Famiglia Giovani Anziani

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Domenica, 01 Dicembre 2024 10:02

Prima domenica del tempo di Avvento. Anno C

Prima domenica del tempo di Avvento. Anno C

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  Ger 33,14-16

Dal libro del profeta Geremia
 
Ecco, verranno giorni - oràcolo del Signore - nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto alla casa d’Israele e alla casa di Giuda.
In quei giorni e in quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra.
In quei giorni Giuda sarà salvato e Gerusalemme vivrà tranquilla, e sarà chiamata: Signore-nostra-giustizia.
 

Salmo Responsoriale Dal Salmo 24

A te, Signore, innalzo l’anima mia, in te confido.

Fammi conoscere, Signore, le tue vie,
insegnami i tuoi sentieri.
Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi,
perché sei tu il Dio della mia salvezza.

Buono e retto è il Signore,
indica ai peccatori la via giusta;
guida i poveri secondo giustizia,
insegna ai poveri la sua via.

Tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà
per chi custodisce la sua alleanza e i suoi precetti.
Il Signore si confida con chi lo teme:
gli fa conoscere la sua alleanza.

Seconda Lettura 1Ts 3,12-4,2

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési

Fratelli, il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi, per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi.
Per il resto, fratelli, vi preghiamo e supplichiamo nel Signore Gesù affinché, come avete imparato da noi il modo di comportarvi e di piacere a Dio – e così già vi comportate –, possiate progredire ancora di più. Voi conoscete quali regole di vita vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù.
 
Canto al Vangelo (Sal 84,8)


Alleluia, alleluia.

Mostraci, Signore, la tua misericordia
e donaci la tua salvezza.

Alleluia.

Vangelo Lc 21,25-28.34-36

Dal vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte.
Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria.
Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina.
State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo».

OMELIA

Avvento, tempo d’attesa.
Con “uno sguardo attento, in cui l’anima si svuota di contenuto proprio per accogliere in sé quella realtà che solo così essa vede nel suo aspetto vero” (Simone Weil). Questa attesa-attenzione suppone la fine di ogni nostro pregiudizio, desiderio, libertà da ogni opinione, e fine di ogni immaginazione riempitrice di vuoti.
Tempo di fede, ovvero apertura tale da non prevedere nulla se non l’imprevedibile e da non attendere niente se non l’insperato.
«State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano …» (v. 34). Un cuore appesantito, ossia ingombro d’altro, non può far spazio all’Altro che desidera compiersi in noi.
Il contrario di ‘appesantito’ non è ‘leggero’ ma ‘vuoto’, ossia libero da pensieri, immagini, attese, libero dal veleno del desiderio e dell’avversione. Un cuore giunto allo ‘stato di quiete’ per aver mollato la presa ed essere finalmente libero e aperto all’accadere di ciò che deve accadere.
È interessante che Gesù faccia riferimento in particolare a tre possibili malattie del cuore: la dissipazione, l’ubriachezza e l‘affanno (v. 34).
‘Dissipare’ significa disperdere, svanire, rendere inconsistente. C’è il rischio di vivere come fumo, nebbia, in maniera inconsistente appunto, e al primo bagliore del sole costatare che di tutto ciò che si pensava si fosse edificato, non rimane nulla.
‘Vivere da ubriachi’ significa consumare i giorni nell’inconsapevolezza, lasciar accadere le cose senza viverle veramente, mai ‘in sé’, non da protagonisti avendo delegato ad altri il mestiere di vivere.
‘Affannarsi’ poi, è come correre a perdifiato, in continua agitazione, sempre alla ricerca di qualcosa, di una meta, di un orizzonte che – come in un incubo – è destinato a rimanere sempre aldilà, irraggiungibile.
L’Avvento è invito a fermarsi, o perlomeno a rallentare.
La tradizione orientale ci ricorda: «Rimani fermo, e ciò che è destinato a te ti raggiungerà»; «Quando vai nello spazio del nulla, tutto diventa noto».
Avvento come tempo di attesa dunque ma soprattutto di purificazione. Purificarsi soprattutto dalle immagini di Dio che ci portiamo dentro, perché egli è e sarà sempre al di là di ciò che possiamo immaginare e pensare, e potrà farci visita nella misura in cui cessiamo di immaginarlo e cercarlo.
«Dio è una negazione della negazione», dice Meister Eckhart. Va negato come oggetto ‘altro da noi’, perché possa manifestarsi come lo Spirito vivente in noi.

 
Paolo Scquizzato
 
Trentaquattresima domenica del Tempo Ordinario. Anno B
Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'Universo

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  Dn 7,13-14

Dal libro del profeta Daniele
 
Guardando nelle visioni notturne,
ecco venire con le nubi del cielo
uno simile a un figlio d’uomo;
giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui.
Gli furono dati potere, gloria e regno;
tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano:
il suo potere è un potere eterno,
che non finirà mai,
e il suo regno non sarà mai distrutto.
 

Salmo Responsoriale Dal Salmo 92

Il Signore regna, si riveste di splendore.

Il Signore regna, si riveste di maestà:
si riveste il Signore, si cinge di forza.

È stabile il mondo, non potrà vacillare.
Stabile è il tuo trono da sempre,
dall’eternità tu sei.

Davvero degni di fede i tuoi insegnamenti!
La santità si addice alla tua casa
per la durata dei giorni, Signore.

Seconda Lettura Ap 1,5-8

Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo

Gesù Cristo è il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra.
A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.
Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà,
anche quelli che lo trafissero,
e per lui tutte le tribù della terra
si batteranno il petto.
Sì, Amen!
Dice il Signore Dio: Io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!
 
Canto al Vangelo (Mc 11,9.10)


Alleluia, alleluia.

Benedetto colui che viene nel nome del Signore!
Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide!

Alleluia.

Vangelo Gv 18,33-37

Dal vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?».
Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù».
Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».

