica (ma anche molti giovani impegnati nell'associazionismo) e nelle élite sindacali. L'associazione, molto autorevole e ascoltata, fu l'incubatrice dello spirito dell'Ulivo, di cui Pietro fu poi uno dei fondatori, e dello stesso Partito democratico: Scoppola è stato membro della commissione di saggi incaricata di stenderne il Manifesto. È per molti di noi un "maestro" di laicità e un coerente testimone cristiano, dalla fede granitica. Gli chiesi alcuni giorni prima della morte quale defrnizione preferisse: “Cattolico liberale” o “cattolico democratico”. Mi rispose “tutte e due”, ma poi soggiunse: “Preferirei quella di cattolico cluniacense, lo spirito di riforma ma nella Chiesa, e di cattolico cistercense la povertà, l'essenzialità, la profondità, la bellezza della fede che ci comunicano e trasmettono le abbazie”. Amava molto la defrnizione che ne dette Paolo VI, quando, dopo il trauma del divorzio, nel 1975 monsignor Bartoletti andò dal Papa per chiedergli se nel grande convegno ecclesiale di "Evangelizzazione e promozione umana", potesse coinvolgere Pietro Scoppola che era stato il leader dei cattolici per il "no". Paolo di sl, confermando che era una voce sempre da ascoltare: “Scoppola è un cattolico a modo suo, ma bisogna lasciarlo stare”.