OMELIA

Pilato, plenipotenziario per conto di Roma in Palestina, domanda a Gesù, tra l’ironico e il sorpreso: «Tu sei re?» (v. 33b).
Tu, che hai le mani legate? Tu che non hai messo nelle tue mani nessuno me ti sei dato nelle mani di tutti? Tu l’innocente che non dichiari guerra senza urlare: ‘vendetta’?
Tu che doni la vita a chi fa fuori la tua, insegnando così che non si vince se non perdonando?
Tu che hai avuto solo un desiderio, quello di prenderti cura e liberare chi ha sempre faticato a stare al mondo, come i poveri, i miseri, gli esclusi, gli sbagliati, le vittime della religione: tu saresti re?
Tu che lavi i piedi a dei poco di buono, che entri in Gerusalemme a dorso d’un asino rifiutando di salire sui carri e i cavalli dei potenti?
Tu che non dai la morte per salvarti la vita, ma accetti di morire perché l’altro possa tornare a vivere?
Tu che non usi armi, ma inviti Pietro a riporre nel fodero la sua?
Sì, caro Pilato, “Io sono re” (cfr. v. 37). Ma lo sono non ‘secondo il mondo’, secondo quella vostra modalità che sa di morte, ma nel senso profondo di questa parola. Il termine re ha come origine la parola sanscrita ‘rags’, da cui deriva anche raggio. Io sono re di luce. Sono l’essere luminoso che illumina e dà la vita. Per questo ho insegnato che l’unico modo per vivere in maniera regale è servire e il solo modo per essere potenti è fare il bene; l’unico modo di possedere è donare ed è solo immettendo luce nel buio che lo si dirada.
‘Sì, sono re’, perché ho compreso che l’unico trono su cui merita salire è la croce, vivendo un amore che sa andare fino alla fine.
E l’unico nemico a cui merita dichiarare guerra è il proprio ego.
«Una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in sé stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo». (Etty Hillesum, 19 giugno 1942)

 
Paolo Scquizzato
 
Trentatreesima domenica del Tempo Ordinario. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  Dn 12,1-3

Dal libro del profeta Daniele
In quel tempo, sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo.
Sarà un tempo di angoscia, come non c’era stata mai dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro.
Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna.
I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre.

Salmo Responsoriale Dal Salmo 15

Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.

Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:
nelle tue mani è la mia vita.
Io pongo sempre davanti a me il Signore,
sta alla mia destra, non potrò vacillare.

Per questo gioisce il mio cuore
ed esulta la mia anima;
anche il mio corpo riposa al sicuro,
perché non abbandonerai la mia vita negli inferi,
né lascerai che il tuo fedele veda la fossa.

Mi indicherai il sentiero della vita,
gioia piena alla tua presenza,
dolcezza senza fine alla tua destra.

Seconda Lettura Eb 10,11-14.18


Dalla lettera agli Ebrei

Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati.
Cristo, invece, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati, si è assiso per sempre alla destra di Dio, aspettando ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi. Infatti, con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati.
Ora, dove c’è il perdono di queste cose, non c’è più offerta per il peccato.
 
Canto al Vangelo (Lc 21,36)


Alleluia, alleluia.

Vegliate in ogni momento pregando,
perché abbiate la forza di comparire davanti al Figlio dell’uomo.

Alleluia.

Vangelo Mc 13,24-32

Dal vangelo secondo Marco

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«In quei giorni, dopo quella tribolazione,
il sole si oscurerà,
la luna non darà più la sua luce,
le stelle cadranno dal cielo
e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte.
Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo.
Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte.
In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.
Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre».

OMELIA

La cronaca quotidiana ci fa memoria di violenze, distruzioni continue e di un male che pare non avere fine.
Anche la primitiva comunità cristiana s’è trovata avvolta in un male indicibile. Roma, la comunità di cristiani cui Marco si rivolge col suo vangelo, è stata messa a ferro e fuoco da Nerone. Gerusalemme da lì a poco verrà rasa al suolo. E Marco riprende le parole del Maestro per infondere pace e serenità ai suoi. “Non abbiate timore, perché questo dolore è paragonabile a quello che precede il parto (cfr. Gv 16. 21): qualcosa di nuovo sta per nascere”.
Il Vangelo ci ricorda che non stiamo andando verso ‘la fine’, ma verso ‘un fine’.
Non siamo fatti per ‘disfarci’, ma per ‘trasfigurarci’.
Purché ci giochiamo la vita non dietro le stars del momento (nel nostro brano i potenti della storia del Medioriente identificati con il Sole, la Luna e le stelle, considerati in quel tempo dèi), destinate ad eclissarsi (vv. 24-25), ma nei valori proclamati nel vangelo: la condivisione, la cura, la giustizia… Se s’investe sul potere, l’avere, il successo del proprio ego, ci si ecclisserà, mentre se si esce dal proprio io per il bene, la giustizia, la pace, si vivrà in pienezza.
Ci s’illumina solo illuminando gli altri.
Il Vangelo di oggi ci ricorda inoltre che quando il male parrà avere trionfato, quando si assisterà alla manifestazione massima del male, allora contempleremo appieno la gloria di Dio: «Vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria» (v. 26). Perché? Semplicemente perché in un venerdì, l’unico santo della storia, è accaduto proprio questo: dinanzi al male assoluto, alla croce di Cristo, alla ‘morte di Dio’, un uomo ha gridato: «davvero quest’uomo era figlio di Dio» (Mc 15, 39): riconoscimento di un amore. Memoria che l’amore riporterà la vittoria solo quando verrà ferito, e che la tenebra, alla fine rivelerà sempre una luce.
 
Paolo Scquizzato
 
Domenica, 10 Novembre 2024 09:26

Due modi di lettura del passaggio del Mar Rosso

Lettura dal punto di vista ebraico di Gilles Bernheim


E perché i figli di Israele si disposero davanti al Mar Rosso secondo l’ordine delle dodici tribù, allo scopo di preservare l’eredità dei figli di Giacobbe, che Dio suscitò il miracolo e gli fece attraversare il mare a piedi.” (Midrach Yalkout reuvéni su Esodo 14)

Il miracolo del Mar Rosso ricorda che le tribù di Israele sono indissociabili l’una dall’altra.

Si potrebbe pensare che questa divisione in 12 tribù abbia perduto,con il passare del tempo, un po’ del suo senso o del suo interesse,che i particolarismi dei padri fondatori della nazione si siano attenuati progressivamente come tutti i particolarismi, seguendo una evoluzione naturale. In effetti, è evidente che, al momento di abbandonare definitivamente l’Egitto dopo generazioni di asservimento e di assimilazione, questa costituzione del popolo in dodici famiglie ha perduto la sua forza originale.

Legati all’eredità dei loro padri

Ora la Torah respinge con forza questa idea. Lungo tutto il capitolo 14 dell’Esodo, il Midrash (commentario omiletico della Bibbia) ritorna regolarmente su questa formale esigenza: ”Come le tribù dei vostri padri, voi beneficerete dell’apertura del mar Rosso ed erediterete la terra di Israele”. Le ultime parole del Midrach, risuonano ancora di questa preoccupazione: ”Ciascuno dei figli di Israele rimase fedele all’eredità dei suoi padri e si radunò davanti al mar Rosso secondo l’ordine delle tribù. ”Quando la Bibbia ripete a sua volta” che nessuna eredità presso i figli di Israele passerà da una tribù all’altra” (Numeri 36,7) manifesta indubbiamente una preoccupazione che non è solamente quella che riguarda la preservazione del patrimonio di ogni tribù, il mantenimento di ciascuna nei limiti che gli saranno assegnati ma va largamente al di là.

Si tratta qui anche di ribadire il carattere peculiare di ciascuna tribù. Il patrimonio specifico di ciascuna deve esprimersi nel mettere radici su di una terra,nel confrontarsi con i problemi politici,ed è questa una prova decisiva.Questa preoccupazione della Torah non può essere vista come una pura e semplice esasperazione delle differenze, cosa che aprirebbe immediatamente la strada ai piccoli nazionalismi pignoli e gelosi a vocazione egemonica rischiando di compromettere seriamente ogni idea di unità

Unità nazionale

Insistendo sulla nozione di tribu, la Torah, vuole promuovere la più completa concezione di unità del popolo, che non deve essere un’unità di facciata. L’unità di un popolo che sia uno, nel senso che ogni individuo sia unico e insostituibile e arrivi ad integrarsi alla dinamica collettiva dando un pieno senso alla sua vita. Nella pratica quotidiana non è, in effetti facile riuscire a situarsi ed evolvere in un’aria mediana, tra un individualismo esacerbato e senza condivisione che non permette ad alcun progetto collettivo di realizzarsi, e un nazionalismo anch’esso portato agli eccessi che ignora ogni particolarismo, sottomettendo gli individui, senza contropartita alla ragion di Stato. I dodici figli di Giacobbe, rappresentano dodici modi differenti di vivere la Legge. Le dodici tribù costituiscono il passaggio obbligato tra l’individuo e la nazione. Ma queste figure per essere veramente operanti non possono essere dei semplici riferimenti letterari, dei modelli” mitici”. Esse debbono continuare ad incarnarsi e ad evolvere nel tempo. Non si è mai trattato di riprodurre e perpetuare nelle tribù le caratteristiche proprie dei padri, nella loro interezza e senza sfumature. Ciascuno di questi padri incarna delle tendenze, uno stile che deve essere piegato, forgiato, fino a giungere ad un completamento nella sua espressione, a livello del gruppo, legato alla sua terra...

Uno stile proprio

Ogni tribù avrà cura di realizzarsi nello “stile” che gli è proprio, completando l’opera dei padri, e assumendo fino in fondo il proprio modo specifico di vivere; in tal modo si realizzerà la trasmissione dei valori patriarcali secondo dodici modi principali che interagiscono nella storia, sola condizione, questa, per perpetuare nella sua interezza l’eredità dei padri.

Così, al di là della semplice esigenza di coesistenza pacifica, si delinea la necessità di mirare ad una complementarietà pienamente accettata e pienamente efficace, condizione per accedere alla vera unità. E già presso i figli di Giacobbe, si delineano delle associazioni, buone o cattive che siano; Simeone e Levi ”coppia maledetta” che Giacobbe voleva dividere e disperdere ad ogni costo (Genesi 49,5-7), Issacar e Zabulon la cui fruttuosa unione proseguirà in maniera esemplare.

Nel Libro dei Numeri nascono nuovi gruppi. Nel campo di Israele (cap 2) le tribù sono disposte a gruppi di tre intorno al Tabernacolo e attraverso questa sistemazione, vengono posti saldamente i fondamenti dell’unità del popolo; la presenza divina può stabilirsi in mezzo ad esso.

Ma questa unità deve ancora realizzarsi con lo stabilirsi in una terra dove porrà le sue radici; là più che mai si dovranno eludere le tentazioni nazionaliste, lasciando posto alla diversità nell’unità.

Per questa ragione la Torah vuole che sia mantenuto questo raggruppamento per tribù e che il Midrash ne sottolinei l’importanza fin dal passaggio miracoloso del mar Rosso, atto fondamentale della storia di Israele.

 
Lettura dal punto di vista cristiano di Joseph Stricher

 

Con il passaggio del mar Rosso,gli Ebrei preparano la via a coloro che verranno dopo di loro

Nella liturgia della chiesa cattolica l’evocazione del passaggio del mare dà il via alle celebrazioni pasquali. Nella veglia del sabato sera, i fedeli si raccolgono sul sagrato, accendono il cero pasquale e l’introducono nella chiesa. Nella penombra, alla luce dei ceri, si innalza il canto dell’Exultet. In questo antico inno, nel quale alcuni elementi risalgono addirittura ad Ambrogio di Milano, si celebra ”la notte in cui hai tratto dall’Egitto i figli di Israele,i nostri padri, e hai fatto passar loro il mar Rosso con i piedi asciutti.È la notte in cui il fuoco di una colonna luminosa respingeva le tenebre del peccato(….)ecco la notte in cui il Cristo ,spezzando i lacci della morte, si è sollevato, vittorioso, dagli inferi(…) O notte di vera felicità, notte in cui il cielo si unisce alla terra, in cui l’uomo incontra Dio.”

L’assemblea ascolta e medita una serie di testi biblici:il poema della creazione, la liturgia di Isacco,il passaggio del mare, seguito dal canto di Mosè:

I carri del Faraone e le sue armate
Egli li lancia nel mare
Tutti i capi sono precipitati nel mare Rosso.
L’abisso li ricopre:
essi affondano,come pietre,nel fondo delle acque.

L’Exultet, come la selezione del testo, si ispira al poema ebraico delle quattro notti che segnano il mondo:creazione, Abramo, Pasqua, venuta del messia (Targoum Neofiti Esodo 12,42). Dopo alcune altre letture viene la liturgia battesimale. Il prete benedice l’acqua: ”Ai figli di Abramo tu hai fatto passare il Mar Rosso a piedi asciutti, affinché il popolo di Israele, liberato dalla schiavitù, prefiguri il popolo dei battezzati(….) che scenda su quest’acqua la potenza dello Spirito santo, affinché ogni uomo che sarà battezzato, sepolto nella morte con il Cristo, resusciti con il Cristo per la vita”.

La pasqua cristiana celebra la resurrezione del Cristo, ma, come si può constatare, si situa ugualmente in continuità con la Pasqua ebraica. Vi si celebra la potenza di Dio che fa passare il mar Rosso a piedi asciutti ai nostri padri e che fa passare Gesù dalla morte alla vita. Il passaggio del mare è un’immagine della morte-resurrezione di Gesù e un’immagine del battesimo. Gesù è stato immerso nella morte per rinascere a una vita nuova. ”Per il battesimo, nella sua morte, siamo stati dunque sepolti con lui affinchè, come Cristo è risuscitato dai morti per la gloria del Padre, viviamo anche noi una vita nuova” così scrive Paolo nella sua lettera ai Romani (6,4).

Il passaggio del mare è oggetto di una lettura tipologica. Ciò significa che gli avvenimenti raccontati nella Bibbia servono da esempio alle generazioni successive e sono immagine di ciò che si realizzerà in pienezza in Gesù Cristo. Un passaggio della Lettera ai Corinti illustra bene questo tipo di esegesi. Paolo viene a sapere che alcuni Corinti sono pieni di orgoglio. Essi pensano che, poiché sono battezzati possono permettersi tutto, compreso mangiare la carne offerta agli idoli, con il rischio di scandalizzare i più deboli. Paolo ricorda loro che la salvezza non è acquisita una volta per tutte. Lo prova ciò che è avvenuto alla uscita dall’Egitto: ”I nostri padri sono stati tutti sotto la protezione della nube, e tutti hanno passato il mar Rosso. Tutti sono stati, per così dire, battezzati in Mosè, nella nube e nel mare (…). Tuttavia, la maggior parte di essi hanno fatto dispiacere a Dio, e sono caduti nel deserto.” (10,1-2,5)

“Battezzati in Mosè” l’espressione è stupefacente. Essa significa che Mosè è una figura del Cristo. La colonna di nubi - (colonna di nubi il giorno per aprir loro la strada, colonna di fuoco la notte per illuminarli, secondo Esodo 13,21, simbolo della presenza di Dio) – e il passaggio del mare sono figure del battesimo.

Nel suo sermone per l’Epifania S.Massimo di Torino (≈ 415) commenta: la colonna di fuoco si è avanzata per prima attraverso il mar Rosso affinché i figli di Israele la seguissero senza paura. Essa ha attraversato le acque per prima per preparare la strada a quelli che l’avrebbero seguita. Fu questo , dice l’apostolo, un mistero prefigurante il battesimo. Si, fu come un battesimo, quando la nube ricopriva gli uomini e le acque li portava. In un modo più popolare, ritroviamo questa idea negli spirituals che associano il passaggio del mare al battesimo.

Quando Mosè conduceva il popolo d’Israele
Verso Canaan
(mar Rosso!)
Faraone corse loro dietro, per il solo piacere
Di essere crudele
(mar Rosso!)
Oh Faraone, è annegato, annegato, oh là là!
Oh Faraone, è annegato nel mar Rosso!
Non dimenticherò mai che un bel giorno
(mar Rosso!)
Gesù mi lavò nel suo amore
(mar Rosso!)

Terminiamo con il diacono Ephrem ( IV sec.). Per mostrare la novità apportata dal Cristo, egli associa nella stessa gioia pasquale il risveglio della natura in primavera, il passaggio del mare e la resurrezione di Gesù. Ecco un breve estratto: ”Nel mese di Nisan, quando i fiori imprigionati uscirono dai loro germogli, i bambini, a loro volta, uscirono dalla loro camera. Era festa; essi gioirono insieme per il loro bel Signore, i bambini e i fiori (…). Nel mese di Nisan, il mese rigoglioso che genera i canti, i bambini donarono la loro voce, senza più aver paura (…). Con l’agnello pasquale, i bambini poterono uscire e,come degli agnelli fuori del recinto, saltarono liberamente.” (Da Azymis XI)

(tratto da Le Monde des Religions, n. 4, pp. 53-56)

 

Trentaduesima domenica del Tempo Ordinario. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  1Re 17,10-16

Dal primo libro dei Re

In quei giorni, il profeta Elia si alzò e andò a Sarèpta. Arrivato alla porta della città, ecco una vedova che raccoglieva legna. La chiamò e le disse: «Prendimi un po’ d’acqua in un vaso, perché io possa bere».
Mentre quella andava a prenderla, le gridò: «Per favore, prendimi anche un pezzo di pane». Quella rispose: «Per la vita del Signore, tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ d’olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a prepararla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo».
Elia le disse: «Non temere; va’ a fare come hai detto. Prima però prepara una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne preparerai per te e per tuo figlio, poiché così dice il Signore, Dio d’Israele: “La farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non diminuirà fino al giorno in cui il Signore manderà la pioggia sulla faccia della terra”».
Quella andò e fece come aveva detto Elia; poi mangiarono lei, lui e la casa di lei per diversi giorni. La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunciato per mezzo di Elia.

Salmo Responsoriale Dal Salmo 145

Loda il Signore, anima mia.

Il Signore rimane fedele per sempre
rende giustizia agli oppressi,
dà il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri.

Il Signore ridona la vista ai ciechi,
il Signore rialza chi è caduto,
il Signore ama i giusti,
il Signore protegge i forestieri.

Egli sostiene l’orfano e la vedova,
ma sconvolge le vie dei malvagi.
Il Signore regna per sempre,
il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione.

Seconda Lettura Eb 9,24-28


Dalla lettera agli Ebrei

Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte.
Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza.
 
Canto al Vangelo (Mt 5,3)


Alleluia, alleluia.

Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.

Alleluia.

Vangelo Mc 12,38-44

Dal vangelo secondo Marco

In quel tempo, Gesù [nel tempio] diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa».
Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo.
Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».
 

OMELIA

Nel Tempio di Gerusalemme, luogo preposto all’unione con Dio, occorreva pagare una tassa per poterci entrare, attenendosi così al ‘do ut des’ commerciale di ogni religione: ‘io ti do e tu mi dai’.
A capo della casta religiosa al tempo di Gesù – dedita a ‘cantare i salmi e contare i soldi’ – vi erano gli scribi, da Gesù definiti, senza mezzi termini, ipocriti – ossia teatranti -, guide cieche, scriteriati, sepolcri imbiancati e razza di vipere. Rappresentanti dell’establishment religioso, fungevano da ‘guardiani del tempio’, arrogandosi il diritto di stabilire chi dovesse starne fuori o dentro.
Gesù fa saltare questa logica commerciale propria di una religione malata. L’essere umano non deve pagare nulla per entrare in rapporto col Mistero: ‘La grazia è senza sforzo’ dirà Simone Weil.
Tutto è già dato. Stiamo già partecipando alla vita divina, occorre solo prenderne coscienza. Nelle cose dello Spirito non c’è un dentro o un fuori, ma piuttosto un ‘emergerne’ in quanto già partecipi di quel medesimo Spirito.
Gesù non ha mai detto di dover morire per un dio, ma solo al proprio io (cfr. Mt 16, 24). E questo significa vivere il distacco dalla propria psiche portata a dettare la mappa con cui tendiamo a leggere il territorio della vita, distacco dai propri piccoli interessi che fanno perdere di vista l’altro, distacco dalla sete di potere che conduce a servirsi delle persone piuttosto che servirle.
“Morto come qualcuno risorgo come nessuno”. In questo essere ‘nessuno’, come insegna l’Ulisse omerico, ci si scoprirà finalmente risorti a sé stessi e salvi.

 
Paolo Scquizzato
 
Domenica, 03 Novembre 2024 10:19

Anatomia della tristezza (Arnaldo Pangrazzi)

«La vita non è che una lunga perdita di tutto ciò che si ama. Ci lasciamo dietro una scia di dolori» (V. Hugo).

La precarietà dei legami e l'inevitabilità dei distacchi genera tristezza e la presenza accentuata di questa emozione tende a riflettersi sul corpo, abbassando le difese immunitarie – con il rischio di contrarre malattie – e spegnendo l'energia vitale, come confermano le seguenti espressioni: «Ho il cuore spezzato»; «Vedo tutto nero»; «Ho il cuore in gola»; «Non sto più in piedi».

La postura stessa di chi è triste annuncia prostrazione: corpo ricurvo, fronte corrugata, sguardo spento, voce tenue o lamentosa, respiro corto, lacrime o singhiozzi, dolori muscolari, lentezza dei movimenti. Una tristezza temporanea o passeggera è benefica e si lenisce facendo un bel pianto, confidandosi con qualcuno, ritirandosi dalla scena, facendo ricorso ad attività fisiche e/o tuffandosi nel lavoro.

Il problema si pone quando l'emozione si cristallizza e sfocia nella depressione, richiedendo psicoterapia o farmaci. Con frequenza, la persona triste è succube di sensi di colpa e palesa sbalzi di umore, atteggiamenti passivi, difficoltà sociali e relazionali, incomunicabilità e demotivazione.

La sensazione di essere inadeguato e/o incompreso si ripercuote sulla salute anche con sintomi quali: affanno respiratorio, mancanza di appetito, insonnia, diminuzione della temperatura corporea e aumento di sensibilità al freddo.

Percorsi positivi

La tristezza, in sé, non è né positiva né negativa, dipende da come è gestita: può contribuire a vivere le relazioni in maniera più profonda o sfociare in comportamenti problematici.

Esaminiamo, innanzitutto, i benefici di questa emozione, riconoscendo che il suo primo frutto è la compassione. La vocazione di molti buoni samaritani (medici, infermieri, psicologi, sacerdoti, volontari...) nasce, spesso, all'ombra della tristezza che si prova dinanzi al patire degli altri e dal bisogno di alleviarla attraverso il proprio intervento.

Un secondo frutto della tristezza è il dono dell'introspezione. Chi è triste si guarda dentro, ricorda il passato e riflette su come districarsi dalla prigione dei suoi umori.

Un terzo frutto della tristezza è il bisogno di condivisione. Quando si prova un dispiacere o ci si sente soli, si avverte il bisogno di contattare una persona amica per lenire il peso di queste emozioni.

I gruppi di auto mutuo aiuto hanno lo scopo di promuovere la condivisione e la guarigione delle persone ferite.

Un quarto frutto della tristezza è il bisogno di intimità. Inizialmente, quando si è addolorati o mortificati, si è portati a distanziarsi dal coniuge, amico o collega. Dopo un tempo di ritiro, il magone della solitudine spinge a riallacciare i rapporti, cicatrizzare le ferite e sperimentare di nuovo la vicinanza. Questo obiettivo si raggiunge con l'umiltà, lasciando cadere l'orgoglio e perdonandosi a vicenda.

Un quinto frutto della tristezza è la creatività. Molte persone trasformano la tristezza in espressioni creative, quali scrivere poesie, dipingere, comporre musica, ideare cose artistiche. Creatività intesa come capacità di generare "cose nuove" sublimando il proprio cordoglio.

Percorsi problematici

I modi controproducenti di gestire la tristezza riguardano:

L'isolamento e l'incomunicabilità: questi comportamenti possono disturbare i rapporti, acutizzare il travaglio, consumare preziose energie mentali e psichiche.

L'abbandono al pessimismo o al vittimismo: i soggetti filtrano gli eventi e le relazioni in un'ottica di catastrofismo e insoddisfazione cronica.

La tendenza a rifugiarsi nel sogno e nella fantasia, per compensare la noia o le presenze percepite banali o non rispondenti alle proprie attese.

L'inclinazione alla depressione dinanzi ai disappunti di un'esistenza orfana di speranza.

Il rischio che il crescente disagio interiore si trasformi in problemi mentali e psichici che richiedono l'assistenza sanitaria.

Un'energia umanizzante

Illudersi di eliminare la tristezza è come pretendere di eliminare la notte dal giorno. Goethe affermava che: «Se non hai mai mangiato con le lacrime agli occhi, non conosci il sapore della vita».

La tristezza ha molto a che fare con la vita, l'amore, gli eventi incresciosi, le delusioni nel rapporto con Dio, gli altri e se stessi. Dove c'è amore c'è dolore e il dolore purificato si trasforma in accresciuta capacità di amare.

Essere umani vuol dire offrire ospitalità a questo sentimento che serve a renderci più compassionevoli e sensibili alle vulnerabilità proprie e del mondo circostante.

 

Arnaldo Pangrazzi

 

(tratto da Missione Salute, n. 6/2021, pag. 64)

 

 Capitolo III

Il Crocifisso, volto teologico del Risorto

Per capire quale sia questo nuovo significato occorre prima di tutto rinsaldare il legame tra crocifissione e resurrezione, legame che spesso si è portati a sciogliere o quantomeno a non considerare. Se è vero che «senza risurrezione la morte di Gesù dimostrerebbe soltanto la non-esistenza di Dio»95 – o, peggio, la sua impotenza di fronte al male – è altrettanto vero che concentrarsi sulla resurrezione senza riflettere adeguatamente sulla crocifissione rischia di gettare nell’ombra aspetti fondamentali dell’economia della redenzione e delle modalità d’azione di Dio. Scrive al riguardo G. Rossé: «Certamente il punto di partenza della fede cristiana, e di conseguenza dell’annuncio apostolico, è la risurrezione di Gesù. [...] Ma annunciare dinanzi a Israele che Dio ha risuscitato Gesù implica necessariamente proclamare come Messia e Signore un morto in croce. Chi annuncia Gesù risorto deve affrontare lo scandalo della croce. Il Crocifisso è parte integrante del messaggio pasquale. L’attenzione della giovane Chiesa non poteva non portarsi su quel Crocifisso che la Scrittura dice “maledizione di Dio”, e che Dio ha risuscitato ponendosi totalmente dalla parte di quel maledetto. Ciò che per l’ebreo è scandalo, per la fede cristiana diventa la rivelazione suprema di chi è Dio. È nel Crocifisso, considerato come respinto da Dio, che si manifesta paradossalmente la verità ultima su Dio e sul suo agire a favore dell’umanità. Il Crocifisso è il volto teologico del Risorto»96.

Paolo concentra l’attenzione proprio sulla morte di Gesù in croce, attribuendole una funzione critica nei confronti dei sapienti e dei forti di questo mondo: la croce svela l’illusione della loro forza e sapienza; Gesù crocifisso rovescia completamente la gerarchia dei valori: Dio si rivela là dove l’uomo non lo cerca, nella debolezza e nella morte; il Cristo sulla croce stravolge l’immagine di Dio che l’uomo religioso tende a costruirsi, quella di un Dio potente, glorioso, spesso lontano e tirannico. Come dice Udo Schnelle: «Per Paolo, la croce di Cristo è il criterio teologico decisivo; egli non argomenta sulla croce, ma parla a partire dalla croce»97. Nella morte del Figlio, l’amore divino ha preso definitivamene dimora, ha stabilito la sua tenda; Gesù crocifisso è il luogo della conoscenza ultima del vero Dio. «Gesù crocifisso – scrive ancora Rossé – è la via migliore che Dio abbia potuto scegliere per raggiungere il Suo fine di salvezza: penetrare fino in fondo nella condizione umana, per rivelarsi vicino all’umanità nella sua lontananza da Dio e salvarla dal di dentro portandola in Lui, al suo compimento escatologico»98.

L’adesione incondizionata al disegno del Padre ha condotto Gesù a solidarizzare totalmente con l’assenza di Dio che caratterizza la condizione non escatologica e di peccato dell’umanità. Il Crocifisso rivela che ogni situazione di non-Dio può essere trasformata in comunione piena con Dio. La croce di Cristo mette in crisi tutti i sistemi religiosi costruiti dall’uomo per conoscere e raggiungere l’Essere Supremo99 in questo senso la passione di Gesù è per molti versi l’opposto del sacrificio: se i sacrifici sono un momento di incontro del fedele con Dio (cfr. Es 20,22 – 26)100, la croce di Cristo è un momento (e un luogo) in cui Dio sembra del tutto assente; se il sacrificio è una pratica cultuale con cui l’uomo offre doni alla divinità per ringraziarla o guadagnarne i favori, sul Golgota appare chiaro che pratiche di questo genere, peraltro messe in atto dall’élite religiosa del popolo eletto, non solo sono vane, ma hanno esiti disastrosi: il deicidio. Gli sforzi che i più religiosi tra gli uomini compiono per difendere Dio si traducono – paradosso dei paradossi – nell’uccisione di Dio.

Marco Galloni

 

95 G. Rossé, op. cit., p. 107.

96 Ivi, p. 17.

97 U. Schnelle, Paulus. Leben und Denken, Walter de Gruyter GmbH & Co., Berlin, 2003, p. 209.

98 G. Rossé, op. cit., p.19.

99 Ivi, pp. 19 – 21.

100 Cfr. G. Deiana, op. cit., p. 51.

 

testo precedente

 

Trentunesima domenica del Tempo Ordinario. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  Dt 6,2-6

Dal Libro del Deuteronomio

Mosè parlò al popolo dicendo:
«Temi il Signore, tuo Dio, osservando per tutti i giorni della tua vita, tu, il tuo figlio e il figlio del tuo figlio, tutte le sue leggi e tutti i suoi comandi che io ti do e così si prolunghino i tuoi giorni.
Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica, perché tu sia felice e diventiate molto numerosi nella terra dove scorrono latte e miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto.
Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze.
Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore».

Salmo Responsoriale Dal Salmo 17

Ti amo, Signore, mia forza.

Ti amo, Signore, mia forza,
Signore, mia roccia,
mia fortezza, mio liberatore.

Mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio;
mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo.
Invoco il Signore, degno di lode,
e sarò salvato dai miei nemici.

Viva il Signore e benedetta la mia roccia,
sia esaltato il Dio della mia salvezza.
Egli concede al suo re grandi vittorie,
si mostra fedele al suo consacrato.

Seconda Lettura Eb 7,23-28

Dalla lettera agli Ebrei

Fratelli, [nella prima alleanza] in gran numero sono diventati sacerdoti, perché la morte impediva loro di durare a lungo. Cristo invece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio: egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore.
Questo era il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli. Egli non ha bisogno, come i sommi sacerdoti, di offrire sacrifici ogni giorno, prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo: lo ha fatto una volta per tutte, offrendo se stesso.
La Legge infatti costituisce sommi sacerdoti uomini soggetti a debolezza; ma la parola del giuramento, posteriore alla Legge, costituisce sacerdote il Figlio, reso perfetto per sempre.
 
Canto al Vangelo (Gv 14,23)


Alleluia, alleluia.

Se uno mi ama, osserverà la mia parola, dice il Signore,
e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui.

Alleluia.

Vangelo Mc 12,28-34

Dal vangelo secondo Marco

In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?».
Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi».
Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici».
Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.
 

OMELIA

Si avvicina a Gesù uno scriba, un’autorità nel gotha religioso di quei tempi. Il suo insegnamento era ritenuto talmente importante da essere considerato infallibile, voce terrena della medesima volontà celeste. 

Questi pone una domanda tendenziosa all’uomo di Nazareth: “qual è il primo di tutti i comandanti lasciatici da Dio?”. Tendenziosa perché finanche un bimbo sapeva che il primo comandamento – a cui Dio stesso obbedisce essendosi riposato in quel giorno – è l’osservanza del sabato. In un passo dell’Esodo si ha Dio che ordina addirittura di mettere a morte chi avesse disatteso il precetto. 

Gesù glissa, non risponde come il mondo religioso si sarebbe atteso, e cita il grande Credo d’Israele, lo Shemà Israel, tratto dal Libro del Deuteronomio (6, 4-5). E spiazza lo scriba. 

“Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Interessante che venga anzitutto ‘comandato’ il silenzio: ‘ascolta’! Non ‘fare, o non fare’ per la divinità, ma ‘ascoltare’, dar spazio, lasciarsi raggiungere da Lui, per essere da Lui trasformati per poi agire come Lui. 

C’è ancora un aspetto interessante: Gesù cita testualmente Deuteronomio ma aggiunge: ‘con tutta la mente’, a dirci di essere ragionevoli nell’atto di fede, coltivare lo studio, l’approfondimento delle cose di Dio. Una fede senza ragione è scriteriata, fideismo, superstizione, becero devozionismo. 

Gesù però non si limita a citare lo Shemà, s’appresta a dire che vi è un secondo comandamento fondamentale. E questa volta lo recupera dal libro del Levitico: ‘amare il prossimo come se stessi’, tradotto potremmo dire: prendersi cura perché gli altri possano giungere a vivere in pienezza, alla luce di sé

Con questa aggiunta, Gesù vuole evitare che si caschi in una tentazione molto diffusa allora come oggi, ossia che vi possa essere un amore totalizzante per la divinità, fatta di culti, riti, sacrifici, preghiere fine a sé stesso. Dio va amato certo con tutto l’essere, ma la modalità è l’amore verso gli altri! Questo è il comandamento: l’amore di Dio inverato nell’amore al prossimo. 

Quelli che pensavano che l’amore verso la divinità s’esaurisse in un commercio devozionale con essa, Gesù li aveva appena scacciati dal tempio, definendoli ladri (cfr. Mc 11, 17). 

Ebbene, il Nuovo Testamento su questo è chiarissimo: la strada più breve per giungere a Dio è passare dai fratelli. 

Marco riguardo i due comandamenti afferma un primo e un secondo, ma alla fine dice: «non c’è comandamento (uno solo) più grande di questi», a dire che il comandamento è unico. 

Matteo (22, 39) dirà ‘il secondo è simile a quello (lo Shemà); Luca addirittura fonda insieme i due precetti (10, 27). 

In Giovanni Gesù va ancora oltre: «Vi do un (uno solo) – comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri» (13, 34). E Paolo: «Pieno compimento della Legge è l’amore» (Rm 13, 8-10). 

Alla fine lo scriba cede, e si complimenta con Gesù, compiendo un passaggio formidabile rispetto la religione comune: “L’amore verso i fratelli vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici” (v. 33), considerati allora fondamento della religione, quella esteriore e commerciale, intenta solo ad estorcere alla divinità un ritorno personale con pratiche devozionali. 

La religione non si risolve in un rapporto verso l’Alto, occorre l’uscita verso l’altro, la cura dei fratelli. In fondo lo Scriba conosce molto bene la Scrittura, infatti ne cita due passaggi: 

“Praticare la giustizia e l’equità per il Signore vale più di un sacrificio” (Pro 21, 3) 

Voglio l’amore – dice Dio – e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti” (Os 6, 6; cfr. Mt 9, 13; 12, 7). 


 
Paolo Scquizzato
 
Domenica, 03 Novembre 2024 09:50

Trentesima domenica del tempo ordinario. Anno B

Trentesima domenica del Tempo Ordinario. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  Ger 31,7-9

Dal Libro del profeta Geremia

Così dice il Signore:
«Innalzate canti di gioia per Giacobbe,
esultate per la prima delle nazioni,
fate udire la vostra lode e dite:
“Il Signore ha salvato il suo popolo,
il resto d’Israele”.
Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione
e li raduno dalle estremità della terra;
fra loro sono il cieco e lo zoppo,
la donna incinta e la partoriente:
ritorneranno qui in gran folla.
Erano partiti nel pianto,
io li riporterò tra le consolazioni;
li ricondurrò a fiumi ricchi d’acqua
per una strada dritta in cui non inciamperanno,
perché io sono un padre per Israele,
Èfraim è il mio primogenito».

Salmo Responsoriale Dal Salmo 125

Grandi cose ha fatto il Signore per noi.

Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia.

Allora si diceva tra le genti:
«Il Signore ha fatto grandi cose per loro».
Grandi cose ha fatto il Signore per noi:
eravamo pieni di gioia.

Ristabilisci, Signore, la nostra sorte,
come i torrenti del Negheb.
Chi semina nelle lacrime
mieterà nella gioia.

Nell’andare, se ne va piangendo,
portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con gioia,
portando i suoi covoni.

Seconda Lettura Eb 5,1-6

Dalla lettera agli Ebrei

Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati.
Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo.
Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», gliela conferì come è detto in un altro passo:
«Tu sei sacerdote per sempre,
secondo l’ordine di Melchìsedek».
 
Canto al Vangelo (Cf 2Tm 1,10)


Alleluia, alleluia.

Il salvatore nostro Cristo Gesù ha vinto la morte
e ha fatto risplendere la vita per mezzo del Vangelo.

Alleluia.

Vangelo Mc 10,46-52

Dal vangelo secondo Marco

In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!».
Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!».
Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.
Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.
 

OMELIA

Siamo ciechi, perché presumiamo di vederci benissimo. 

Presumiamo che ciò che i nostri occhi sensibili attestano, sia tutta la realtà. 

Ma non è così. Ce lo ricorda il famoso aforisma di Saint-Exupérie: ‘L’essenziale – ciò che veramente conta – è invisibile agli occhi’. Sta da un’altra parte. La vita sta da un’altra parte. 

Ecco perché le grandi tradizioni spirituali parlano di un ‘terzo occhio’, ossia di una possibilità altra di rapportarsi col mondo, con la realtà, con gli altri. Per il Taoismo esistono addirittura ottantuno livelli diversi di sguardi sulla realtà. E paradossalmente, i veri saggi, gli illuminati e i lungimiranti nell’antichità erano spesso ciechi. 

Occorre chiudere gli occhi sul mondo per cominciare a percepirlo nella sua verità. 

Chiudere con i nostri sensi superficiali, le nostre sensazioni, i nostri giudizi egoici: mi piace-non mi piace, mi è favorevole-mi è contro, giusto-sbagliato, bene-male… 

Il primo passo da fare non sarà dunque quello d’imporsi di ‘cambiare’ la realtà a tutti i costi, ma guardarla piuttosto con occhi diversi per giungere a viverla con un atteggiamento altro. 

Qui potrà cominciare un autentico cammino di fede. Vivere la vita con fede vuol dire infatti sapere che il male di cui si è spettatori e vittime non è l’ultima parola ma solo la penultima; che non occorre opporsi al malvagio, ma piuttosto rispondergli facendo il bene (cfr. Mt 5, 39); che alla tenebra – il male – non va fatta violenza per disintegrarla, ma è sufficiente avvolgerla col bene, con la luce e quella si dissolverà. Vivere con fede significa guardare il mondo come sotto il segno della croce, ossia amato da Dio e quindi già salvato, destinato a un porto di bene. 

Cominceremo un cammino di illuminazione quando riconosceremo di essere ciechi, quando prenderemo coscienza di essere ammorbati da una mentalità omicida e suicida, incentrata cioè sul potere, sull’avere e sul successo. 

Saremo illuminati quando anche noi come Bartimeo cominceremo a gridare la nostra malattia esistenziale, quella che ci ha relegati paralizzati ai bordi della strada dell’esistenza. Quando scopriamo che solo nella nostra povertà e nel nostro peccato possiamo fare esperienza della salvezza, e che solo perché tenebra possiamo essere raggiunti dalla Luce scoprendoci finalmente figli amati e donne e uomini illuminati. 


 
Paolo Scquizzato
 
Ventinovesima domenica del Tempo Ordinario. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  Is 53,10-11

Dal Libro del profeta Isaia

Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione,
vedrà una discendenza, vivrà a lungo,
si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce
e si sazierà della sua conoscenza;
il giusto mio servo giustificherà molti,
egli si addosserà le loro iniquità.

Salmo Responsoriale Dal Salmo 32

Donaci, Signore, il tuo amore: in te speriamo.

Retta è la parola del Signore
e fedele ogni sua opera.
Egli ama la giustizia e il diritto;
dell’amore del Signore è piena la terra.

Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme,
su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte
e nutrirlo in tempo di fame.

L’anima nostra attende il Signore:
egli è nostro aiuto e nostro scudo.
Su di noi sia il tuo amore, Signore,
come da te noi speriamo.

Seconda Lettura Eb 4,14-16

Dalla lettera agli Ebrei

Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede.
Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato.
Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.
 
Canto al Vangelo (Mc 10,45)


Alleluia, alleluia.

Il Figlio dell’uomo è venuto per servire
e dare la propria vita in riscatto per molti.

Alleluia.

Vangelo Mc 10,35-45

Dal vangelo secondo Marco

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
 

OMELIA

«Cosa volete che io faccia per voi?» (v. 36), chiede Gesù ai suoi discepoli. 

«Vogliamo la gloria», rispondono loro. (v. 37). 

«Voi non sapete quello che chiedete», ribatte loro Gesù (v. 38)

Mentre noi chiediamo la gloria per diventare grandi, Gesù indica la via del farsi piccoli prendendosi cura di qualcuno. 

Alla nostra ‘vana-gloria’ Gesù indica l’unica gloria possibile, quella della croce: stazione ultima dell’amore. 

Dirsi cristiani significa acquisire una postura esistenziale altra rispetto a quella del mondo. 

«Tra voi però non è così» (v. 43). Tra voi deve affermarsi un altro stile di vita, quello fondato sul bene, sulla luce, unica possibilità perché le tenebre possano dissolversi. Uno stile incentrato sulla giustizia sociale e l’equità. Sul perdono e su una cultura di pace. 

Gesù indica un capovolgimento da vertigine: più si esce dal proprio ego più si è grandi. Più si è grandi più ci si mette a servizio. 

“Chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti” (v. 44). Viene usato qui il termine ‘schiavo’: il servo è colui che “lavora” per l’altro; lo schiavo “appartiene” all’altro. L’amore è appartenenza al cuore dell’altro, non vita da mestierante. 

Dare la vita’ significherà dunque sia morire che dare alla luce, far nascere. Perché l’amore alla fine consiste in questo: essere disposti a morire perché l’altro possa cominciare finalmente a vivere.

 
Paolo Scquizzato
 
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